CULTURA
Musei e scuole contro la povertà educativa: “Ciascuno cresce solo se sognato”

Foto: università di Padova
Quattro su dieci. Questo il numero di bambini, bambine e adolescenti di età compresa tra i 6 e i 17 anni che hanno visitato un museo o una mostra nel nostro Paese tra il 2022 e il 2023. Solo il 40% a livello nazionale, quota che in Calabria e Puglia scende sotto il 25%, stando ai dati forniti da Openpolis.
Generalmente sono le famiglie in difficoltà economica a rinunciare alla fruizione dei luoghi della cultura e di questo si deve tener conto nelle politiche di contrasto alla povertà educativa. In quest’ottica la scuola svolge un ruolo cruciale. Secondo la nostra fonte, nel 2022 circa il 74% dei musei ha svolto visite guidate per scolaresche, e il 45% ha tenuto dei laboratori didattici. Solo il 30% delle istituzioni museali, però, riferisce di avere attivato vere e proprie collaborazioni strutturate con il mondo della scuola, e appena il 12% circa ha proposto progetti rivolti in modo mirato a chi vive in povertà economica, educativa o culturale.
I dati ci hanno offerto lo stimolo per una riflessione, per ragionare su quali siano oggi il ruolo e le potenzialità dei musei, anche nel loro rapporto con il mondo scolastico. Ne abbiamo parlato, nel corso di una lunga conversazione, con Silvia Spadoni, coordinatrice del dipartimento di Comunicazione e didattica dell'arte dell'Accademia di Belle Arti di Bologna, e docente di pedagogia e didattica dell'arte e di didattica dei linguaggi artistici.

Museo di scienze archeologiche e d'arte. Foto: università di Padova
Cominciamo da una domanda che potrebbe sembrare banale: perché portare bambini e bambine nei musei?
Per un'infinità di motivi, specie nei musei d'arte contemporanea. Non che le pinacoteche, i musei archeologici o musei di arte moderna siano secondari, ma l'arte contemporanea ha un vantaggio incredibile rispetto alle arti degli altri secoli: stupisce molto di più. Per i materiali, per i linguaggi e per le scelte radicali degli artisti a partire dal primo Novecento. E questo scatena molto più facilmente delle reazioni nel pubblico bambino, adolescente e adulto. Reazioni che possono essere a volte di fastidio, di entusiasmo, di negazione. C'è un alto livello di provocazione che determina un pensiero critico, in qualsiasi direzione esso vada.
Il pensiero critico manca nella società contemporanea da più punti di vista, e certo non solamente nell'infanzia, ma soprattutto nell'età adulta. Il pensiero critico si forma fin dai primi anni di vita attraverso l'educazione, e l'arte è uno strumento eccezionale. In primo luogo perché è creazione di donne e uomini contemporanei, dunque è una produzione eterogenea che parla di un soggetto al mondo che vive, e del mondo che lo circonda. Di conseguenza, le informazioni che noi possiamo trarre da un rapporto di fruizione intenso con l’opera ci riguardano sempre. Non sono esclusivamente patrimonio dell'artista, ma sono patrimonio dell'artista che vive nella nostra società.
Fruire dell'arte è un modo per conoscere la contemporaneità da un punto di vista critico, perché l’artista è un soggetto in opposizione, una persona che crea per uno stato di insoddisfazione, di mancanza, di desiderio. E questo è un aspetto che bambini e bambine dovrebbero scoprire: purtroppo è soprattutto chi proviene da famiglie in difficoltà economiche a essere carente di esperienze educative e culturali di questo tipo.
Ha esperienza anche di musei scientifici?
Abbiamo avuto occasione di lavorare a mostre di artisti contemporanei allestite nei musei scientifici storici di Bologna, per esempio. Tutta la cultura legata ai musei, alle biblioteche, agli archivi è preziosa e fondamentale, e permette di scoprire qualcosa che altrimenti la scuola tende un po’ ad appiattire. Spesso oggi i musei sono dotati di dipartimenti educativi che propongono attività di laboratorio: la visita, dunque, non rimane un’esperienza di ascolto passivo. I musei scientifici e quelli artistici, le pinacoteche, i giardini botanici, sono oggi molto preparati ad accogliere un pubblico bambino e adolescente.

