SOCIETÀ
Fuga da Tuvalu (che verrà sommersa): i profughi climatici e il destino delle isole basse

Tuvalu Coastal Adaptation Project (GCF) Credit: UNDP Pacific Office in Fiji - Flickr
Tuvalu è uno stato democratico indipendente dal primo ottobre 1978 (nella storia contemporanea fu colonia inglese), capitale Vaiaku, partecipante al Commonwealth quindi (con un teorico “governatore” locale), tecnicamente una monarchia parlamentare (l’attuale formale capo di stato è il re britannico), comunque dal 5 settembre 2000 una delle nazioni parte dell’Assemblea dell’Onu (come l’Italia, gli Usa o il Vaticano). Vi risiedono poco più di diecimila donne e uomini cittadini residenti; ogni quattro anni eleggono i quindici componenti di un’Assemblea Generale e, via via, un governo con un capo; dinamiche del potere istituzionale condizionate sia dalla reputazione che dalla topografia. La reputazione dipende dalla storia familiare e dall’identità personale; la topografia determina (come quasi ovunque nel mondo) una rivalità fra luoghi contigui di residenza, spesso antica e durevole, in questo caso fra chi sta un pelino più a sud e chi un pelino più a nord.
Tuvalu è dotata di un piccolo territorio, meno di una trentina di chilometri quadrati, una densità di oltre trecento abitanti per chilometro quadrato la seconda nazione meno abitata e la quarta meno estesa al mondo. Fra loro parlano tuvaluano, oppure inglese soprattutto con chi capita entro i loro confini, complicati da raggiungere, perché si tratta di uno stato insulare situato 3.400 chilometri a nord est dell’Australia, nel continente oceanico (a metà strada con le Hawaii). Tuvalu è circondato dalle acque dell’immenso bacino, un arcipelago di poche piccole isolette circondate da barriere coralline, ecosistemi terrestri che stanno per essere sommersi, progressivamente, inesorabilmente. Come altre isole in quell’immensa area del Pacifico. Da cinquant’anni gli scienziati lo hanno previsto, anche i residenti lo sanno, lo vedono. Un biodiverso paradiso di poche isole coralline e atolli va affrontando una minaccia senza precedenti: il riscaldamento globale e l’innalzamento degli oceani stanno lentamente ma inevitabilmente sommergendo le sue terre. Secondo le previsioni, entro il 2050 metà della capitale Funafuti, un atollo, sarà sott’acqua, e prima del 2100 quasi tutto l’arcipelago potrebbe essere sotto il livello del mare.
Trattandosi d’isole formate da atolli corallini la massima “altezza” sul livello del mare è di circa 4,5 metri, mentre l’altezza media si aggira attorno a 1,5 metri. Quasi tutti gli abitanti vivono a un’altezza inferiore a due metri sopra il livello del mare, praticano poco turismo, soprattutto pesca e agricoltura, qualcuno è marinaio all’estero o lavoratore emigrato altrove. L’arcipelago mostra da molto tempo segni degli effetti dei cambiamenti climatici: il mare s’innalza almeno 6 millimetri l’anno, sono affondati molti alberi di palma, villaggi risultano spesso inondati (a Latau più volte l’anno), sono scomparse le spiagge di sabbia bianca, cresce la salinità del terreno e sono permanentemente a rischio le risorse idriche di acqua dolce. I tuvaluani saranno profughi o rifugiati climatici nell’arco un paio di generazioni di chi vi vive oggi da maggiorenne. Da tempo hanno cercato di ovviare alla forzata delocalizzazione del futuro con accordi internazionali, bilaterali o multilaterali, trovando finora ovvio ascolto ma incerte soluzioni.

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Nel 2025 probabilmente si determinerà una svolta, da ben conoscere e valutare. Già nel maggio 2004 circa tremila donne e uomini di Tuvalu erano divenuti ufficialmente propriamente (potenziali) profughi climatici. Il governo della Nuova Zelanda, dopo il rifiuto dell’Australia (che periodicamente entra ed esce dalla Convenzione Onu sui Cambiamenti climatici), aveva accettato di concertare un programma immigratorio (75 immigrati dalle isole di Tuvalu) riconoscendo i profughi climatici “di diritto”, anche di Kiribati, Tonga, Fiji. Non ogni cittadino avrebbe potuto andarsene: quelli in possesso di determinate età, disponibilità lavorative, conoscenze linguistiche, ecc.; andarsene restò e probabilmente resterà difficile (o illegale) per poveri e anziani. Ha avuto modesto seguito pratico.
