SOCIETÀ

Undici miti sulle migrazioni secondo il sociologo Heit De Haas, verifichiamoli

Il primo mito sulle migrazioni che andrebbe smontato è forse il principale, attualmente: “la migrazione è a livelli record”. Non è vero, punto. Gli attuali livelli di migrazione internazionale non sono né eccezionalmente alti né in crescita. Se esprimiamo il numero di migranti internazionali come quota della popolazione mondiale, in tutti calcoli statistici e storici vediamo che i livelli relativi di migrazione sono rimasti stabili, intorno al 3 per cento. Casomai, vi sono prove che i tassi di migrazione fossero più alti alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, vale per il nostro continente quando un’emigrazione di massa verso Africa, Americhe e Asia coincise con il picco dell’imperialismo europeo, vale in altri parti del mondo. Anche riferendosi ai migranti meno liberi, i rifugiati rappresentano tra il 7 e il 12 percento di tutti i migranti nel mondo e alla metà del XX secolo erano probabilmente (non solo in proporzione alla popolazione) più di oggi. Certo, da una prospettiva occidentale eurocentrica, vi sono state profonde trasformazioni nei modelli di migrazione, tali da “rovesciare” la mappa, ovvero le direttrici geografiche dominanti nelle correnti migratorie, sia legali che illegali.

Nei secoli scorsi il colonialismo europeo ha provocato la più grande migrazione forzata di ogni epoca (quella degli schiavi) ed è stata la più grande dinamica di migrazione illegale nella storia dell’umanità. Attualmente la novità principale riguarda l’origine sempre più extraeuropea della popolazione migrante. Tuttavia, la migrazione interna, ossia gli spostamenti entro il proprio territorio nazionale, è sempre stata molto più importante della migrazione internazionale, ossia degli spostamenti oltreconfine; quella interna da decenni particolarmente significativa nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto dalle aree rurali alle aree metropolitane in espansione. L’età moderna e industriale non è tanto una storia di migrazioni internazionali, quando di migrazioni dalle aree di campagna alle aree urbane, sia all’interno che al di fuori dei confini nazionali, connessa al grande bisogno di manodopera (in mestieri che richiedono la presenza fisica dei lavoratori) e ai relativi profili geografici o cicli economici. Oltre quattro quinti della popolazione mondiale continua a vivere nelle proprie regioni di origine, se si attraversa una frontiera in genere ci si sposta verso Stati vicini, la migrazione riguarda raramente lo sradicamento di intere popolazioni. A lungo termine sembra in corso un declino globale della mobilità o almeno della mobilità “migratoria” (con cambio di residenza).

Nel recente volume Migrazioni, il sociologo olandese Heit de Haas smonta i miti in materia, con un’argomentata disanima e una ricca documentazione. In ognuno dei ventidue capitoli riassume il mito nel titolo e nelle prime due pagine in cui cita sia "politici" che materiali che urlano quel mito con le loro convinte parole, per quanto errate; poi spiega (dettagliatamente) in molti successivi paragrafi come funzionano davvero le cose (How Migrations Really Works, il titolo inglese originale), citando anche casi esemplari nelle vicende interne ai paesi occidentali o geopolitiche. Per la maggior parte dei casi possiamo far parlare prevalentemente i titoli dei suoi paragrafi, molto netti e volutamente senza tanti avverbi conciliativi. Il secondo (interessato) mito è che “le frontiere sono fuori controllo”, non è vero, è un’affermazione che non corrisponde alla realtà, appunto. La stragrande maggioranza dei migranti sono legali; sul lungo periodo, l’immigrazione illegale non sta aumentando; l’immigrazione deriva soprattutto dal reclutamento attivo di forza lavoro; spesso anche i migranti illegali sono stati reclutati; il connesso mito dell’invasione è una forma di propaganda deliberatamente progettata per seminare panico e sospetto, una narrazione falsa e leggendaria per attingere agli istinti tribali e alle nostre paure più profonde. Qui l’autore cita le frasi enfatiche e sbagliate di due ministri di un governo italiano di qualche tempo fa, Frattini e Maroni.

Il terzo mito imporrebbe che “il mondo è di fronte a una crisi dei rifugiati”, anche in questo caso credo che l’autore abbia sostanzialmente ragione (pur dovendo necessariamente criticare anche strutture dell’Onu). Questi sono i titoli dei suoi paragrafi, con le condivisibili affermazioni sintetiche: il numero dei rifugiati è relativamente basso e non in crescita; la vera crisi dei rifugiati è nelle regioni di origine; non ci sono prove di un aumento di richieste d’asilo “false”; perché si vogliono scorrettamente gonfiare i numeri dei rifugiati; i flussi di rifugiati aumentano e diminuiscono in base ai conflitti umani (qui bisognerebbe meglio intendersi sul termine “conflitti”, talora sono attività umane non direttamente violente); il mondo è diventato più pacifico (anche qui non si spiega bene quando inizierebbe la propensione pacifica, se guardiamo alla paleoantropologia e alla storia il quadro non vede miglioramenti lineari); la crisi dei rifugiati è una crisi politica (giusto). L’autore opportunamente segnala come i Paesi di destinazione abbiano cercato di esternalizzare l’elaborazione delle richieste d’asilo su isole-carcere o in paesi stranieri. Da anni abbiamo offerto dati e spunti che confermano, anzi integrano con ulteriori elementi, l’impostazione di de Haas.

