UNIVERSITÀ E SCUOLA

Salute mentale all'università. Il peso delle scelte in una società performativa

In psicologia si usa emerging adulthood, un’espressione che potremmo tradurre come “età adulta emergente”, per indicare il periodo che va dai 18 ai 30 anni circa. Si tratta di quel lasso di tempo che nella società attuale rappresenta l’uscita dall’adolescenza, ma non è ancora del tutto età adulta. Si tratta quindi di periodo di transizione, ma decisivo, in cui “si chiude alle spalle il piccolo cancello della fanciullezza e si entra in un giardino incantato, dove anche le ombre splendono di promesse e ogni svolta del sentiero ha una sua seduzione”. Così lo descrive lo scrittore Joseph Conrad nelle pagine iniziali del suo romanzo La linea d’ombra, che poco più di un secolo fa raccontava la storia di un giovane ufficiale navale che ha l’occasione di assumere il suo primo comando: un’esperienza che ne segna profondamente l’esistenza.

Nella nostra serie sulla salute mentale all’università, il periodo degli studi rappresenta uno degli elementi decisivi di questo attraversamento della linea d’ombra tra due fasi distinte della vita. E proprio dalla metafora proposta da Conrad si muove la riflessione di tre psicologhe dell’Università di Milano-Bicocca che da diversi anni lavorano direttamente nel counseling psicologico fornito dall’università per aiutare quelle giovani persone che chiedono aiuto per una riflessione su di sé, sbloccare una situazione, confrontarsi sulle scelte cruciali che nella giovane età adulta sono chiamate a fare. In “Il counselling psicodinamico con i giovani adulti” (contenuto in un volume collettivo intitolato Diventare giovani adulti e pubblicato lo scorso anno da Raffaello Cortina Editore), Irene Salerno, Maria Rosaria Fontana e Cristina Riva Crugnola (quest’ultima già intervistata da noi a proposito del ruolo dei servizi di counseling d’ateneo) indicano che la fascia di età con cui si relazionano è composta da persone “che non sono più ragazzini alle prese con la scoperta della propria identità, del proprio corpo e del mondo relazionale, eppure ancora non sono adulti”. Ѐ un’età, per tornare a Conrad e a Linea d’ombra, caratterizzata da “momenti di noia, ecco, di stanchezza, di insoddisfazione. Momenti precipitosi”. 

Il ruolo dell’università

Conrad scriveva delle caratteristiche della prima giovinezza senza prendere in considerazione, in un mondo molto diverso dall’attuale, quale ruolo giochino gli anni di formazione universitaria. Abbiamo chiesto a Mauro Di Lorenzo, psicologo e socio dell’Istituto Minotauro di Milano dove coordina il gruppo che si occupa proprio dei giovani adulti, se rispetto all’inizio del Novecento, oggi l’università abbia un ruolo diretto nel produrre i malesseri che si affacciano tra chi studia. “Non è l’università di per sé a produrre malessere”, ci spiega, sostenendo che anche le statistiche a sua disposizione e la sua esperienza con chi segue in terapia lo confermano”. Di Lorenzo è anche autore di un volume, Giovani adulti in crisi (Franco Angeli, 2024) basato sui casi raccolti nella sua esperienza professionale.

Si chiude alle spalle il piccolo cancello della fanciullezza e si entra in un giardino incantato, dove anche le ombre splendono di promesse e ogni svolta del sentiero ha una sua seduzione Joseph Conrad, La linea d'ombra

Il problema, semmai, è la forma che la società ha impresso all’attuale specifica configurazione dell’università, “caratterizzata da una cultura delle performance”. A colpire sono “le università che danno i voti con la gaussiana, favorendo una competizione tra gli studenti e le studentesse”, è “la preoccupazione per il ranking come valutazione della bontà dell’università, dove un ruolo fondamentale lo gioca la velocità con cui ci si laurea”, mettendo in secondo piano le caratteristiche individuali con cui si apprende e studia. O ancora “l’angoscia per i posti limitati, come succede per esempio per i master post-laurea”. Sono tutti elementi che contrastano secondo Di Lorenzo con l’università “come spazio per esplorare” le possibilità del proprio futuro, e rischi di trasformarlo in un passaggio “obbligato perché fornisce il titolo necessario per il dopo”, quasi si trattasse di un prolungamento della “scuola dell’obbligo”.

