UNIVERSITÀ E SCUOLA
Salute mentale all’università. Ridurre la solitudine di studenti e studentesse internazionali

Preoccupazione per il futuro, problemi economici, carico di lavoro eccessivo e difficoltà nelle relazioni con compagni di corso e docenti. Sono diversi gli aspetti della vita accademica che rischiano di impattare negativamente sul benessere mentale di chi studia e lavora all’università. Per questo motivo, molti atenei offrono servizi di supporto psicologico gratuiti, che possono comprendere sedute individuali, attività di gruppo e, in alcuni casi, anche aiuto psichiatrico.
Dopo aver raccolto dati preziosi sugli interventi di supporto al benessere mentale presenti in molte università italiane, continuiamo ad approfondire il tema con un focus, questa volta, sugli studenti e le studentesse che lasciano il proprio paese d’origine per frequentare l’università in Italia. Secondo diverse ricerche, questi giovani hanno maggiori probabilità di sperimentare sofferenza psicologica. Studiare all’estero rischia di acuire, in particolare, problemi di stress e solitudine dovuti alla presenza di barriere linguistiche e culturali o, nei casi peggiori, a episodi di discriminazione.
Un gruppo di ricercatrici dell’università di Padova, coordinate dalla professoressa Sabrina Cipolletta, ha testato l’utilità di diversi interventi di supporto psicologico destinati agli studenti e alle studentesse internazionali. I risultati suggeriscono che le attività in presenza e di gruppo siano quelle più efficaci per ridurre il senso di solitudine e promuovere il benessere psicosociale.
Cipolletta, che coordina il servizio di supporto psicologico agli studenti e alle studentesse internazionali dell’università di Padova, ha approfondito in più di un’occasione i problemi legati alla sfera relazionale. “Bisogna innanzitutto chiarire la distinzione tra isolamento sociale, un problema che dipende dalla quantità delle relazioni che una persona ha - ed è quindi quantificabile con criteri oggettivi - dal senso di solitudine, che descrive invece la percezione personale di chi ritiene che le sue relazioni non siano, quantitativamente o qualitativamente, corrispondenti alle sue aspettative, e che deriva perciò da un vissuto soggettivo”, spiega la professoressa. “Sebbene gli anziani riportino solitamente livelli maggiori di isolamento sociale, recenti indagini suggeriscono che il senso di solitudine sia particolarmente alto tra i giovani adulti. Concentrando l’attenzione sulla popolazione studentesca e poi, in particolare, sugli studenti e le studentesse internazionali, è possibile individuare alcuni specifici fattori in grado di impattare negativamente sul benessere psicologico. Si tratta, solitamente, di problemi legati alle barriere linguistiche e culturali che ostacolano le interazioni sociali, da quelle più banali e quotidiane, (tra le corsie del supermercato, ad esempio) a quelle con le istituzioni e gli organi burocratici”.
Come segnalato nello studio di Cipolletta e coautrici (ed emerso anche dall’indagine de Il Bo Live), la pandemia di Covid-19 sembra aver acuito il disagio psicologico di chi studia e lavora all’università. Le difficoltà in questione sembrano inoltre interessare prevalentemente gli studenti internazionali di lunga permanenza, piuttosto che quelli che partecipano a scambi culturali di breve durata (gli Erasmus, ad esempio). “I cosiddetti long term students, che trascorrono interi cicli accademici all’estero, sanno che resteranno lontani più a lungo dal loro paese di origine e dalla rete di supporto sociale che hanno lì”, spiega la professoressa. “Il loro è un cambiamento di vita radicale”.
Chi va a studiare all’estero si trova ad attraversare, in particolare, un processo che in gergo tecnico viene definito acculturation e che consiste nell’adattamento alla cultura e al contesto sociale del nuovo paese. “La letteratura sull’argomento suggerisce che non riuscire a corrispondere esattamente al sistema culturale di arrivo – che, per la cronaca, non è ciò che dovremmo aspettarci o pretendere dagli studenti stranieri – può causare uno stress notevole”, spiega Cipolletta. “Alcune comunità di studenti stranieri reagiscono chiudendosi e frequentandosi solo tra di loro, ma la letteratura suggerisce – e i nostri studi confermano – che questo comportamento non migliora il benessere psicologico. Sembra, al contrario che il confronto e il dialogo con il contesto di arrivo, senza per questo rinunciare alla propria identità e alla propria cultura, attenui i fattori di rischio”.