Il quarto mito indurrebbe a pensare che “le nostre società sono più eterogenee che mai”, pure in questo caso la scienza sociologica non evoluzionistica tende a usare termini (eterogeneità, razza, ecc.) che non hanno pieno valore interdisciplinare rispetto alle migrazioni. L’autore insiste molto sulla “dissomiglianza” (quando affronta la segregazione) e, soprattutto, sulla disomogeneità sociale rispetto agli incarnati (concetto molto sociologico e poco scientifico-interdisciplinare, riferibile anche alla composizione di classe cui spesso fa generico richiamo), aggettivizza più volte le persone e le comunità come autoctone oppure native, parla di composizione “ibride” o di nazioni più o meno “ibride”, usa 16 volte razza o razze, 38 razzismo, 54 razziale o razziali, 19 razzista e razziste ma non discute le connesse delicate questioni terminologiche e linguistiche (pure biologiche), non affronta una discussione sulla permanente nostra specie meticcia, antichissima e antica, non solo moderna.

Tuttavia, l’argomentazione contemporanea di De Haas ha un filo di pensieri abbastanza corretto: veniamo da un passato molto più “disomogeneo” di quanto pensiamo; il pericolo giallo, rosso e nero (negli USA), lì pulire le “scorie” dal crogiolo ha sempre rappresentato la scelta della maggioranza bianca contro le minoranze, gli ultimi arrivati (dopo aver annientato o emarginato i nativi), considerati come minacce per l’identità, la cultura e la sicurezza nazionali; le società e le culture sono diventate in realtà meno eterogenee; le società, e il mondo intero, oggi sono più uguali che mai; la diversità non minaccia la coesione sociale né l’identità nazionale; il vero pericolo non è la diversità in sé, ma le ideologie che separano le comunità come se fossero fondamentalmente diverse. Qui l’autore cita gli studi di due bravi economisti italiani, Alberto Alesina ed Eliana La Ferrara.

Il quinto mito è che “lo sviluppo nei Paesi poveri ridurrà la migrazione”, ah, quante volte lo sentiamo ripetere anche in Europa e in Italia, di questi tempi! Non è così e De Haas spiega o argomenta abbastanza bene, con dati irrefutabili: la migrazione aumenta man mano che i paesi poveri diventano ricchi; lo sviluppo porta una maggiore (non una minore) migrazione; la migrazione è una parte intrinseca dello sviluppo; lo sviluppo aumenta capacità e aspirazioni; è inevitabile che lo sviluppo spinga le persone fuori dalle aree rurali; il “paradosso” della migrazione è la conseguenza di tutto ciò e, pertanto, è probabile che il prossimo mezzo secolo diventi l’età della migrazione africana, proveniente dai Paesi poveri del continente subsahariano, non a dispetto ma, paradossalmente, a causa del loro sviluppo.

Il sesto mito descrive l’emigrazione come “una fuga disperata dalla miseria”, descrizione sbagliata e misera (in base al testo di De Haas, e non solo). Piuttosto: migrare è un investimento in un futuro migliore; migrare è una scelta razionale, quasi sempre un atto consapevole e deliberato; la migrazione è la forma più efficace di aiuto allo sviluppo e le (corpose) rimesse sono la prova migliore che i migranti hanno motivi più che validi per lasciare il proprio Paese; per sopravvivere, salvare la vita anche ai parenti, sperare di vivere i migranti riflettono e accettano di partecipare a una lotteria, tentando di vincerla; dalle oasi al paradiso, per esempio nelle gole di Todra in Marocco; meglio indebitarsi che restare a casa; la migrazione Sud - Sud è la strada principale per uscire dalla povertà; i migranti sanno pensare con la propria testa e, per costruirsi un futuro migliore, sono disposti a sopportare costi e rischi di una certa rilevanza.

