SCIENZA E RICERCA

Il costo dell'inazione climatica quantificato dagli economisti

Spesso si sente dire che la transizione a un modello di sviluppo più sostenibile non sarà un pranzo di gala, che ci costerà moltissimo. Il titolare del ministero della transizione ecologica nell’estate del 2021 addirittura aveva dichiarato che la transizione che era stato chiamato a guidare sarebbe stata un “bagno di sangue”. Ma quanto costerebbe invece non farla? Quanto costerebbe l’inerzia che continua a far aumentare la concentrazione in atmosfera di gas serra che continuano a far salire la temperatura del pianeta?

“In vari Paesi del mondo oggi assistiamo al tentativo di rallentare la transizione energetica” ha detto Carlo Carraro, economista ambientale e rettore emerito dell’università Ca’ Foscari di Venezia a un incontro organizzato a fine ottobre dal Centro Levi Cases. “Alcuni usano il termine pragmatismo, ma allora vediamo davvero cosa è più conveniente in termini economici, sociali, ambientali e finanziari”.

L’uragano Melissa che si è abbattuto su Jamaica, Cuba, Haiti e altre isole dei Caraibi è stato uno degli eventi meteorologici più estremi mai registrati nell’Atlantico. È ancora presto per avere numeri precisi, ma le stime preliminari parlano di circa 50 morti (potrebbero essere molti di più) e almeno 50 miliardi di dollari di danni. Spostando indietro la lancetta di 12 mesi, gli uragani Milton e Helene avevano superato i 100 miliardi di dollari di danni negli Stati Uniti, mentre gli incendi di Los Angeles erano arrivati addirittura a 250 miliardi.

Già queste possono sembrare cifre ragguardevoli, e lo sono, soprattutto per quei Paesi insulari che non sono attrezzati a fronteggiare queste catastrofi ambientali (il Pil di Haiti è di 25 miliardi di dollari, quello della Giamaica anche più basso). Ma ancora non si avvicinano neanche lontanamente o a cogliere la reale portata dell’impatto del cambiamento climatico sull’economia globale, un campo di studi che da almeno tre decenni dispone di un ampio numero di pubblicazioni scientifiche.

Uno dei primi economisti a occuparsi dei nessi tra clima e crescita economica è stato William Nordhaus, premiato nel 2018 con il Nobel per l’economia, soprattutto per i contributi forniti negli anni ‘90. Nordhaus aveva stimato che il cambiamento climatico sarebbe arrivato a erodere solo 2 o 3 punti percentuali del Pil globale.

Oggi, 30 anni dopo, non solo i climatologi stanno registrando eventi meteorologici estremi più intensi e più frequenti che in passato, ma anche gli economisti hanno raccolto più dati e sviluppato diverse metodologie per quantificare meglio i costi. Diversi approcci restituiscono risultati diversi, ma tutti giungono a una conclusione comune: un cambiamento climatico non mitigato è un freno a mano tirato per lo sviluppo economico, molto di più di quanto non lo siano gli investimenti per la transizione.

Una pletora di studi e il costo dell’inazione

Esiste ad esempio una tipologia di studi che mette a confronto il mondo in cui viviamo, che si trova su una traiettoria in cui le temperature stanno aumentando rapidamente, con un mondo ipotetico in cui il riscaldamento globale non esiste. Uno studio pubblicato su Nature l’anno scorso aveva trovato che in un mondo, il nostro, più caldo di 2°C a metà secolo il Pil globale sarebbe quasi il 20% più basso rispetto a quello di un mondo non perturbato dall’attività antropica: parliamo di una differenza di circa 38.000 miliardi di dollari l’anno. I metodi e i risultati di questo lavoro tuttavia sono al momento sotto revisione.

Un altro studio condotto da altri due economisti, pubblicato nel 2024, adottando metodologie diverse giunge a conclusioni non dissimili. Per ogni ulteriore grado centigrado di aumento della temperatura, rispetto a quasi il grado e mezzo di riscaldamento che già ci siamo conquistati, perderemmo ogni anno circa il 12% del Pil globale.

Un altro lavoro ancora, pubblicato anch’esso l’anno scorso su Nature Climate Change, stima invece che un riscaldamento che raggiunge i 3°C si porterebbe via il 10% del Pil globale. Se venisse implementato l’accordo di Parigi e restassimo attorno a 1,5°C, anche la perdita di Pil verrebbe contenuta al 3%. “Ma c’è ormai un consenso pressoché unanime che le politiche attuali ci porteranno più verso i 3°C” ha detto Carlo Carraro “e da questi dati si può ricavare il vero costo dell’inazione” ovvero il costo che pagheremo non facendo la transizione, “che è di almeno 7 punti percentuali di Pil”.