La ricerca condotta da Cipolletta e coautrici ha coinvolto 49 studenti internazionali dell’ateneo patavino, la maggior parte dei quali provenienti da paesi non europei. I partecipanti sono stati divisi in tre gruppi (più uno di controllo) ognuno dei quali ha seguito per otto settimane un diverso programma di supporto psicosociale. Il primo gruppo di partecipanti non ha svolto attività in presenza e ha ricevuto solo dei materiali di auto-aiuto da consultare autonomamente online; il secondo gruppo è stato coinvolto in alcuni incontri collettivi peer-to-peer, gestiti cioè da altri studenti universitari; il terzo ha seguito un intervento di tipo blended, che prevedeva sia la partecipazione ad attività di gruppo guidate da professionisti, sia la ricezione di materiali informativi digitali.
I partecipanti hanno scelto liberamente a quale gruppo appartenere. All’inizio e alla fine dell’esperimento, è stato chiesto loro di rispondere ad alcuni questionari volti a misurare i livelli di ansia, depressione, solitudine e benessere generale. In linea con quanto emerso da precedenti studi sull’argomento, le autrici hanno osservato che gli interventi che prevedevano attività di gruppo in presenza (quelli peer-to-peer e blended) avevano un impatto positivo maggiore rispetto a quelli individuali da seguire online. Ma non solo: le stesse risorse digitali fornite sia al gruppo blended sia a quello di auto-aiuto, sono state considerate più utili nel primo caso.
“Abbiamo osservato una riduzione più significativa del senso di solitudine tra i membri del gruppo peer-to-peer coordinato da studenti, rispetto a quelli che hanno partecipato all’intervento blended guidato da professionisti”, continua Cipolletta. “La relazione tra pari in un ambiente sicuro e non giudicante favorisce infatti la costruzione di relazioni sociali di qualità e incoraggia la costruzione di un sentimento di comunità e di supporto reciproco”.

Per interpretare correttamente questi risultati è necessario però tenere conto anche dell’alto tasso di abbandono degli interventi da parte dei partecipanti; un aspetto, sostiene Cipolletta, ricorrente in questo ambito di ricerca. Le autrici, a riguardo, hanno notato che gli studenti e le studentesse che hanno lasciato l’esperimento prima del termine erano quelli che riportavano livelli particolarmente alti di solitudine, ansia e depressione.
“Non bisogna considerare tale circostanza come un “fallimento” della nostra indagine, perché dal punto di vista scientifico anche gli aspetti più critici o indesiderati possono fornire informazioni rilevanti”, commenta Cipolletta. “In questo caso, l’alto tasso di abbandono da parte degli studenti con un grado di sofferenza più alto ci ha spinte a ipotizzare che per loro la partecipazione agli interventi di gruppo fosse già “troppo”. Alla luce dell’esperienza clinica sviluppata in questo campo, ritengo che gli interventi di gruppo funzionino meglio a livello di prevenzione e promozione del benessere in generale. Per gli studenti con un livello di sofferenza più alto, è preferibile seguire un intervento personalizzato e individuale, che li accompagni eventualmente ad acquisire quella sicurezza sufficiente che permetta loro, a un certo punto, di partecipare agli interventi di gruppo”.
Non esiste, quindi, una formula standard da seguire nella progettazione di interventi di supporto psicologico. “Come emerge dalla letteratura scientifica sull’argomento, l’efficacia di questi servizi dipende dalla gravità del disagio e dalle esigenze particolari, con la conseguente necessità di personalizzare gli interventi a seconda del caso specifico”, prosegue la professoressa.
Per indirizzare gli studenti e le studentesse verso il servizio più indicato è necessario, naturalmente, intercettare la richiesta. “Credo sia fondamentale instaurare un coordinamento efficace tra i diversi uffici e i servizi di ateneo, affinché tutto il personale accademico sia in grado di riconoscere situazioni di difficoltà e indirizzare gli studenti verso il supporto psicologico”, conclude Cipolletta.
Questo approfondimento fa parte della serie di articoli de Il Bo Live dedicati alla salute mentale nel mondo universitario. Per il prossimo passo, abbiamo bisogno del tuo aiuto. Abbiamo costruito un questionario anonimo per raccogliere voci, esperienze e prospettive direttamente da chi vive l’ambiente accademico. Ci rivolgiamo in particolare a studenti e studentesse, dottorandi e dottorande, assegnisti e assegniste di ricerca.
Ogni risposta ci permetterà di comprendere meglio le sfide quotidiane con cui deve confrontarsi chi studia e lavora nelle università italiane e l’utilità delle risorse di supporto disponibili in questi atenei.
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