Il settimo mito sostiene che “non abbiamo bisogno di lavoratori migranti” e che l’immigrazione da noi di lavoratori non qualificati dovrebbe essere impedita del tutto o consentita solo su base temporanea. Eppure: la domanda di manodopera è il motore principale della migrazione e i Paesi ricchi continuano ad avere tassi importanti sia di immigrazione sia di emigrazione; è importante distinguere ciò che motiva le persone a migrare a livello micro dalle cause strutturali della migrazione a livello macro (o dell’elefante nella stanza); l’immigrazione … è l’economia, stupido!; la crescita della domanda di manodopera migrante è incontestabile, fenomeno non gestibile nei “minimi particolari”; perché la migrazione per lavoro continua; la nuova servitù e il reclutamento di lavoratori ufficialmente “indesiderati”; i migranti meno qualificati svolgono lavori essenziali; la sconveniente verità che imporre restrizione agli ingressi non frenerà l’immigrazione. Qui l’autore cita anche correttamente forse il più bravo sociologo italiano delle migrazioni, Maurizio Ambrosini.

I primi sette miti sulla migrazione esauriscono la prima parte del volume di De Haas. La seconda parte ne contiene altri otto ed è intitolata con una domanda: minaccia o soluzione? L’ottavo mito è che “gli immigrati rubano il lavoro e abbassano i salari”. Statistiche ufficiali e studi competenti ci dicono il contrario, ecco i titoletti scelti dall’autore: gli immigrati non rubano il lavoro, occupano i posti vacanti; il caso dei cubani a Miami, l’esodo di Mariel (dall’aprile 1980); anche nel caso di shock migratori ad alta intensità, l’impatto dell’immigrazione sui mercati del lavoro è trascurabile, le ricadute sui salari e sull’occupazione sono minime; come l’immigrazione può addirittura creare più posti di lavoro; gli immigrati sono spesso individui eccezionali, hanno alimentato più volte il motore del progresso umano nel corso della storia; i lavorato “autoctoni” non sono adatti ai lavori che fanno gli immigrati; perché a esempio i lavoratori britannici si sono rifiutati di “raccontare per la Gran Bretagna”; è sui governi, non sugli immigrati, che ricade la responsabilità dei salari bassi. Niente scuse per cortesia.

Il nono mito è che “l’immigrazione mina lo Stato sociale”, anche questo come altri miti diffuso sia a destra e a sinistra. Invece: l’impatto fiscale dell’immigrazione è trascurabile e, comunque, cambia man mano che gli immigrati si radicano e si integrano; il contributo fiscale dell’immigrazione via via aumenta; non ci sono prove convincenti di un effetto magnete rilevante da parte del welfare (controversa idea dell’economista statunitense Borjas); gli immigrati irregolari rappresentano il maggior beneficio per i sistemi di welfare; è l’austerity, non l’immigrazione, la causa della crisi delle case popolari; i lavorato migranti sostengono lo Stato sociale, l’immigrazione è vitale per mantenere un servizio sanitario e offrire assistenza ai bambini e anziani, specialmente in economie fortemente liberalizzate come Regno Unito e statui Uniti e in Stati sociali deboli come Spagna e Italia (scrive De Haas).

Il decimo mito è ancor più netto, suggerisce che “l’integrazione degli immigrati è fallita”. Già, ma risulta errato. Sostiene ancora De Haas: a lungo termine, l’integrazione degli immigrati è un successo; successo evidente se osserviamo le competenze linguistiche e l’istruzione; al contrario, la discriminazione nella selezione del personale è reale, il razzismo rimane un ostacolo significativo all’integrazione dei migranti nel mercato del lavoro; i migranti si arrangiano da soli; l’accesso al lavoro e all’imprenditorialità è fondamentale per il successo; la cittadinanza è la migliore politica di integrazione (la frase è completa così, originale, da sottolineare qui e ora); l’”apartheid leggero” e l’illusione della temporaneità fanno danni (ulteriori e inutili); sfide a breve termine e successi a lungo termine vanno ponderati di conseguenza; ogni migrante vive una transizione radicale, socialmente ed emotivamente destabilizzante, è solo “umano” rendersene conto; tanto più che loro diventano più simili a noi che noi a loro.

C’è un interessante mito sulla migrazione, l’undicesimo, che talvolta scioccamente ripetiamo: “la migrazione di massa ha prodotto la segregazione di massa”. L’autore non mette il condizionale nemmeno qui, lucidamente spiega (con i suoi titoletti): con alcune eccezioni, la segregazione non raggiunge livelli allarmanti; rafforzandosi attraverso la vita comunitaria, le conseguenze della concentrazione etnica possono essere anche molto positive; le enclave etniche come macchine di emancipazione; alludere alla segregazione razziale negli Stati Uniti è fare sensazionalismo; dall’edilizia sociale al dumping sociale, casi inglesi e svedesi; “occhi per la strada” e pianificazione urbanistica sbagliata; il vero problema, sempre di più, è la segregazione per reddito, non possiamo separare il dibattito sulla segregazione dal dibattito più ampio sulle diseguaglianze attualmente esistenti. I primi undici miti sulla migrazione sono tutti sostanzialmente esistenti e serenamente da smontare. Non finiscono qui, siamo soltanto a metà trattazione: la cruda consapevolezza e la necessaria rimozione dei miti sulla migrazione continuano ad appassionarci.

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