Un’altra analisi ancora l’ha elaborata la Banca Centrale Europea, Road to Paris, e considera tre possibili scenari: uno verde in cui la temperatura globale viene mantenuta a 1,5°C grazie a una transizione rapida, uno rosso che arriva a 3°C senza una transizione efficace, e uno intermedio, giallo, in cui la temperatura sta tra i 2° e i 3°C a causa di un ritardo nell’avvio della transizione. “Quelli della Banca Centrale Europea non sono dei pericolosi ambientalisti e il loro lavoro mostra che non conviene ritardare la transizione, perché il costo complessivo per famiglie e imprese sarebbe maggiore di uno scenario in cui la transizione si fa rapidamente” sottolinea Carraro. “Anche il Fondo Monetario Internazionale mostra che la transizione costa, ma ritardarla costerebbe di più. Anche l’OCSE giunge alla stessa conclusione”.

Anche NGFS (Network for Greening the Financial System) a novembre 2024 ha pubblicato le sue ultime analisi economiche degli scenari climatici: la stima riportata è una perdita fino al 15% del Pil globale al 2050, rispetto a un mondo ipotetico non impattato dal cambiamento climatico.

Dal globale al locale

Se dal livello globale si va analizzare un caso locale le conclusioni non cambiano. Maurizio Delfanti del Politecnico di Milano ha presentato il caso della Sardegna, la regione italiana con la più alta produzione di CO2 per kilowatt/ora di energia elettrica consumata, principalmente a causa del carbone di cui l’isola è stata a lungo estrattrice. Da anni la regione e i suoi abitanti, così come la classe politica e i giornali locali, sono protagonisti di un acceso dibattito: spostarsi verso un sistema energetico dominato dal gas naturale o dalle rinnovabili.

Uno studio promosso da Coordinamento FREE (fonti rinnovabili e efficienza energetica) e condotto da ricercatori del Politecnico di Milano, dell’università di Padova e dell’università di Cagliari, ha preso in analisi diversi possibili scenari energetici della Sardegna, valutando quale traiettoria risulti in costi più contenuti per l’isola, nel rispetto degli impegni emissivi ed energetici stabiliti dalle leggi nazionali ed europee.

Secondo Delfanti, tra gli autori dello studio, la traiettoria più conveniente, in termini di riduzione delle emissioni e riduzione dei costi energetici per le famiglie, è quella che punta su uno scenario 100% rinnovabile, con circa 7 GW di fotovoltaico e 4 GW di eolico al 2030.

“Con rinnovabili e accumuli, si prevede che il prezzo zonale dell’energia elettrica calerà del 39% in pochi anni, da una media di 108,3 euro per MWh nel 2024 a 66,4 €/MWh nel 2030” secondo Arturo Lorenzoni, economista energetico del Centro Levi Cases che ha partecipato alla studio. “I maggiori costi iniziali di investimento per sviluppare le rinnovabili saranno più che compensati da costi di esercizio degli impianti nettamente inferiori rispetto alle fonti fossili”. 

A dispetto del clamore che si è generato intorno alla questione dell’occupazione di suolo, lo studio sostiene che per raggiungere gli obiettivi di fine decennio sia sufficiente lo 0,4% della superficie agricola totale dell’isola, circa 5000 ettari. Delfanti la spiega anche in altri termini: “i campi da padel che hanno costruito negli ultimi anni hanno occupato più suolo di quello che dovremmo usare per il fotovoltaico in Sardegna”.

Governare una giusta transizione

Nonostante oggi viviamo in un periodo in cui la transizione energetica incontra forti resistenze, i dati degli investimenti globali dicono che questi ostacoli hanno tutt’altro che interrotto il suo cammino. Per la prima volta gli investimenti in energie sostenibili hanno doppiato quelli destinati alle fonti fossili: secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, ha ricordato Luciano Lavecchia, economista della Banca d’Italia, i primi hanno superato i 2.000 miliardi di dollari, mentre i secondi sono rimasti nell’ordine dei 1.000 miliardi.

È proprio questo cambiamento che va governato per evitare terremoti sociali. “Nel 2019 sono scesi in piazza in Francia i gilet gialli, contro una misura sull’aumento del costo dei carburanti. L’anno scorso lo hanno fatto gli agricoltori in Olanda e poi in tutta Europa” ha ricordato Lavecchia. “Perché la gente scende in piazza? Perché le famiglie più povere subiscono un’incidenza della spesa energetica che è il doppio rispetto alle famiglie più ricche. Quando c’è uno shock energetico avvertono loro più duramente il colpo”.

Questo fenomeno è chiamato dagli economisti povertà energetica e in Italia interessa più di 2 milioni di famiglie (il 9% del totale). Politiche che intendono disincentivare l’utilizzo di fonti emissive e promuovere quello di soluzioni più sostenibili, come ad esempio la carbon tax, sono strumenti efficaci, spiega Lavecchia, ma sono anche misure che almeno inizialmente fanno crescere il prezzo dell’energia e di conseguenza generano impatti maggiori sulle fasce più povere. “Devono essere allora accompagnati da misure di compensazione”.

Governare una transizione giusta, che non lasci indietro nessuno, è quello di cui una politica all’altezza delle sfide del suo tempo dovrebbe discutere. Sentire un ministro dire che la transizione sarà un bagno di sangue è come sentire dire da un dentista che togliere un dente cariato sarà dolorosissimo. Nessun bravo dentista però rinuncerebbe a togliere quel dente.

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