SCIENZA E RICERCA
Lo sfollamento in seguito a disastri naturali aumenta il rischio di depressione

Per alcune persone, la sofferenza non si ferma all’aver abbandonato casa propria. Anzi, lo sfollamento è un grilletto che può portare verso depressione e disturbi d’ansia. Secondo un recente studio sulla popolazione americana, le persone sfollate hanno probabilità significativamente più elevate di sviluppare sintomi di depressione e ansia rispetto a chi non è passato attraverso la stessa esperienza.
Lo studio conferma qualcosa che già si sa all’interno della comunità scientifica, e di cui abbiamo scritto anche qui sul Bo Live qualche anno fa. Ma l’importanza della ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati su JAMA Network Open, una rivista scientifica peer-reviewed ad accesso libero parte del gruppo editoriale del Journal of the American Medical Association, è la dimensione dello studio: quasi 184 milioni di cittadini e cittadine americane in età adulta.
Il metodo utilizzato
Per indagare il tema, i ricercatori guidati da Ther W. Aung, ricercatrice che si occupa di salute mentale in relazione all’ambiente e al cambiamento climatico, hanno utilizzato due diversi questionari, il Patient Health Questionnaire-2 (PHQ-2) e il Generalized Anxiety Disorder-2 (GAD-2), impiegati a livello internazionale come strumenti di screening convalidati per identificare rispettivamente i sintomi della depressione e dell'ansia. Dall’analisi delle risposte il gruppo di ricerca ha individuato per prima cosa una netta prevalenza nell’insorgere di sintomi legati a depressione e ansia tra persone che hanno sperimentato lo sfollamento rispetto a chi non ha avuto la stessa esperienza.
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Inoltre, hanno notato che più il periodo forzato fuori da casa propria si prolunga, più è probabile che insorgano sofferenze psicologiche. Non a caso, i gruppi che hanno la maggiore probabilità di stare male sono quelli composti da persone che non sono mai rientrate nella propria normalità domestica.
Non tutti allo stesso modo
La grande dimensione dello studio ha permesso anche di suddividere la coorte in insiemi più piccoli, accomunati da condizioni socio-economiche. Ciò ha permesso di individuare gruppi più vulnerabili sotto il profilo della sofferenza mentale. Uno dei gruppi individuati è quello dei giovani tra i 18 e i 25 anni che riportano i livelli più alti di ansia e sintomi depressivi tra tutte le fasce d’età. Aung e colleghi sospettano che sia dovuto a una maggiore instabilità abitativa, economica e relazionale e una minore possibilità di accedere a risorse di supporto.
“ I giovani tra i 18 e i 25 anni riportano i livelli più alti di ansia e depressione tra tutte le fasce d’età
Ma sono in realtà molte minoranze a mostrare fragilità maggiori. Le persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+, perché le difficoltà dello sfollamento si aggiungono alle maggiori difficoltà sociali legate alla discriminazione; le persone con un livello di istruzione e di reddito più basso, perché l’insicurezza economica sembra rendere la ricostruzione post-disastro più difficile, aumentando una forma di stress cronico; persone con disabilità funzionali, perché le barriere fisiche e di accesso ai servizi aggravano la loro vulnerabilità.
Individuare le cause non è facile
Nel suo commento allo studio, Ramin Mojtabai, psicologo della Tulane University School of Medicine di New Orleans, ha sottolineato alcuni limiti dello studio, ben noti anche a Aung e al suo gruppo. È infatti difficile attribuire in modo univoco allo sfollamento l’apparire di sintomi di vulnerabilità psicologica. All’interno di un evento disastroso, come per esempio un’alluvione o un terremoto, possono avere un ruolo anche la gravità della situazione e il fatto che si possa aver subito esperienze traumatiche. Si tratta di problemi noti all’interno della comunità di chi lavora in questo settore e che fanno pensare che sia necessario sviluppare strumenti di indagine ad hoc per questo tipo di contesti.
Mojtabai, sottolinea anche che in studi legati al COVID-19, questi sintomi sono progressivamente rientrati nel tempo, a patto che si fossero messi in campo le adeguate misure del caso. In uno studio proprio legato agli effetti sulla salute mentale del COVID-19, gli autori hanno scritto che “non è inaspettato che le popolazioni colpite da disastri abbiano riscontrato alti tassi di prevalenza di problemi di salute mentale, tra cui disturbo da stress acuto, disturbo da stress post-traumatico (PTSD), depressione, ansia, ansia da separazione, paure specifiche dell’incidente, fobie, somatizzazione, dolore traumatico e disturbi del sonno… Nella misura in cui, tuttavia, vengono introdotte misure di sicurezza, queste reazioni mostrano una graduale riduzione nel tempo”.
Guardare avanti
Queste considerazioni riportano alle maggiori difficoltà, individuata dallo studio pubblicato su JAMA, di accedere alle risorse per la ricostruzione e il ritorno alla normalità da parte di alcune categorie di persone che già subiscono una marginalizzazione per qualche motivo. Per questa ragione, visto anche l’aumentare della frequenza con cui i fenomeni naturali estremi stanno provocando sfollamenti a tutte le latitudini del pianeta, il futuro della ricerca in questo settore punta decisamente nella direzione di capire meglio come i disastri ambientali possono agire da grilletti per stati d’ansia e depressione, e come interagiscono con altri potenziali fattori scatenanti. Inoltre, come sottolineano Aung e gli altri autori della ricerca, è un richiamo per chi governa a non occuparsi solo dei problemi materiali che un disastro naturale provoca.