UNIVERSITÀ E SCUOLA
L’offerta universitaria in Italia deve alzare l’asticella o rimarrà indietro

Tra i prerequisiti fondamentali del corretto funzionamento delle società democratiche ve n’è uno che fino a oggi è rimasto per lo più in disparte agli occhi dell’opinione pubblica: la libertà accademica, che può essere intesa come libertà di condurre ricerca, di insegnare e di imparate, e libertà di esprimersi da parte dei membri della comunità accademica, siano studenti o professori.
Il secondo mandato Trump è già stato segnato da un attacco senza precedenti a università e ricerca statunitensi, ma ben prima di lui, in Europa, l’Ungheria di Victor Orbán aveva già gravemente indebolito l’istituzione universitaria.
Nel corso dell’ultimo decennio il primo ministro ungherese ha minato l’autonomia accademica affiancando alla figura del rettore quella di un cancelliere di nomina governativa ed è persino intervenuto sul controllo dei contenuti scientifici, proibendo sostanzialmente gli studi di genere. Attraverso i media filogovernativi ha sistematicamente attaccato la Central European University (CEU), università privata fondata da George Soros, vista come bastione di principi liberali e dunque ostacolo alla “democratura”.
Nel 2017 Orbán ha fatto approvare una serie di provvedimenti che hanno reso impossibile la permanenza in Ungheria alla CEU, che ha dovuto trasferire la maggior parte delle sue operazioni a Vienna. Nel 2019 ha inoltre stravolto la governance dell’Accademia ungherese delle scienze e la sua rete internazionale di collaborazioni.
Anche per questo, la Commissione Europea nel 2023 ha sospeso a 21 università ungheresi controllate da Fidesz il diritto a partecipare a Erasmus+ e Horizon Europe, i programmi dedicati rispettivamente alla formazione dei giovani europei e al finanziamento di ricerca e innovazione.
Secondo l’Academic Freedom Index, che monitora 179 Stati nel mondo, l’Ungheria fa parte di quel 30% di Paesi in cui la libertà accademica versa in condizioni peggiori. In un punteggio che va da 0 a 1, si ferma a 0,30.
L’Italia risulta nel gruppo dei migliori, con un punteggio di 0,95, tuttavia, alcune specificità del nostro Paese “meritano di venire monitorate accuratamente” si legge nell’ultimo rapporto dell’Academic Freedom Monitor.
Fatte salve le fondamentali libertà di ricerca, di apprendimento, di insegnamento e di espressione, tutelate anche dalla nostra Costituzione, l’analisi evidenzia che le principali debolezze del sistema accademico italiano risiedono nell’insicurezza relativa alla continuità dei finanziamenti, “condizioni di lavoro e salariali scarse” e “pratiche scorrette nelle procedure di gestione e assunzione del personale accademico”.
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Scarse risorse finanziarie
Il sotto-finanziamento della ricerca in Italia dura da decenni, ma oggi trova sponda in “un governo nazionale che non dà priorità alla scienza e alla ricerca” si legge. Mentre la media europea di spesa in ricerca e sviluppo è il 2,2% del Pil, l’Italia oggi si ferma all’1,3%, quasi tre volte meno della Germania e quasi due volte meno della Francia.
Non solo sono pochi, i finanziamenti sono anche a intermittenza. In un discorso al Senato, a gennaio di quest’anno, la ricercatrice e senatrice a vita Elena Cattaneo riferendosi ai bandi ministeriali PRIN (progetti di rilevante interesse nazionale) ricordava che “negli anni 2013, 2014, 2016, 2018, 2019 e 2021 non vi sono stati bandi e, in alcuni anni, il totale delle risorse disponibili per tutti gli ambiti disciplinari ammontava, ad esempio, a 100 milioni nel 2010, 39 milioni nel 2012, 92 milioni nel 2015”.
Dal 2021 sono stati introdotti i bandi FIS (Fondo italiano per la scienza), che però “non prevedono date certe per la pubblicazione dei risultati delle valutazioni”. Sono ad esempio trascorsi 18 mesi per i risultati del bando FIS 1 e fino a 13 mesi per quelli del bando FIS 2: “queste tempistiche fanno sì che nel frattempo i progetti possano risultare superati e obsoleti” rimarcava Cattaneo.