Bloccati sulla homepage di Netflix

In questo contesto, spiega lo psicologo, “diventa difficile tollerare la complessità del mondo”. Sebbene, vada chiarito, questi aspetti diventino davvero problematici per una minoranza del corpo studentesco: “per la maggior parte di chi frequenta l’università si tratta di un’esperienza piacevole”. Ma esiste una fetta del corpo studentesco che fatica ad adattarsi a questa impostazione della struttura universitaria e sviluppa malessere.

Un elemento specifico dell’università della performance che può creare difficoltà è, per esempio, l’eccessiva varietà dell’offerta formativa. “Per una persona di 19 anni oggi, che non è ancora addestrata e abituata a fare delle scelte in cui si sente del tutto attiva”, spiega Di Lorenzo, “si può generare un blocco simile a quello che abbiamo di fronte all’enorme offerta di contenuti della homepage di Netflix”. Operare una scelta può diventare difficile, soprattutto quando alcune opzioni differiscono solamente per dettagli, qualche esame. Il rischio è che ci si trovi in una situazione in cui “abbiamo libertà di scelta, ma senza un corrispondente vissuto di responsabilità”, perché non siamo ancora del tutto adulti. E questa situazione può diventare fonte di angoscia. 

Tutto fuorché pigri

I casi più gravi di disagio durante il periodo universitario sono quelli che Di Lorenzo indica come “i ritirati sociali”, cioè quelle persone che si trovano bloccate nel proprio percorso e progressivamente si ritirano dalla vita sociale, non studiando e non cercando un lavoro. Sono i cosiddetti NEET (“Not in Employment, Education, or Training”, come vengono indicati in letteratura) che vengono spesso dipinti dagli stessi media come pigri e svogliati. “Ma sono tutt’altro che pigri e privi di mordente”, spiega lo psicologo, “sono persone pervase da angosce profonde, ingabbiate nel continuo pensiero di quello che non riescono a fare”.

In modo provocatorio, Di Lorenzo suggerisce che i ritirati sociali potrebbero quasi essere definiti un “disturbo etnico”, cioè persone che “ci dicono qualcosa di come una generazione vede la cultura circostante”. Sono, in altre parole, quasi un sintomo delle problematiche profonde che attraversano la nostra società e, non a caso, si tratta di un fenomeno che è emerso solamente negli ultimi decenni. “I ritirati sociali ci dicono che non vogliono giocare al gioco della performatività”, conclude Di Lorenzo, “rifiutano l’impostazione della società che le generazioni precedenti hanno preparato per loro”.

Tematiche ricorrenti

Accanto a una implicita critica della società attuale dei ritirati sociali, ci sono alcune problematiche ricorrenti in chi si rivolge al counseling offerto dagli atenei. Nel loro intervento, Salerno, Fontana e Riva Crugnola le raggruppano in quattro aree: il confronto con i modelli genitoriali, le difficoltà legate al distacco dal proprio ambiente di origine, le questioni che riguardano le relazioni (sia che siano con partner o con i pari) e l’elaborazione di eventi traumatici e stressanti. Il ruolo del servizio di counseling deve agevolare “la possibilità di ‘affacciarsi sul proprio mondo interno attuando collegamenti tra esperienze della realtà esterna e vissuti soggettivi e potendo così ‘scattare una foto’ da tenere dentro di sé”. Il counseling psicologico, quindi, come accompagnamento al dialogo interiore in uno spazio neutro e sicuro dove poter normalizzare la propria esperienza, facendo emergere come non si tratti di una anormalità.

