UNIVERSITÀ E SCUOLA
Salute mentale all’università. Cosa ci ha raccontato chi studia e lavora negli atenei italiani

Competizione, paura di non essere all’altezza, carichi di lavoro eccessivi, la sensazione di non avere tempo sufficiente per rispettare le scadenze, come se la giornata non fosse abbastanza lunga per portare a termine tutto ciò che si vorrebbe.
Sono alcuni dei fattori più comuni che influenzano negativamente la salute mentale di studenti e studentesse degli atenei italiani. Emergono dalle risposte al nostro sondaggio sulla salute mentale all’università che è circolato sui social nei mesi scorsi. Sono quindi il risultato di un’inchiesta giornalistica che non ha nessuna pretesa di validità scientifica, ma che voleva provare a prendere la temperatura al corpo studentesco.
Sono indicazioni che, sostanzialmente, sono comunque in linea con la interviste a esperti ed esperte che abbiamo realizzato nei mesi scorsi e raccontano di un malessere che, seppure non predominante tra le migliaia di persone che frequentano l’università italiana, viene sperimentato da un consistente numero di studenti e studentesse che faticano a stare bene tra le aule degli atenei.
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Cosa ne sarà di me?
Un aspetto importante e trasversale emerso dalle risposte al nostro questionario e dagli studi che abbiamo consultato è la preoccupazione per il futuro. Per alcuni studenti e studentesse, l’attuale configurazione del percorso universitario non favorisce il benessere di tutti e tutte. Viene spesso percepito come un “passaggio obbligato perché fornisce il titolo necessario per il dopo” a discapito di una università come “spazio per l’esplorazione del proprio futuro”. Era emerso dal colloquio con Mauro Di Lorenzo, psicoterapeuta dell’Istituto Minotauro di Milano che sulla base della sua esperienza con giovani adulti ci ha tracciato un quadro di potenziali punti di attrito.
“ La società in cui viviamo non reputa importante investire nella ricerca; quindi, le occasioni di trovare lavoro in questo paese in accordo con quello che si è studiato sono davvero poche […] l'unica cosa importante è il risultato, a scapito della cultura Studentessa magistrale, 24 anni
Pur non negando l’importanza del pensiero rivolto al futuro, Claudio Gentili, che all’università di Padova dirige il Centro di Ateneo dei Servizi Clinici Universitari Psicologici (SCUP), pensa però che per la maggior parte di studenti e studentesse, una volta entrati nel percorso universitario, “i problemi siano molti altri: difficoltà economiche, ad esempio, come nel caso delle famiglie che non riescono a sostenere chi studia fuori sede”. Ma anche problemi legati all'università stessa, come “non riuscire a dare esami, non ottenere i risultati desiderati. E poi difficoltà relazionali”.
L’angoscia per il futuro sembra riguardare soprattutto chi si avvicina alla fine del percorso accademico e si prepara a entrare nel mondo del lavoro. I problemi legati alla stabilità economica, invece, emergono trasversalmente lungo tutto il percorso universitario e, secondo i risultati del nostro sondaggio, sembrano preoccupare più gli studenti e le studentesse triennali e magistrali, rispetto a chi è alle prese con un dottorato o un assegno di ricerca.
“Credo che sia cambiata la società”, spiega Gentili, “quindi c’è un problema non individuale, ma non direttamente clinico. Lo abbiamo visto molto bene alla fine della pandemia, quando alcuni studenti hanno continuato a chiedere la didattica a distanza a causa della crisi degli alloggi; perciò, rimanere a casa propria poteva rappresentare un significativo alleggerimento sul piano economico".
“ Studiare e lavorare per l'Università mi ruba tutto il tempo libero. Non esiste sabato o domenica: tutto il tempo è dedicato all'Università, in un modo o nell'altro Studente magistrale, 29 anni
La vita fuori sede può essere fonte di stress anche per altri motivi, diversi da quelli economici. Più di una persona che ha risposto al nostro sondaggio, infatti, ha raccontato che “quando non si studia, occorre occuparsi delle faccende domestiche, pena malumori e conflitti con coinquilini. Il tempo da dedicare ad attività ricreative, dallo sport alla semplice passeggiata al parco, è pressoché inesistente” o che “la pressione di vivere da soli […] è un aspetto da non sottovalutare in quanto strettamente collegato alla vita universitaria, facendosi sia influenzare da essa, che influenzarla a sua volta”. Un racconto che conferma quanto sottolineato da Gentili: sono molte le difficoltà quotidiane che impattano sulla vita universitaria.
