SOCIETÀ

Immigrati e accoglienza: sistema in bilico tra emergenze e liti politiche

Il forte aumento del numero di immigrati che giungono irregolarmente in Italia sta suscitando un dibattito acceso sull’opportunità di riformare il sistema di accoglienza e gestione degli stranieri entrati senza titolo. Le tensioni vanno spesso al di là della polemica tra le diverse forze politiche: un fronte trasversale è, ad esempio, quello degli enti locali, che vede di frequente contrapposti i rappresentanti di Regioni e Comuni contro prefetti e autorità governative. Il meccanismo attuale, in buona parte frutto dell’emergenza, distribuisce gli irregolari nel territorio nazionale secondo criteri che non sempre trovano l’intesa delle comunità locali. Ma come si articola esattamente l’organizzazione delle strutture che devono assistere e identificare gli stranieri e decidere della loro destinazione?

I centri che si occupano di gestire gli immigrati sono differenziati secondo la funzione che devono svolgere: molti, però, svolgono più compiti contemporaneamente. La loro istituzione nasce da un intrecciarsi di norme approvate in tempi diversi, che ha dato luogo a un sistema in cui sovrapposizioni, lacune giuridiche e frequenti proroghe di entità nate come provvisorie non garantiscono una gestione ottimale di flussi così imponenti. Iniziamo dai Centri di primo soccorso e accoglienza (Cpsa): sono i “pronto soccorso” dell’immigrazione, le strutture che devono far fronte alla fase che segue immediatamente l’arrivo degli immigrati, giunti autonomamente o soccorsi in mare. Il Cpsa più noto, perché più presente nelle cronache a causa della posizione che ne fa la destinazione principale degli sbarchi, è quello di Lampedusa. I Cpsa hanno il compito di prestare agli stranieri le cure mediche d’urgenza, fornire loro cibo e vestiti, svolgere le procedure di fotosegnalazione, raccogliere le richieste di protezione internazionale. Nei Cpsa gli immigrati dovrebbero rimanere il più breve tempo possibile: ricevute le prime cure, devono essere trasferiti nelle altre strutture, più adatte a una permanenza prolungata. Il ministero dell’Interno qualifica come Cpsa anche i centri di Cagliari, Lecce e Pozzallo (Ragusa).

Analoghi ai Cpsa sono i Centri di accoglienza (Cda): anch’essi ospitano gli stranieri il cui status non è ancora stato definito, e sono pensati come sedi temporanee dalle quali gli ospiti dovrebbero essere trasferiti in tempi molto rapidi verso i centri di loro effettiva pertinenza, a seconda che richiedano la protezione internazionale o, al contrario, non ne abbiano diritto o siano colpiti dal decreto di espulsione da parte della prefettura competente. Di fatto, tutti i Cda presenti sul territorio nazionale costituiscono una struttura che comprende anche i Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo), che alloggiano gli stranieri che hanno richiesto protezione. Non tutti, però: solo gli stranieri dei quali sia necessario accertare l’identità o che siano stati fermati mentre soggiornavano, o tentavano di entrare, in Italia irregolarmente. Nei Cara restano fino a che la commissione territoriale non deliberi la concessione o il diniego della protezione. Nel caso la protezione venga negata, l’immigrato deve lasciare il Cara con l’obbligo di abbandonare il territorio nazionale. Accanto ai quattro Cpsa che svolgono anche funzioni di Cara, sono dieci le altre strutture che operano in regime congiunto Cda / Cara: Gorizia, Ancona, Roma, Foggia, Bari, Brindisi, Crotone, Catania, Caltanissetta, Trapani.

Gli immigrati irregolari che non presentano richiesta di protezione internazionale, o la cui domanda è respinta, vengono invece trattenuti nei Cie, i Centri di identificazione ed esplusione. Attualmente in Italia sono attivi solo cinque Cie: Torino, Roma, Bari, Trapani e Caltanissetta. Qui possono essere tenuti per un massimo di 18 mesi, entro i quali si deve provvedere alla loro identificazione e al rimpatrio. Gli altri Cie istituiti (Milano, Bologna, Gorizia, Brindisi, Crotone, Trapani 2) al momento sono chiusi per ristrutturazione.

Per gli stranieri che hanno richiesto protezione internazionale e non si trovano in condizioni tali da rendere necessaria la loro permanenza nei Cara, Stato ed enti locali hanno costituito la rete Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), un network finalizzato a garantire agli immigrati ospitalità per la prima fase del loro soggiorno in Italia. La logica della rete Sprar è quella di assicurare un periodo-ponte durante il quale gli immigrati possano non solo ottenere un alloggio per un periodo non brevissimo (in genere sei mesi con possibilità di proroga), ma anche alcuni servizi che ne favoriscano la progressiva integrazione e autonomia. Il sistema funziona secondo il principio della collaborazione volontaria da parte degli enti locali: ogni anno il ministero emana più bandi per progetti di accoglienza finanziati da un fondo ad hoc.  Gli enti possono partecipare insieme ad associazioni locali no profit.

Fin qui il sistema ufficiale di accoglienza. Ma il forte incremento degli sbarchi registrato a partire dall’anno scorso ha reso del tutto insufficiente la rete dei centri per l’immigrazione e Sprar. Così, per far fronte ai grandi numeri da gestire in brevissimo tempo, il ministero dell’Interno è dovuto ricorrere più volte a provvedimenti finalizzati a costituire ulteriori reti di accoglienza, le cosiddette “strutture temporanee”: un metodo che si è ripetuto più volte negli ultimi mesi e che sta suscitando le reazioni più accese da parte di molte autorità locali. Funziona così: il ministero emana un piano di assegnazione con cui stabilisce che un certo numero di stranieri venga distribuito nel territorio di ogni provincia; ai prefetti è demandata la responsabilità, se possibile in collaborazione con gli enti locali, di reperire gli alloggi, assicurare il trasporto degli immigrati alla sede stabilita e stipulare convenzioni con soggetti pubblici o privati per i servizi di gestione delle strutture individuate. Un metodo che, per forza di cose, continua a essere replicato, e che i rappresentanti degli enti locali desiderano venga sostituito al più presto con un altro: ma lo scontro, ovviamente, è su come organizzare i flussi futuri.

Quali sono le cifre reali dell’emergenza immigrazione? Dati freschissimi, relativi ai primi sei mesi di quest’anno, sono arrivati dal ministro Alfano. A fine giugno 2015 gli sbarchi sulle coste italiane sono stati 428, per un totale di 59.606 immigrati: un dato molto vicino a quello (59.522) del primo semestre del 2014, anno in cui il fenomeno era esploso. Nell’intero 2014 erano arrivati sulle nostre coste 170.100 persone, pari a quasi il quadruplo del dato 2013 (42.925) e a oltre dodici volte la cifra del 2012 (13.267). Il ministro ha precisato che il 92% delle navi sbarcate nel 2015 proviene dalla Libia; gli immigrati sono in prevalenza eritrei (25%), nigeriani (10%), somali (9%) e siriani (7%). La rete Sprar garantisce accoglienza a 20.671 persone, mentre sono 48.000 quelle ospitate in strutture temporanee e altre 10.000 nei centri per l’immigrazione. Nel primo semestre 2015 sono state esaminate 22.666 domande di protezione (il 49% in più rispetto allo scorso anno): di queste, il 49% ha avuto esito positivo. Nei cinque Cie si sono registrate 2.162 presenze: per 1.121 persone è stato disposto il rimpatrio.

Martino Periti

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012