Per una persona non ancora addestrata e abituata a fare delle scelte si può generare un blocco simile a quello che abbiamo di fronte all’enorme della homepage di Netflix Mauro Di Lorenzo

Secondo uno studio pubblicato nel 2020 citato dalle tre psicologhe e condotto su un campione di studenti e studentesse che hanno usufruito del servizio dell’Università di Milano-Bicocca, l’intervento sarebbe “efficace nel ridurre i sintomi psicopatologici a livello globale, in particolare rispetto ad ansia e depressione, e nell’incrementare la soddisfazione di vita percepita”. Nel 2023 è stato anche condotto uno studio di follow up a sei mesi dalla conclusione dei colloqui, mostrando come la riduzione dei sintomi sia duratura nel tempo e non limitata al periodo di counseling. La struttura degli interventi, se condotti da professionisti e professioniste preparate e capaci, porta alla risoluzione della maggior parte delle problematiche per cui si fa richiesta dei colloqui. Come abbiamo visto fin dalla prima puntata della nostra inchiesta, nei casi più gravi c’è la presa in carico dell’ASL e, in quelli che hanno necessità di un intervento terapeutico più lungo, l’indirizzamento verso professionisti e professioniste del settore.

Dopo il counseling: il problema economico

Nella quarta puntata di questa serie abbiamo accennato a come intraprendere un percorso di terapia individuale, magari dopo aver usufruito degli incontri di counseling universitario, sia ostacolato dal costo, spesso troppo elevato per la fascia della giovane età adulta. Ne abbiamo conferma da uno studio condotto da un team accademico in collaborazione con il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP). Scopo dello studio era valutare l’efficacia del cosiddetto Bonus psicologo, una forma di sostegno economico introdotto nel luglio del 2022. Il progetto ha coinvolto oltre 5.200 psicoterapeuti e più di 2.500 pazienti, del periodo che va da gennaio 2023 a dicembre 2024. 

I dati che saltano all’occhio e che danno sostegno all’idea che le fasce più giovani siano quelle maggiormente in difficoltà per un tema economico sono due. Il primo è che il 98,3% di chi ha fatto richiesta aveva un ISEE inferiore a 15.000€, cioè la fascia più bassa prevista. Il secondo elemento è quello dell’età media di chi ha fatto richiesta: 34,6%. “Il Bonus Psicologo ha rappresentato un primo, importante passo verso una maggiore equità nell’accesso alle cure psicologiche”, spiega Laura Parolin, la psicologa e ricercatrice che ha coordinato lo studio. “I dati raccolti mostrano che ha intercettato una fascia di popolazione particolarmente sensibile: i giovani adulti, spesso al primo contatto con un percorso di cura”.

Il Bonus Psicologo ha rappresentato un primo, importante passo verso una maggiore equità nell’accesso alle cure psicologiche Laura Parolin

Come ormai abbiamo imparato, si tratta di una fase delicata della vita, nella quale emergono molti dei disagi psicologici che colpiscono le persone. E sappiamo che se non vengono trattati per tempo rischiano di cronicizzarsi e comprometterne il benessere. “Garantire la continuità e l’estensione di interventi come questo [il Bonus psicologo, NdR] è oggi più che mai fondamentale, anche alla luce della crescente richiesta di supporto psicologico da parte delle nuove generazioni”, conclude Parolin. Allargando solo di poco lo sguardo, significa rimuovere un ostacolo dal diritto alla salute di cittadini e cittadine.


Questo approfondimento fa parte della serie di articoli de Il Bo Live dedicati alla salute mentale nel mondo universitario. Per il prossimo passo, abbiamo bisogno del tuo aiuto. Abbiamo costruito un questionario anonimo per raccogliere voci, esperienze e prospettive direttamente da chi vive l’ambiente accademico. Ci rivolgiamo in particolare a studenti e studentesse, dottorandi e dottorande, assegnisti e assegniste di ricerca.

Ogni risposta ci permetterà di comprendere meglio le sfide quotidiane con cui deve confrontarsi chi studia e lavora nelle università italiane e l’utilità delle risorse di supporto disponibili in questi atenei.

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