Chi viene dall’estero è più fragile
Alcuni partecipanti al sondaggio hanno raccontato di frequentare l'università in un paese diverso da quello di origine, dichiarandosi particolarmente preoccupati per il futuro e per la loro situazione economica. Inoltre, hanno affermato di sperimentare spesso difficoltà nella sfera relazionale. Quest’ultimo dato è in linea con quanto emerso da diversi studi in letteratura scientifica, secondo i quali gli studenti internazionali tendono a soffrire maggiormente di solitudine e isolamento sociale.
“ Solitudine, non essendo [l’università] uno spazio dove le persone vengono a socializzare. Come studentessa straniera, il fatto che manco i miei compagni socializzano tra di loro rende impossibile avvicinarmi e provare a costruire una relazione con essi Studentessa triennale internazionale, 22 anni
Insomma, per chi sceglie di venire a studiare in Italia, lasciando la propria famiglia e i propri legami amicali in un altro paese, le sfide da affrontare sono particolarmente ardue. Come ci ha raccontato Sabrina Cipolletta, psicologa dell’Università di Padova che al benessere psicologico di studenti e studentesse internazionali ha dedicato uno studio specifico, “il loro è un cambiamento di vita radicale”. E in quanto tale può far emergere maggiori fragilità.
“Incontriamo spesso studenti internazionali che faticano ad adattarsi”, conferma Gentili. Tuttavia, anche in questo caso, i problemi che sperimentano non riguardano solo l’università, ma rappresentano piuttosto difficoltà quotidiane legate al “contesto italiano: basti pensare al livello medio di inglese che c'è qui da noi: capite che anche andare a fare la spesa a volte diventa problematico”.
“ Mi sento isolato, incapace di tirarmi fuori dalla mia situazione di depressione perché sono indietro negli studi e negli esami, non ho amici/amiche, una vita sociale né affettiva. Sono in una situazione di precariato e sotto pressione […] Insomma, perso Studente magistrale internazionale, 31 anni
Situazioni di vita che, come emerge da uno studio condotto da Cipolletta, si sono acuiti enormemente durante il periodo del COVID-19, quando proprio chi veniva da lontano si è trovato bloccato lontano da famiglia e affetti, senza la possibilità di rientrare.
Competizione, carico di lavoro eccessivo, rapporti conflittuali
Oltre ai problemi appena citati, chi ha risposto al nostro sondaggio ha segnalato anche altri motivi di disagio dovuti alle difficoltà nei rapporti umani con compagni di corso, colleghi o professori, all’eccessivo carico di studio e alla competizione. Un problema, quest’ultimo, che secondo le testimonianze raccolte da Il Bo Live sembra interessare soprattutto chi è iscritto a un dottorato o svolge attività di ricerca, mentre secondo l’esperienza clinica del professor Gentili è frequente anche tra gli studenti e le studentesse, “con casi in cui vengono rifiutati voti che non si ritengono sufficientemente alti perché si teme di essere superati dai propri compagni di corso”.
Per quanto riguarda invece le difficoltà nei rapporti umani, sembra che quelli più critici siano quelli con il personale docente. Diversi studenti e studentesse, nelle domande a risposta aperta, hanno raccontato episodi di professori che “ogni giorno non mancano di farci sentire studenti di categoria A e B”, che “non considerano minimamente [il disagio psicologico] una problematica reale e addirittura ampiamente diffusa tra i ragazzi dell'università” e, ancora, che “invece di aiutare e stimolare l'interesse lo azzerano, rendendo anche le materie più interessanti stressanti, a causa delle modalità di esame che a volte tengono poco conto di quello che è l'effettivo studio da parte dello studente”.
“Casi di professori che hanno atteggiamenti non congrui con gli studenti sono naturalmente molto spiacevoli da sentire”, commenta Gentili. “Fortunatamente, almeno per quanto posso dire sulla base della mia esperienza, mi sembra che siano in calo negli ultimi anni. Resta il fatto che si tratta di comportamenti eticamente e professionalmente inaccettabili, che purtroppo esistono in ogni ambito lavorativo e che mi auguro rappresentino l’eccezione, non la regola”.
Proprio per questo, il professore sottolinea l’importanza di segnalare eventuali illeciti attraverso le modalità previste dal proprio ateneo. All’università di Padova, ad esempio, è possibile inviare segnalazioni online anche in forma anonima. “Naturalmente ogni caso va valutato con attenzione, per distinguere veri e propri abusi da eventuali fraintendimenti, che possono nascere dalla situazione di disparità in cui si trovano studenti e docenti”, continua Gentili. “Sebbene, infatti, questi siano ontologicamente sullo stesso piano, in quanto persone con la stessa dignità e lo stesso valore, all’interno dell’università il docente ha una posizione che per ruolo e anzianità diventa spesso gerarchicamente sbilanciato. Questo squilibrio può far sì che uno stile comunicativo particolarmente diretto, o feedback forniti frettolosamente abbiano un impatto emotivo sulla sensibilità degli studenti e delle studentesse”.
