CULTURA

La Grande guerra, nella storia e nei luoghi

Fu davvero la Grande Guerra: non solo nella storia ma anche nella geografia. Pochi avvenimenti storici come la prima guerra mondiale hanno lasciato un segno così profondo nel territorio: in particolare nel Nordest italiano, per anni luogo fisico dello scontro tra le armate italiane e quelle austro-ungariche. Per rendersene conto basta percorrere l’Adamello o il Col di Lana, il monte Pasubio, bucherellato di crateri e gallerie, o il greto Piave. Oppure visitare centri come Bassano o Asiago, o fermare ogni tanto lo sguardo sui monumenti alla vittoria o ai caduti presenti in ogni paese italiano. 

Proprio dalla geografia e dal paesaggio prende spunto Andare per i luoghi della Grande Guerra, il libro che lo storico Marco Mondini ha appena pubblicato per Il Mulino (collana Ritrovare l’Italia). Più di una guida ma non un volume per i soli addetti lavori, “che parte da un presupposto essenziale – racconta l’autore al Bo – non si può parlare di storia senza conoscere i territori, in particolare senza analizzare come questi erano visti e percepiti dagli uomini dell’epoca”. 

Questo vale in particolare per il fronte alpino, dove per la prima volta due eserciti moderni si fronteggiarono su alcune delle cime più alte, ma anche più belle del Continente. Fu così che uno scenario piuttosto secondario per gli eventi bellici in poco tempo assunse un ruolo emblematico nell’immaginario collettivo, “e non solo per gli italiani, come dimostrano i reportage e i racconti dell’austriaca Alice Schaleck”, continua Mondini. “Mentre in altri paesi si celebrava il fascino degli aviatori, per austriaci e italiani gli eroi per antonomasia furono le guide alpine. E questo nonostante battaglie più importanti e i quattro quinti delle morti italiane non siano avvenuti in montagna”.

Un’impressione alimentata anche dalla propaganda, “che soprattutto all’inizio raccontò il conflitto con tinte folcloristiche o persino turistiche”, ma che poi si è paradossalmente ritorto contro la stessa partecipazione italiana alla guerra. “Ancora oggi all’estero è diffuso il mito della guerra bianca – spiega Marco Mondini –, che vede nelle operazioni sul fronte alpino una ‘simpatica passeggiata sui ghiacciai’. Libri come di grande successo come The White War di Mark Thompson, che avuto anche una traduzione italiana, continuano purtroppo a perpetrare tutti gli stereotipi su una guerra estetica, poco sanguinaria e affascinante da un punto di vista naturalistico. Del resto anche Kipling scrisse un bellissimo reportage su alpini, sempre però nel senso di un eroismo premoderno piuttosto che di una guerra industriale”. 

Un tratto della strada delle 52 gallerie sul Pasubio. Foto: Franca Cecchinato

Un grosso fraintendimento, secondo lo storico bassanese, “perché in realtà la guerra italiana, al pari di degli altri fronti, mobilitò risorse tecnologiche e organizzative straordinarie”. Come quelle per costruire la ‘strada delle 52 gallerie’ sul Pasubio, che permise il rifornimento di uno stretto teatro bellico in cui arrivarono ad operare fino a 40.000 uomini. Oppure quelle impiegate per portare sull’Adamello le sei tonnellate dell’‘Ippopotamo’, il cannone da 149 millimetri che diede un contributo decisivo all’offensiva del 1916 e alla ‘battaglia dei ghiacci’. Le vette alpine sulla linea del fronte divennero così teatro, oltre che di sofferenza, anche di imprese ai limiti della resistenza umana e della tecnologia dell’epoca. Perché, come scrive in un passo riportato nel libro il sottotenente Michele Campana, in forza al 157° reggimento fanteria ‘Liguria’ di stanza sul Pasubio, “La battaglia moderna non è più soltanto un rapido spostarsi e ammassarsi di truppe e di artiglierie, non è la manovra sapiente... quello dei due eserciti che crea il maggior numero di strade, di piazzuole, di comodità, vince certamente la battaglia”.

Foto: Franca Cecchinato

Oltre che al fronte, la guerra del 1914-1918 fu combattuta anche nelle città, spesso tralasciate nelle analisi storiche. Tra esse Padova, il ‘quartiere latino’ del Veneto, dapprima importante centro dell’interventismo – ad esempio con il grande congresso che nel 7-8 febbraio 1915 riunì quasi 15.000 persone, nell’anniversario della sollevazione degli studenti contro gli austriaci del 1848 –, poi capitale delle retrovie durante la lunga guerra di posizione. E ancora capitale al fronte dopo la rotta di Caporetto nel 1917, nonché teatro della firma dell’armistizio. Una posizione che fruttò alla città i primi attacchi aerei da parte dell’aviazione austriaca, ancora non molto efficaci ma terrorizzanti per la popolazione: 18 bombardamenti che provocarono 120 morti, il doppio di Venezia. “I centri urbani non furono solo luoghi di mobilitazione: in Veneto diventarono anche obiettivi di guerra, venendone poi profondamente trasformati”, spiega Mondini. Basta un po’ di attenzione per rendersene conto ancora oggi: “Pensiamo solo ad Asiago, interamente rasa al suolo e poi ricostruita dopo la guerra. Oppure al municipio di Padova, che è il vero e proprio monumento ai caduti della città. Di fronte a pochi passi palazzo Bo con l’atrio degli Eroi e le grosse porte di bronzo, tratte dalla fusione di cannoni austriaci”. Sui quali sono scritti i nomi degli studenti caduti in battaglia, molti dei quali arruolati infatti nel battaglione universitario “San Giusto”.

Nomi ed eventi che a 100 anni di distanza sembrano allontanarsi sempre più, nonostante il rinnovato entusiasmo di tanti appassionati e a un certo revival negli studi accademici: “Da un punto di vista accademico il centenario sta avendo un influsso molto positivo, dopo che per alcuni decenni la prima guerra mondiale era stata trascurata”. Ma cosa ci dice ancora la storia di questo immane conflitto, in cui trovarono la morte milioni di persone? “Il problema è che sotto molti aspetti l’Italia è ancora figlia della prima guerra mondiale: non tanto del 24 maggio 2015 quanto dalla mobilitazione che ne è seguita”. E questo non solo nei luoghi e nelle infrastrutture: “Ci sono elementi meno visibili ma ugualmente importanti: penso alla costruzione del primo sistema di welfare, che portò elementi che potremmo quasi definire ‘socialisti’ nello stato liberale. Oppure all’alfabetizzazione di massa, dato che durante la guerra la popolazione maschile viene spinta in maniera coattiva a maneggiare la parola scritta, così come le famiglie a casa. Da questo punto di vista la grande guerra è anche una straordinaria stagione di bulimia della scrittura”. Ci fu poi la straordinaria mobilitazione per la ricerca e l’industrializzazione del Paese: “Proprio durante il conflitto ad esempio si rafforzò la Fiat, nacque l’UIR (Ufficio delle invenzioni e della ricerca), che poi diventerà il CNR. La prima guerra mondiale è insomma la scintilla che fa nascere l’Italia moderna: ha la sua forte  dimensione di tragicità e di imposizione, su cui si deve continuare a discutere, ma non si può semplicemente archiviarla come errore”. Si rischia altrimenti di non capire l’Italia di oggi.

Daniele Mont D’Arpizio

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012