Museo Giovanni Poleni. Foto: Università di Padova
Nel contrasto alla povertà educativa scuole e musei che ruolo hanno?
Da un po' di tempo ormai musei e scuole collaborano, e questo è sicuramente un valore aggiunto incredibile. Nelle grandi città dove ci sono musei scientifici e artistici con dipartimenti educativi, le scuole sono abituate a portare in visita studenti e studentesse in questi luoghi già da un ventennio, se non addirittura un po' di più. L’uscita però deve essere contestualizzata in un più ampio progetto educativo. Per questo chi si occupa di didattica museale propone anche percorsi che si sviluppano in classe in momenti precedenti e successivi alla visita alle collezioni, proprio per favorire la conoscenza. Non si dimentichi poi che alcuni musei promuovono anche esperienze formative nell’ambito dei Pcto-percorsi per le competenze trasversali e l'orientamento, rivolte a chi frequenta le scuole secondarie di secondo grado.
In tutto questo ovviamente il ruolo di chi lavora ogni giorno in classe è centrale. Nei quasi 30 anni di servizio al MAMbo - Museo di arte moderna di Bologna, ricordo un dialogo continuo con docenti di riferimento. Mi sto rendendo conto del potere incredibile di chi insegna, ma anche delle occasioni sterminate che si perdono. Conosco bene la difficoltà di fare lezione nelle scuole primarie e secondarie, con problematiche diverse, perché mi ci sono trovata. Purtroppo, però, spesso manca la vocazione. E mi riferisco soprattutto alle scuole secondarie. Avere la vocazione è fondamentale, e chi non ce l’ha dovrebbe valutare un’altra professione.
Lei sostiene che la scuola debba essere un “incubatore di destini”. Cosa significa?
Il grande educatore Danilo Dolci, nell’ultimo verso di una poesia straordinaria, sostiene che per insegnare bisogna saper sognare i bambini e le bambine che ti stanno di fronte (“Ciascuno cresce solo se sognato”, ndr). Sognarli significa da un lato portarli dentro, dall’altro portarli avanti. Vuol dire saper immaginare studentesse e studenti come future donne e futuri uomini nel mondo del lavoro. Stanare le loro competenze, le intelligenze, le predisposizioni, affinché possano capire quale potrebbe essere il loro ruolo da adulti.
Con il sapere che oggi possediamo a livello pedagogico, sociologico, antropologico, politico, culturale, noi insegnanti non possiamo esimerci da questo impegno. Perché altrimenti saremo direttamente responsabili di una popolazione che cresce sempre più nell’ignoranza. E questo è qualcosa che determina un cambiamento politico radicale, e lo stiamo vedendo.
Come già diceva Martha Nussbaum una ventina d’anni fa, nelle scuole il calo dell’interesse nei confronti della cultura umanistica ha cambiato la politica mondiale. È mancata un’educazione in grado di favorire la capacità di mettersi nei panni degli altri. E tu ti abitui a metterti nei panni degli altri quando hai come modelli la letteratura, la filosofia, la storia dell’arte. Queste sono tre materie fondamentali che consentono un’interpretazione attiva. Non che le materie scientifiche non la favoriscano: la favoriscono in modo diverso. Come dire, è una relazione più soggettiva che corale.

Nella relazione tra scuole e musei ci sono aspetti da migliorare secondo lei?
Potrebbe essere migliorata, innanzitutto, la capacità di considerare la con-fusione culturale. La cultura è meravigliosamente con-fusa, la divisione dei saperi che si attua a scuola, e perdura anche dopo, non è assolutamente realistica. Se il museo dispone di educatori ed educatrici competenti, l’insegnante potrà sentirsi supportato ad osare di più, aprendo nuove finestre su mondi che vanno oltre le sue competenze.