“ Penso che questa distanza tra professori e alunni non aiuti. Nella mia testa ho sempre elevato il professore a essere perfetto, che ha il diritto di giudicarmi. In realtà i prof sono esseri umani normalissimi che sbagliano e fanno errori Studentessa magistrale, 34 anni
Far fronte al disagio psicologico
Poco più della metà del nostro campione ha riferito la presenza, nella sua università, di servizi di supporto psicologico gratuiti. Eppure, meno della metà ha raccontato di averne usufruito. Anche i pareri riguardo l’utilità di questi servizi sono contrastanti.
“ Il servizio di terapia gratuito dell'università si sta rivelando una risorsa molto importante che mi sta permettendo di proseguire l'università nonostante le difficoltà legate alla competizione tra compagnx di corso e l’assenza di aiuto reciproco Studentessa magistrale, 29 anni
“ La mia università offre un servizio psicologico ma massimo 10 appuntamenti gratuiti e inoltre tra un appuntamento e l'altro passa almeno un mese. Come si può aiutare una persona così? Studentessa di un corso di laurea a ciclo unico, 26 anni
“Naturalmente, ogni caso è diverso”, commenta Gentili. “La stessa persona può trovarsi bene con un terapeuta e faticare a relazionarsi con un altro, anche se adottano lo stesso approccio, stessa cosa vale per quanto proposto da un servizio di aiuto psicologico o da un altro. Gli interventi psicologici si fondano, infatti, anche sui cosiddetti fattori aspecifici, come la capacità di creare un’alleanza terapeutica tra il professionista e il paziente. Se questa non si forma in modo ottimale, si innescano vissuti che portano facilmente a pensare: 'questo intervento non fa per me'”. Insomma, ciò che va bene per alcune persone, non funziona necessariamente per tutte.
Riguardo alla preoccupazione che pochi incontri possano non essere sufficienti, Gentili invita a fidarsi della valutazione degli specialisti: “Spetta ai professionisti stabilire, in base all’esperienza e alla competenza clinica, il tipo di intervento e il numero di sedute necessarie per ogni situazione”. In alcuni casi, aggiunge, “il disagio manifestato dagli studenti può essere affrontato in modo più efficace attraverso interventi di gruppo piuttosto che individuali”. È il caso, ad esempio, di chi sperimenta problemi legati alla solitudine e all’isolamento che, come dicevamo, sono condizioni particolarmente diffuse tra gli studenti e le studentesse internazionali.
In alcuni casi, dunque, pochi incontri possono bastare per individuare e trattare un problema specifico. Ma, ribadisce Gentili, questo non vale per tutti. “Siamo consapevoli che un numero limitato di incontri non sempre può risolvere il problema. Tuttavia, i servizi clinici universitari non possono sostituirsi al sistema sanitario e non possono erogare interventi di lunga durata, altrimenti si rischia di lasciare senza aiuto altre persone in difficoltà”.
Come emerso nella prima puntata della nostra serie di approfondimenti sulla salute mentale, molte università italiane, con le risorse a disposizione, hanno faticato a rispondere a tutte le richieste di supporto: in alcuni casi gli studenti sono stati costretti a rispettare lunghi tempi d’attesa, in altri gli atenei hanno iniziato a riflettere su come potenziare i servizi esistenti. Non sorprende, quindi, che oltre un terzo dei partecipanti al sondaggio de Il Bo Live abbia cercato aiuto al di fuori dell’università, rivolgendosi a professionisti privati o al Servizio sanitario nazionale per affrontare problemi legati allo stress accademico.
Gli sportelli di supporto psicologico universitari possono rappresentare il primo accesso ai servizi per la salute mentale, e consentire così di intercettare situazioni di disagio più serie: “Durante il colloquio preliminare valutiamo il tipo di problema e l’intervento più adeguato da proporre”, spiega il professore. “Se il disagio risulta troppo grave per essere gestito dal nostro servizio indirizziamo la persona al sistema sanitario nazionale”. Ciò dimostra l’importanza di una solida rete tra i servizi psicologici universitari e le altre strutture sanitarie del territorio. “A Padova, ad esempio, collaboriamo strettamente con la psichiatria universitaria, alla quale inviamo i pazienti che necessitano di una valutazione multispecialistica”.