Chi ne fa le spese sono soprattutto i giovani ricercatori e le giovani ricercatrici, che hanno bisogno di fondi per condurre e pubblicare le loro ricerche, ma che vanno avanti a contratti di pochi anni (tre quando va bene), pagati in Italia quasi la metà di quanto prenderebbero in alcuni Paesi del Nord Europa.
Sotto il governo Draghi, la riforma della ministra Messa (legge 79/2022) aveva provato a mettere ordine al pre-ruolo universitario, introducendo il contratto di ricerca, che rispetto agli “assegni” e alle “borse” garantisce maggiori tutele fiscali e contributive, ma rappresenta un onere maggiore per gli atenei, stretti nella morsa pluriennale della scarsità di risorse. Fino a fine 2024 si è scelto di prorogare gli assegni e i contratti di ricerca finora non sono quasi mai stati utilizzati.
La ministra Bernini del governo Meloni ha tentato allora di reintrodurre un “cassetta degli attrezzi” in grado di fornire alle università strumenti contrattuali “più flessibili”. Il disegno di legge 1240, presentato a settembre 2024, proponeva, o meglio riproponeva, borse junior e senior, assieme a figure come gli assistenti (termine ormai d’altri tempi) e professori aggiunti, nominati direttamente dal rettore. Il ddl era stato avallato da CRUI e CUN, ossia la conferenza dei rettori e l’organo di rappresentanza dei docenti universitari (il consiglio universitario nazionale).
La riforma rientra dalla finestra
È stato grazie all’azione di ADI (Associazione Dottoranti e Dottori di ricerca in Italia) e FLC – CGIL (Federazione Lavoratori della Conoscenza), che hanno presentato un esposto alla Commissione Europea sul mancato avvio dei contratti di ricerca, che a febbraio di quest’anno il ddl Berini è stato accantonato, ma solo temporaneamente.
La volontà del governo, ma anche di una parte del mondo accademico, è infatti quella di insistere con gli strumenti flessibili che fanno comodo agli atenei. In un emendamento (presentato in Senato al ddl 1445, a prima firma Occhiuto, FI) si parla di introdurre “incarichi di ricerca” e “incarichi post-doc”. Quest’ultimo, se approvato, andrebbe di fatto a sostituire il contratto di ricerca, e il rischio è quello di cambiare l’apparenza, ma non la sostanza: contratti precari e pagati poco.
Il governo italiano avrebbe un’occasione storica di risollevare la ricerca nazionale, soprattutto a fronte del fatto che dagli Stati Uniti è in corso una fuga di cervelli che altri Paesi europei si stanno preparando ad accogliere: all’evento della Sorbona del 5 maggio, Choose Europe for Science, Macron ha messo sul tavolo altri 100 milioni di euro per attirarli, mentre Ursula von der Leyen ne ha annunciati altri 500 milioni “per rendere l’Europa un magnete per la ricerca”.
In Italia invece non solo il ministero, ma anche un’ampia fetta del mondo universitario accetta di tenere bassa l’asticella, discutendo di come gestire il sistema con poche risorse, a danno dei giovani precari, invece di combattere una battaglia per affrontare il problema a monte: ottenere più risorse e alzare il livello dell’offerta accademica italiana, che ad oggi fatica a risultare attrattiva in un mercato, quello della ricerca, costitutivamente internazionale.
Non aprirsi al mondo permette però di gestire la struttura accademica su scala locale e magari portare avanti linee di ricerca in base alla fedeltà e non al merito, all’innovazione, alla creatività, al coraggio di voler scoprire qualcosa di nuovo. Significa far finta di non vedere o peggio non voler affrontare quelle pratiche opache di gestione e assunzione che oggi vengono rilevate anche dal monitoraggio europeo. Significa rimanere ancorati a un’idea anacronistica di accademia e non essere disposti a tenere il passo del XXI secolo.