Ovviamente, il caso di Tuvalu non è unico. Venti anni fa quaranta famiglie avevano abbandonato la piccola isola di Ontong Java nell’arcipelago delle Salomone. Altrettanto noto è il più grande arcipelago delle Maldive, 1192 isolette e atolli nell’oceano Indiano, molti senza alture (anche di pochi metri), alcuni abitati. Hanno di fronte agli occhi il lentissimo innalzamento del mare e ondate di maree sempre più frequenti che periodicamente anticipano un probabile futuro permanente. I turisti potranno migrare altrove. I singoli abitanti potranno acquistare terre altrove o dovranno organizzare altre vie di fuga. E ancora diverso sarà il caso di alcune zone costiere.

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I piccoli arcipelaghi-stato e le piccole isole-stato sono poteri relativamente forti nel sistema ONU: votano, condizionano, attivano. Per alcuni di loro esistono accordi bilaterali, progetti, aiuti connessi di fatto alla prevenzione o all’assistenza dei profughi climatici. Non ogni cittadino vorrà andarsene: su piccole isole della Melanesia hanno piuttosto per ora trasferito il villaggio dalla baia all’entroterra. Inutile comunque negare la dimensione drammatica e urgente delle prossime probabili migrazioni forzate dalle piccole isole: siamo davvero al corpo dell’esistenza degli Stati e al cuore dei diritti umani. Quando hanno organizzato riunioni di governo in fondo al mare (come altre in cima alla montagna) non fanno scena, piccole o grandi parlano della fine di piccoli e grandi popolazioni umane e dei loro Stati nazionali territoriali, un caso peculiare di estinzione dello stato.
È impossibile prevedere l’anno o la generazione delle inondazioni e la migrazione dell’intera popolazione potrebbe diventare indispensabile anche prima e a prescindere dalla sommersione totale del suolo. Secondo vari studi, nel 2023 il livello del mare attorno a Tuvalu era di circa quindici centimetri più alto rispetto a trenta anni prima (quando vi fu la Conferenza di Rio e fu approvata la Convenzione sui Cambiamenti climatici). Gli abitanti che ancora vi risiedono dovranno individualmente o collettivamente migrare liberamente altrove oppure individualmente o collettivamente essere costretti a chiedere asilo ad altri Stati (per quanto tempo uno Stato può esistere in esilio se i propri abitanti non potranno mai tornare nel proprio territorio?) oppure collettivamente acquistare prima terre in altri Stati e altri Stati dare loro la possibilità di avere un nuovo territorio statale (unico improbabile scenario che almeno teoricamente salva lo Stato nazionale sovrano).
È dall’inizio delle Conferenze delle Parti sul clima che l’Alleanza degli stati insulari (oggi circa 42) chiede ufficialmente un esito del negoziato climatico capace di evitare semplicemente la scomparsa del loro stesso territorio (emerso) non solo per qualche giorno l’anno parzialmente (come avviene già oggi) ma tutto e per sempre. È almeno dall’approvazione del Protocollo di Kyoto (1997) che i governi di Tuvalu e delle Maldive chiedono ufficialmente di intervenire all’articolato sistema ONU della protezione dei diritti umani. Prima e dopo la Cop di Parigi (2015) hanno implorato di limitare l’aumento del riscaldamento a 1,5 gradi (finora con fragile successo negoziale e quasi nessun successo pratico); per tutti i rapporti IPCC e per tutti gli scienziati coinvolti sarebbe lo scenario migliore per l’intero pianeta. Hanno prodotto studi, ricerche, documentazione di valore globale. E sanno che l’innalzamento non è un nuovo ineluttabile fato, è parte di vicende anche antichissime di sistemi insulari, è connesso ad altri specifici fenomeni (come il costante rifornimento di sabbia e di frammenti calcarei dovuti al corallo), va gestito, non atteso o negato.