Negli anni Ottanta si cominciò a parlare di interdisciplinarità. Sembrava, questo, un vocabolo nato dall’ambito pedagogico, ma in realtà è la cultura stessa a essere interdisciplinare. Rimettersi a discutere intorno a questo termine significa dunque comprendere che gli ambiti si devono confondere, si devono mescolare. E il museo, che sia scientifico, artistico, o archeologico, favorisce questo approccio. Basta pensare del resto alla cultura europea del Cinquecento e al concetto di Wunderkammer, dove scienza, arte, astronomia, astrologia si confondevano. A mio avviso, quello è diventato un ideale cui tendere, favorevole in termini educativi, perché racchiude tutta l’esperienza della vita.
Ci sono altri elementi da considerare?
Un altro elemento importante è la capacità di saper “agganciare” bambini, bambine e adolescenti. Chi insegna e chi si occupa di educazione museale dovrebbe utilizzare esempi e metafore per creare ponti, per fare in modo che chi osserva una cera anatomica, una pergamena, un quadro riconosca nell’oggetto che gli sta di fronte anche il proprio vissuto. E provi, in questo modo, interesse.
Tante volte assisto a visite guidate ineccepibili, da un punto di vista storico, artistico o scientifico, ma chi conduce la visita non si rende conto di che pubblico ha davanti, che varia non solo in base all’età ma anche nel tempo. Ragazzi e ragazze cambiano e oggi sono diversi rispetto a tre, quattro anni fa. Noi invece invecchiamo, ci strutturiamo maggiormente, facciamo sempre più fatica a capire queste trasformazioni. Per tali ragioni ritengo che il contatto diretto con chi è in età scolare spetti alle giovani generazioni, più inclini a capire le esigenze di quell’età.
Queste considerazioni anni fa hanno spinto me e alcune colleghe a istituire il dipartimento di Comunicazione e didattica dell'arte all’interno dell'Accademia di Belle Arti di Bologna, proprio per formare chi vuole intraprendere questa carriera. Abbiamo istituito un percorso – che all’epoca ancora non esisteva – che affianca competenze teoriche a esperienze laboratoriali, valorizzando il ruolo centrale di educatori ed educatrici museali nel processo di coinvolgimento delle persone più giovani nei musei e nelle scuole. La società e la politica possono sicuramente fare molto, ma sono insegnanti, mediatori e mediatrici che devono saper intrigare il proprio pubblico.
Alcuni momenti del progetto "La bussola d'oro" con Silvia Spadoni
Ci può raccontare un’esperienza, un progetto museale a cui lei stessa ha contribuito?
Il comune di Bologna per alcuni anni ha promosso il progetto La bussola d’oro per favorire l’ingresso nei musei da parte di bambini e bambine. Era riservato in particolare a chi aveva un’età compresa tra gli 11 e i 14 anni e abitava nelle periferie della città, e aveva lo scopo di contrastare il disagio e la povertà educativa. Tra le strutture che aderivano all’iniziativa il Museo d’Arte moderna, il Museo della musica e altri.
Devo ammettere che è stato un lavoro difficile. A volte mi ritrovavo a pensare se realmente potevo offrire qualcosa al pubblico che avevo davanti. Riflettevo sulla realtà complessa da cui provenivano quei ragazzi e quelle ragazze, e mi domandavo se la visita a un museo potesse in qualche modo tornare loro utile. La risposta che mi sono data però è stata, sempre e comunque, affermativa, perchè quando si riesce a conquistare il loro cuore, gli occhi e lo sguardo nasce un entusiasmo che non ha pari.
Ci sono altre iniziative di cui è a conoscenza?
Facendo riferimento alla realtà che conosco meglio, posso dire che le scuole emiliano-romagnole hanno consolidato una stretta collaborazione con istituzioni culturali come il MAMbo, la Pinacoteca e l’Accademia di Belle Arti. L’Accademia in particolare ha avviato tutta una serie di attività e iniziative laboratoriali nelle realtà culturali bolognesi, gestite direttamente da studenti e studentesse, che iniziano a lavorare già durante il loro percorso formativo. E questo approccio ha favorito una condivisione più ampia della cultura con le scolaresche.