SOCIETÀ

Paesi sicuri, migranti scomodi: l'UE vuole stringere i cordoni

La Commissione Europea sta tentando, e non da oggi, di riscrivere le regole che disciplinano i rimpatri dei migranti. Di “facilitarne l’uscita”, per così dire, o di bloccarne direttamente l’entrata respingendo le domande di asilo e rispedendoli nei loro Paesi d’origine o in altri, considerati sicuri. La questione ha una doppia valenza: politica e giuridica. La parte politica dipende dalle volontà dei singoli governi: e ce ne sono diversi, soprattutto in quelli dov’è prevalente la presenza di partiti di destra più o meno estrema, che considerano i migranti un problema sempre più urgente da risolvere (possibilmente da risolvere altrove), nonostante il calo degli ingressi irregolari (diminuzione del 27% nei primi quattro mesi del 2025) certificato dalle più recenti cifre diffuse da Frontex. La parte giuridica invece riguarda tutti gli Stati, perché si basa sul diritto comunitario: norme che per essere modificate hanno bisogno di un’ampia condivisione. Già lo scorso anno il Parlamento Europeo aveva approvato, con una maggioranza a dire il vero non larghissima (322 voti a favore, 266 contrari, 31 astenuti), il “nuovo Patto di migrazione e asilo” basato sul rapporto tra solidarietà e responsabilità nella gestione delle persone migranti tra i 27 stati membri. Un Patto che dovrebbe entrare in vigore a luglio 2026 e che aveva scatenato critiche aspre dalle ong (“un sistema mal concepito, costoso e crudele”), poiché autorizza, tra l’altro, “procedure di frontiera” che prevedono la detenzione per i migranti, senza distinzioni, nemmeno per le famiglie con minori di 12 anni. Secondo Amnesty International si tratta di “un accordo che produrrà ancora più grandi sofferenze umane: minore protezione e maggiore rischio di subire violazioni dei diritti umani in tutt’Europa, come respingimenti illegali e violenti, detenzioni arbitrarie e controlli discriminatori”. Mentre, a giudizio della Caritas, quel Patto “limita l’accesso all’asilo e i diritti di chi è in cerca di protezione”.

Il nodo dei “Paesi sicuri”

Ora però la Commissione Europea vuole di più. E la scorsa settimana ha presentato una proposta specifica, che sta già facendo discutere, per modificare la gestione della migrazione irregolare. Secondo le norme attualmente in vigore, le autorità di ciascuno stato possono disporre il trasferimento dei richiedenti asilo in un “Paese terzo sicuro” soltanto se quegli stessi migranti hanno un qualche legame con quel paese (per un precedente soggiorno oppure per la presenza di familiari). L’obiettivo è sempre lo stesso: portare la gestione delle richieste di asilo al di fuori dei propri confini. Per rendere la vita dei migranti ancor più difficile, se possibile. Come tentò di fare il governo conservatore britannico (con Boris Johnson prima e con RIshi Sunak poi, prima dello stop definitivo al progetto imposto dall’attuale primo ministro laburista Keir Starmer) con il progetto di deportazione degli immigrati irregolari in Rwanda, bloccato nel 2023 dalla Corte Suprema inglese perché considerato “illegale” dai giudici dal momento che il Regno Unito aderisce alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, una carta che obbliga gli Stati a garantire che le persone non siano sottoposte a tortura e altri abusi (e il Rwanda non dava queste garanzie). Eppure la Commissione, anche sulla spinta di diversi governi conservatori, compresa l’Italia (che con il controverso progetto Albania sta perseguendo uno schema simile), vuol tornare sul punto tentando di modificare la definizione di “paese terzo sicuro”: eliminando dal testo di legge la norma che prevede il precedente legame tra l’immigrato e il paese dove sarà deportato, contro la sua volontà. Secondo l’attuale legislazione europea un “Paese terzo sicuro” è uno stato non appartenente all’Unione Europea nel quale una persona richiedente protezione internazionale riceve determinate garanzie secondo “standard internazionali” ben definiti (la Commissione ha recentemente pubblicato un elenco di sette Paesi considerati sicuri: Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Marocco e Tunisia). La modifica consentirebbe agli Stati membri di respingere le richieste di asilo e dichiararle inammissibili se il richiedente asilo può ricevere “protezione effettiva” in un Paese terzo considerato “sicuro” dall’UE, anche se non ha alcun legame con quello Stato. “I Paesi dell’UE sono stati sottoposti a una forte pressione migratoria nell’ultimo decennio”, ha spiegato il commissario europeo per gli affari interni e la migrazione, l’austriaco Magnus Brunner. “La Commissione, gli Stati membri e il Parlamento europeo stanno concordando un sistema comune per gestire meglio questa pressione”. La proposta è stata invece nettamente criticata dalle organizzazioni per i diritti umani: “Mandare le persone in Paesi con i quali non hanno alcun legame, nessun sostegno e nessuna prospettiva non è solo una decisione caotica e arbitraria, ma anche devastante a livello umano”, ha commentato Olivia Sundberg Diez, avvocato dell’UE di Amnesty International per la migrazione e l’asilo. EuroMed Rights, un network che racchiude 68 organizzazioni per i diritti umani da 30 nazioni, ha lanciato un appello per far rimuovere dall’elenco dei “sicuri” Egitto, Tunisia e Marocco, poiché si tratta di “Paesi con violazioni dei diritti ben documentate e protezioni limitate sia per i propri cittadini sia per i migranti”.

