UNIVERSITÀ E SCUOLA
Salute mentale all’università. Meno tabù tra le giovani generazioni?

Secondo un report diffuso nel 2018 dall’American psychological association, i ragazzi e i giovani adulti della cosiddetta Generazione Z (nati cioè tra il 1997 e il 2012) riferiscono livelli di salute mentale mediamente peggiori rispetto alle generazioni precedenti.
Ciononostante, come emerso più volte nel dibattito pubblico e scientifico sull’argomento, le nuove generazioni potrebbero essere anche più informate sul tema, più disposte a parlare apertamente di salute e disagio mentale e, di conseguenza, più inclini a chiedere aiuto quando ne hanno bisogno.
Per chi studia o lavora all’università, il primo accesso ai servizi di supporto alla salute mentale può avvenire grazie agli sportelli di counseling psicologico, sempre più diffusi negli atenei di tutta Europa. Un’indagine condotta da Il Bo Live ha approfondito la diffusione e il funzionamento degli interventi di supporto alla salute mentale erogati dalle università pubbliche italiane. La stragrande maggioranza degli atenei che hanno partecipato al sondaggio ha registrato un costante aumento delle richieste di supporto psicologico negli ultimi cinque anni.
Questa tendenza è stata particolarmente evidente all’università di Ferrara che, tra gli atenei che hanno risposto all’indagine de Il Bo Live, risulta quello con il numero più alto di richieste in rapporto agli iscritti. Dal 2020 a oggi, gli accessi al counseling psicologico sono cresciuti considerevolmente, passando dagli 83 di allora ai 1164 nell’anno accademico 2023/2024.
“L'aumento delle richieste di supporto psicologico nelle università è un fenomeno che può essere attribuito a più fattori”, riflette la professoressa Paola Bastianoni, responsabile del servizio di counseling dell’università di Ferrara. “Da un lato, si registra molta solitudine nei giovani e un crescente sentimento di disistima, caratterizzato dalla convinzione di non all’altezza dei compiti accademici e di non poter raggiungere con successo ciò che si desidera; dall'altro è aumentata la consapevolezza verso le crescenti sfide legate alla vita accademica, spesso accompagnata da stress, ansia e difficoltà nelle relazioni.
La pandemia ha amplificato queste problematiche, creando nuove difficoltà psicologiche per gli studenti e le studentesse, ma al tempo stesso ha anche facilitato l’accesso alle risorse di supporto online messe a disposizione da molti atenei durante l’emergenza sanitaria. Ciò dimostra come l’università possa diventare un punto di riferimento per chi ha bisogno di aiuto”.
Ma le richieste non sono diminuite con la fine dell’emergenza sanitaria. Diversi responsabili dei counseling universitari che hanno partecipato all’indagine de Il Bo Live riconducono questa tendenza al fenomeno a cui si accennava all’inizio: la maggiore apertura da parte delle nuove generazioni verso i temi della salute mentale e del disagio psicologico. Secondo questa ipotesi, i giovani adulti avrebbero meno pregiudizi e atteggiamenti stigmatizzanti in merito.
“L’apertura crescente delle nuove generazioni nei confronti della salute mentale e del disagio psicologico è sicuramente uno dei fattori principali dell'aumento delle richieste”, conferma Bastianoni. “I giovani sono più inclini a discutere apertamente di questo tipo di problemi, riflettendo un cambiamento culturale che ha reso questi temi meno tabù. Tale evoluzione è stata alimentata sia dal dibattito pubblico che da quello scientifico, che hanno sottolineato l'importanza di trattare la salute mentale con la stessa serietà riservata ad altre problematiche di salute. La discussione aperta sul tema, sia nei media che in ambito accademico, ha contribuito significativamente a ridurre lo stigma”.
La considerazione di Bastianoni trova riscontro nei risultati di alcuni studi scientifici condotti di recente sull’argomento. Ad esempio, un’indagine del 2021 su più di 4000 adulti statunitensi, riflette un cambiamento significativo della percezione pubblica del disagio mentale nell’arco degli ultimi vent’anni. Analizzando i risultati di alcuni sondaggi condotti nel 1996, nel 2006 e nel 2018, gli autori della ricerca hanno osservato una progressiva riduzione dello stigma associato a tre diversi problemi di salute mentale: la schizofrenia, la dipendenza da alcol e la depressione. Il cambiamento era particolarmente evidente tra le persone più giovani – venute al mondo tra il 1987 e il 2000 – che riflettono meno stereotipi e atteggiamenti discriminatori rispetto a quelle nate tra il 1937 e il 1946. Gli individui più giovani si sono mostrati generalmente più disponibili a socializzare con persone con problemi di salute mentale, riflettendo una percezione meno allarmistica della loro presunta pericolosità e una crescente alfabetizzazione riguardo ai disturbi considerati. Nel decennio 2006-2018, in particolare, è cresciuta significativamente l’accettazione sociale delle persone affette da depressione.