Cosa si potrebbe fare
Pensando a quali interventi si potrebbero mettere in campo per migliorare la situazione, Gentili punta in particolare sulla “necessità di ridefinire il concetto di ‘eccellenza”. Il riferimento è alla pressione per il risultato sentito dal corpo studente, ma anche proprio a un ripensamento di questo standard da parte delle università. Nel tempo abbiamo sentito versioni diverse, da chi diceva che eccellere significa “puntare al 110 e chi invece sostiene che non ha senso puntare al massimo dei voti, quanto piuttosto inserirsi il prima possibile nel mondo del lavoro”. La proposta di Gentili è, invece, una definizione di eccellenza su base “più operazionale: cioè, questo voto, questo titolo che cosa ti permettono di fare? Magari non il lavoro migliore, ma quello che ti piace di più”.
Per quanto riguarda invece i problemi legati alla gestione del carico di lavoro e alle lamentele secondo cui l’università sarebbe troppo esigente, il professor Gentili invita a distinguere due diversi livelli di intervento. “Spetta ai tavoli della CRUI e alle commissioni paritetiche dei singoli atenei (che coinvolgono anche rappresentanti del corpo studentesco, chiamati ad approvare i programmi d’esame) riflettere su come eventualmente rivedere la distribuzione del carico didattico e valutare se i percorsi formativi siano effettivamente eccessivi per gli studenti e le studentesse. È una questione, quindi, non ha a che fare con l’ambito clinico.
Ciò che i centri di ateneo per il supporto psicologico possono fare, invece, è valutare se sia possibile intervenire sulla percezione degli studenti che considerano il carico di studio eccessivo anche in prospettiva dell'organizzazione della futura vita professionale”.

Torniamo così all’idea del counseling come un servizio di orientamento, che fornisca un sostegno su come prepararsi per gli esami e non solo: “A volte si tratta semplicemente di imparare un nuovo metodo di studio”, spiega Gentili. “Possono esserci difficoltà nella selezione e nell’organizzazione dei contenuti, un approccio poco funzionale all’università o, in alcuni casi, una scelta sbagliata del percorso di studio. Il nostro compito è aiutare gli studenti a ripensare il proprio rapporto con lo studio, gestire meglio il carico percepito, il tempo e l’ansia. Non esiste un metodo valido per tutti: il counseling può aiutare ciascuno a trovare quello più adatto a sé”.
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In generale, secondo Gentili, bisognerebbe agire anche fuori dalle università. “Perché noi come centri universitari possiamo fare tanto, ma non possiamo fare tutto”. Quello che manca, a suo avviso, “è la possibilità di avere un contatto rapido per l'assistenza psicologica fuori dagli atenei”, in un contesto in cui bisognerebbe “potenziare i servizi territoriali, non solo psicologici, ma anche tutti quelli assistenziali in generale”.
A suo avviso, con tutti i limiti che abbiamo visto in questo racconto della salute mentale all’università, i servizi sono già uno strumento importante, magari non per forza decisivo in ogni situazione, ma capace di intercettare una parte consistente del malessere psicologico. C’è un problema di risorse limitate, di diverso tipo, come abbiamo raccontato anche nell’articolo sui progetti di coordinamento interuniversitario da parte della Conferenza dei Rettori delle Università (CRUI). Ma il tema, per Gentili, sta ancora più a monte, perché “l’università fa la sua parte, ma è una parte vicariante”, cioè agisce, almeno in parte, a sostegno del Sistema Sanitario Nazionale in tema di salute mentale.
A cominciare da un lavoro di “psicoeducazione: grazie alla lotta allo stigma siamo riusciti a rendere un po' meno nascosta la malattia mentale”, riflette il professore, “ma questo cambiamento ha causato una sorta di effetto-rimbalzo: la tendenza, sempre più diffusa, a patologizzare esperienze che non sono realmente patologiche”.
Si rischia, secondo Gentili, di confondere emozioni negative comuni – come la delusione per aver fallito un esame – con condizioni cliniche che richiedono un intervento terapeutico. Eppure, emozioni come la frustrazione, l’ansia o la tristezza fanno parte della vita e vanno accolte, elaborate, metabolizzate. Solo quando diventano persistenti, pervasive e invalidanti si può parlare di un disagio che necessita di un supporto specialistico.
Questa distinzione, però, non è sempre chiara. Per questo “è fondamentale promuovere, non solo tra gli studenti universitari ma nella popolazione in generale, un’informazione di qualità e un’educazione alla sofferenza mentale”, sottolinea il professore. “Serve spiegare la differenza tra un malessere passeggero e un disturbo psicologico vero e proprio. Esistono infatti dei “gradini” che portano verso la malattia mentale propriamente detta, e non tutti richiedono lo stesso tipo di intervento.
Nei casi meno gravi, ad esempio, può essere utile fare ricorso a strumenti di autoaiuto. Di risorse valide ne esistono (manuali, app o esercizi) ma andrebbero diffuse maggiormente e rese più accessibili a chi ne ha bisogno”.