L'Australia e l'accordo straordinario per i diritti di Tuvalu
Da oltre un anno alcune positive novità (bilaterali) sono giunte dall’Australia, che ha deciso di collaborare con il governo di Tuvalu, creando un programma innovativo, chiamato Pacific Engagement Visa, definito a fine 2023 ed entrato in vigore nel 2024. Questo visto permette agli abitanti di Tuvalu di ottenere un permesso di residenza permanente in Australia, con gli stessi diritti dei cittadini australiani, come accesso a sanità, istruzione e assistenza sociale, seppur contingentato e regolato un po’ come i decreti flussi ben noti in vari stati europei. “Per la prima volta uno Stato si impegna riconoscere la sovranità futura di un altro, nonostante gli effetti devastanti del cambiamento climatico”, ha dichiarato il primo ministro tuvaluano Feleti Teo. Il nuovo documento personale rientra nell’accordo Falepili Union siglato nel 2024 tra Australia e Tuvalu, che impegna Canberra anche alla difesa dell’arcipelago in caso di catastrofi naturali o emergenze. Pure recenti previsioni scientifiche della Nasa (vedremo se confermate dopo gli interventi intimidatori del nuovo presidente statunitense) confermano che entro il 2050 gran parte del territorio di Tuvalu sarà sommerso dalle alte maree.
Si tratta obiettivamente di un passo storico: un documento ufficiale di identità (forse il primo al mondo) concesso principalmente a causa del riconoscimento degli effetti individuali dei cambiamenti climatici antropici globali, la prima migrazione pianificata di un intero popolo nazionale. Le domande di richiesta sono state subito moltissime, non può essere una sorpresa: quasi tutti i nuclei familiari, persone, hanno fatto subito domanda, più di metà della popolazione. Tuttavia, i posti disponibili sono solo 280 all’anno (anche nell’interesse della persistenza di Tuvalu) e vengono assegnati tramite un sorteggio casuale. Con questa velocità, ci potrebbero volere circa tre decenni per evacuare tutti gli abitanti, mentre il mare continua a salire. Non proprio tutti gli abitanti di Tuvalu vorrebbero lasciare case e terre, le tombe degli antenati. Per molti, quell’intero territorio rappresenta da generazioni l’identità e la storia dell’esistenza quotidiana. Inoltre, l’Australia potrebbe prevedere accordi simili con altre nazioni insulari del Pacifico (come Kiribati) e ha peraltro ottenuto alcuni poteri di sovranità sull’arcipelago di Tuvalu, in particolare in ambito militare, un aspetto importante considerando le tensioni geopolitiche nella regione, con la crescente influenza della Cina nel Pacifico.

I primi rifugiati climatici riconosciuti potrebbero arrivare in Australia entro la fine del 2025. Le domande per il visto sono state aperte ai cittadini di Tuvalu il 16 giugno 2025 e si sono chiuse il 18 luglio scorso, poche settimane fa. In base ai termini del visto, 280 tuvaluani potranno trasferirsi in Australia ogni anno a partire dal 2025 tramite un sistema di estrazione a sorte, i rappresentanti del paese-isola-continente lo hanno definito come “un percorso di mobilità dignitosa". Quattro giorni dopo l'apertura formale della richiedibilità, 3.125 tuvaluani si erano già registrati per il primo sorteggio. In base al censimento del 2022, Tuvalu ha 10.643 abitanti. Alla fine sono state 8.750 le persone ad aver presentato domanda, circa l’82% della popolazione totale. I beneficiari del visto non sono peraltro obbligati a traferirsi e potranno tornare a casa (Tuvalu) tutte le volte che lo desiderano. Tuvalu è probabilmente il primo di molti paesi a dover organizzare una evacuazione totale nel corso di alcuni anni a causa del cambiamento climatico, aprendo domande e prospettive sul futuro di molte altre nazioni vulnerabili, la cui stessa esistenza terrena sarà presto rimessa in discussione.
Del resto, a fine luglio 2025 abbiamo avuto conferme di essere agli “sgoccioli”. L’Overshoot Day cadeva quest’anno il 24 luglio 2025. Il 23 luglio è arrivata una storica sentenza della Corte internazionale di giustizia, massimo organo giuridico delle Nazioni Unite, 133 pagine frutto di 91 memorie scritte e centinaia di incontri con soggetti esterni). I giudici dell'Aja hanno stabilito che il cambiamento climatico è “una minaccia esistenziale” e gli Stati hanno “precisi obblighi” per prevenirla e ridurla. Il rilevante parere (non vincolante ma abbastanza capace di condizionare altri accordi e altri giudici) era stato richiesto nel 2019 da un gruppo di studenti dell’arcipelago di Vanuatu, Stato insulare del Pacifico che come Tuvalu rischia di sparire sott'acqua. Appare giustificato e probabile un ulteriore impulso alle cosiddette cause climatiche, intentate in vari Paesi da cittadini e ong ambientaliste contro governi o imprese ritenute responsabili, per inazione o emissione di gas climalteranti, della crisi e degli effetti delocalizzanti in atto.