Libertà d’espulsione: la richiesta di 9 Stati

Ebbene: oltre a voler cambiare quella definizione, ora 9 nazioni dell’Unione Europea, con Italia e Danimarca a fare da capofila, hanno deciso di forzare la mano proprio nel tentativo di cambiare quegli “standard internazionali” che dovrebbero garantire l’incolumità dei richiedenti asilo. E hanno inviato una lettera direttamente alla Corte europea dei diritti dell’uomo (corte EDU) per chiedere una maggiore libertà agli stati nel decidere quando espellere i cittadini stranieri che commettono reati. Di “reinterpretare”, di fatto, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU, un trattato internazionale firmato nel 1950 a Roma dai 46 stati che compongono il Consiglio d’Europa, concepito proprio per tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali) per consentire più agevolmente, e con meno paletti, l’espulsione degli immigrati che commettono crimini. “Riteniamo necessario avviare una discussione su come le convenzioni internazionali rispondano alle sfide che affrontiamo oggi”, sostengono i firmatari del testo, sottoscritto anche dai leader di Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia. “Ciò che un tempo era giusto potrebbe non essere la risposta di domani. Il mondo è cambiato radicalmente da quando molte delle nostre idee sono state concepite dalle ceneri delle grandi guerre”. E dopo aver ribadito che c’è ancora molto da fare prima di arrivare a un controllo dell’immigrazione, scrivono: “È importante valutare se, in alcuni casi, la Corte abbia esteso eccessivamente l’àmbito di applicazione della Convenzione rispetto alle intenzioni originarie, alterando così l’equilibrio tra gli interessi che dovrebbero essere tutelati”. Quegli stessi leader ammettono, in un passaggio del testo, che il tema è delicato: “Sebbene il nostro obiettivo sia salvaguardare le nostre democrazie, probabilmente saremo accusati del contrario. Ma vogliamo usare il nostro mandato democratico per avviare un dialogo nuovo e aperto sull’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dobbiamo ristabilire il giusto equilibrio”. 

Ma può l’interpretazione di una norma prevalere sulla sua applicazione? Come si può accusare (e dunque delegittimare) un organismo di giustizia internazionale di aver “personalizzato l’interpretazione” di quelle norme universali elaborate proprio a tutela della libertà delle persone? Il diritto alla vita, come recita l’articolo 1, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di pensiero e di religione, sono regole che possono essere distorte o fraintese a seconda delle convenienze del momento? Perentoria la risposta di Picum (Platform for International Cooperation on Undocumented Migrants), la rete di ong con sede a Bruxelles che si batte per la difesa dei diritti dei migranti senza documenti: “Se quei leader avessero davvero a cuore la sicurezza delle persone e la protezione delle vittime, dovrebbero smettere di smantellare i sistemi di welfare e iniziare a investire nell’assistenza invece di usare i migranti come capri espiatori per un guadagno politico”.

Il fenomeno della Crimmigration

Non c’è dubbio che sul tema della “gestione” dei migranti si giocherà una parte rilevante del futuro politico dell’Unione Europea. Ma quel che più preoccupa è il continuo ricorso al concetto di crimmigration, vale a dire la fusione tra criminalità e migrazione (concetto elaborato per la prima volta nel 2006 da Juliet Stumpf, docente di diritto dell’immigrazione presso la Lewis & Clark Law School, a Portland, Stati Uniti), che porta a ritenere criminali potenziali tutti gli immigrati in cerca di sicurezza, e a reprimere d’ufficio i loro diritti: che si trasforma di fatto in un sistema di emarginazione sociale progettato proprio per impedire l’integrazione dello straniero. Come riassume Austin Kocher, assistente professore di ricerca presso la Syracuse University, in una ricerca pubblicata lo scorso anno: “Il Crimmigration State è l'apparato di potere che utilizza la sua egemonia per formulare e legittimare categorie morali e legali che definiscono gli immigrati come popolazioni da governare e controllare. Nella pratica, il Crimmigration State è il processo di collegamento tra il sistema criminale e il sistema di immigrazione per incarcerare ed escludere i migranti in modo più efficace”. Intanto anche chi semplicemente aiuta i migranti rischia di finire nei guai: lo testimonia proprio un rapporto della Picum: lo scorso anno, in tutta Europa, almeno 142 persone sono state incriminate per aver tentato di aiutare (offrendo semplicemente acqua, cibo o un passaggio fuori dalla foresta) immigrati irregolari. E quando la solidarietà diventa un reato bisogna davvero preoccuparsi.

Ma l’equazione immigrati uguale criminali è sempre più diffusa nei pensieri e negli atti concreti dei governi, e non soltanto di quelli più conservatori, o dichiaratamente di destra. È di pochi giorni fa la notizia che il Regno Unito, oggi guidato dal premier laburista Starmer, è pronto a riprendere il piano in “stile Rwanda” e chiedere al Kosovo di accogliere i migranti in appositi “hub di rimpatrio” per spostare altrove le richieste di asilo(in prima battuta l’Albania, già impegnata con l’Italia, aveva rifiutato). Un’iniziativa che ha raccolto diverse critiche, con i laburisti accusati di attuare politiche di destra. Al tempo stesso la Francia accarezza l’idea di deportare nella foresta Amazzonica, a oltre seimila chilometri da Parigi, i detenuti più pericolosi: il ministro della Giustizia Gérald Darmanin ha annunciato un piano per la costruzione entro il 2028 di un carcere di massima sicurezza nella Guyana francese, in Sud America, riservato ai trafficanti di droga e agli jihadisti radicalizzati. Intanto Donald Trump punta a riaprire il carcere di Alcatraz. 

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