I social media e l’informazione online sembrano aver contribuito fortemente alla diffusione di una cultura più aperta e meno stigmatizzante, promossa tra l’altro anche da personaggi famosi che hanno parlato apertamente sui social dei loro problemi di salute mentale (tra i tanti possiamo ricordare, ad esempio, la campionessa olimpica americana Simone Biles). “L'accesso più diffuso alle informazioni su internet, in particolare attraverso i social media, ha giocato un ruolo centrale nel normalizzare la conversazione sulla salute mentale, sebbene l’uso di queste piattaforme possa incrementare anche alcune paure e timori”, osserva Bastianoni. “Le piattaforme social, in particolare, hanno favorito l’incontro e lo scambio di esperienze tra giovani, creando reti di supporto e dando maggiore visibilità al tema del disagio psicologico. Inoltre, la crescente offerta di contenuti educativi e sensibilizzanti ha contribuito a ridurre la paura di chiedere aiuto, spingendo i giovani a non considerare la salute mentale come un argomento di cui vergognarsi”.
Tuttavia, alcuni esperti hanno segnalato un possibile “effetto collaterale” di questa rinnovata sensibilità. Secondo un articolo del 2023 firmato dagli psicologi Lucy Foulkes e Jack L. Andrews, da una parte le generazioni più giovani possiedono in media una migliore alfabetizzazione in materia di salute mentale, sono quindi in grado di riconoscere più accuratamente i sintomi di un disagio psicologico e più propensi a chiedere aiuto; dall’altra, invece, corrono un rischio maggiore di fraintendere alcune difficoltà emotive meno gravi e considerare quindi condizioni non patologiche come veri e propri disturbi.
Una tendenza simile è stata osservata anche in un altro studio condotto nel 2024 da tre studiose dell’università inglese di Newcastle, che hanno paragonato le reazioni di due gruppi di partecipanti – uno composto da persone sopra i 40, l’altro da persone più giovani – ad alcune vignette che rappresentavano situazioni riconducibili alla schizofrenia, all’ansia sociale o al lutto.
Hanno osservato che gli individui più giovani tendevano a riconoscere più facilmente disturbi come l’ansia sociale e la schizofrenia, ma erano anche più propensi a etichettare come patologiche condizioni non cliniche e a sovrastimare la necessità di intraprendere un percorso terapeutico. Inoltre, sorprendentemente, i giovani sotto i quarant’anni hanno mostrato livelli di stigma più alti rispetto agli over 40, in contrasto, quindi, con l’ipotesi di partenza.
Alla stessa conclusione giunge anche un’indagine condotta presso il Centre for social care, health and related research della Birmingham City University, nel Regno Unito. A due gruppi di partecipanti – il primo composto da un centinaio di ragazzi tra i 16 e i 18 anni, l’altro da ottanta adulti sopra i quarant’anni – sono state sottoposte alcune domande volte a raccogliere conoscenze e giudizi riguardo al disturbo d’ansia generalizzato e alla schizofrenia. Non sono state riscontrate differenze significative tra i due gruppi. Anzi, in alcuni casi, gli adulti over 40 hanno mostrato atteggiamenti meno stigmatizzanti.
Queste considerazioni sollevano quindi diversi interrogativi su come promuovere una cultura della salute mentale consapevole, adatta a incentivare la richiesta di aiuto e migliorare l’alfabetizzazione in materia, senza però alimentare il rischio di sovradiagnosi o semplificazioni. Da questo punto di vista, le università possono giocare un ruolo centrale, non solo offrendo servizi di supporto psicologico, ma anche attraverso la diffusione di informazioni accurate e l’insegnamento del pensiero critico.
“L'università ha un ruolo cruciale nella promozione della sensibilità per il diritto alla salute mentale”, riflette Bastianoni. “In questo ultimo anno il Ministero dell’università e della ricerca ha destinato fondi consistenti agli atenei italiani per incentivare la realizzazione di specifici progetti, volti alla riduzione del disagio psichico e all'incremento del benessere psicofisico della popolazione studentesca e dell’intera comunità accademica”. Grazie a questi finanziamenti sono stati avviati in tutto il paese progetti interateneo – come Unist-Health, coordinato dall’università di Padova, PRISMA, guidato dall’università di Ferrara, e molti altri – volti a monitorare il livello di benessere psicologico della popolazione studentesca, potenziare i servizi di supporto psicologico e le relazioni con i servizi sanitari locali e promuovere iniziative di formazione e sensibilizzazione.
La nostra indagine sulla salute mentale nel mondo universitario non si ferma qui. Abbiamo costruito un questionario anonimo per raccogliere voci, esperienze e prospettive direttamente da chi vive l’ambiente accademico. Ci rivolgiamo in particolare a studenti e studentesse, dottorandi e dottorande, assegnisti e assegniste di ricerca. Ogni risposta ci permetterà di comprendere meglio le sfide quotidiane con cui deve confrontarsi chi studia e lavora nelle università italiane e l’utilità delle risorse di supporto disponibili negli atenei.
Usa questo link per rispondere al sondaggio o aiutarci a diffonderlo.