SCIENZA E RICERCA

La psicologia di un futuro equipaggio marziano

Come si costruisce un equipaggio capace di reggere mesi di isolamento, stress e decisioni in condizioni estreme, a milioni di chilometri da casa? È la domanda che ha guidato lo studio pubblicato su Plos One da Iser Pena e Hao Chen, del Stevens Institute of Technology, che hanno tentato di rispondere con un modello simulato di missione verso Marte.

Non si tratta di un esperimento tradizionale condotto su persone reali, ma di una simulazione al computer, costruita secondo la logica dell’agent-based modeling: un metodo in cui ogni individuo viene rappresentato come un’entità autonoma, un “agente”, dotato di caratteristiche proprie e capace di interagire con gli altri. In questo caso, gli agenti rappresentano membri di un equipaggio spaziale, ciascuno con precisi tratti di personalità e un ruolo funzionale a bordo. Il modello consente così di osservare come il gruppo si comporta nel tempo, sotto condizioni di isolamento e pressione, e di misurare come varia lo stress, la salute psicofisica, la produttività e la coesione complessiva della squadra nel corso della missione.

Dietro l’apparente tecnicismo si nasconde una questione cruciale: non basta scegliere astronauti eccellenti dal punto di vista fisico e operativo. È la combinazione dei loro caratteri psicologici a determinare la stabilità o la fragilità dell’equipaggio. Pena e Chen hanno quindi integrato due dimensioni: quella dei tratti della personalità, organizzati secondo il modello dei cinque fattori principali (apertura, coscienziosità, stabilità emotiva, estroversione e amabilità), e quella delle competenze operative, cioè i ruoli che ciascun astronauta ricopre, dal pilota al medico di bordo.

Squadre diverse, risultati diversi

All’interno della simulazione, ogni agente svolge compiti, reagisce agli imprevisti e interagisce con gli altri membri del gruppo. I ricercatori hanno poi modificato la composizione delle squadre, creando equipaggi “omogenei”, in cui i profili psicologici erano simili, e altri “eterogenei”, caratterizzati invece da tratti e temperamenti differenti.

Il confronto tra i due tipi di squadra ha mostrato risultati netti. Gli equipaggi eterogenei tendono a essere più resilienti: mantengono livelli di stress più bassi, mostrano un migliore equilibrio psicofisico e ottengono prestazioni più stabili nel tempo. Le differenze diventano particolarmente evidenti quando nel gruppo si combinano personalità caratterizzate da alta coscienziosità e basso neuroticismo, oppure da estroversione e amabilità elevate, un binomio che favorisce la cooperazione e la gestione dei conflitti.

La diversità nei ruoli funzionali — la presenza, cioè, di competenze diverse — da sola produce effetti più deboli. Tuttavia, se abbinata a una diversità di personalità, diventa un fattore decisivo per la tenuta complessiva della squadra. Al contrario, i gruppi troppo omogenei mostrano comportamenti più prevedibili ma anche più rigidi, con una maggiore tendenza all’accumulo di stress e a un progressivo calo delle prestazioni durante le fasi più lunghe della missione.

Nel complesso, il modello suggerisce che la capacità di adattarsi, di superare tensioni e di ricompattarsi dopo una crisi non dipende da una singola persona, ma dall’interazione fra individui diversi. La resilienza collettiva nasce dalla differenza: è l’equilibrio tra caratteri complementari, più che la somiglianza, a generare stabilità nel lungo periodo.

I limiti del modello e le verifiche future

Gli autori riconoscono che il loro approccio, pur sofisticato, è ancora una semplificazione della realtà. Nel modello i tratti della personalità sono considerati statici, mentre in una missione reale cambiano sotto l’effetto del tempo, dell’ambiente e dell’isolamento. Non vengono simulate le dinamiche più complesse della leadership o dei conflitti prolungati, né gli effetti di eventi imprevisti, crisi morali o rapporti affettivi. Si tratta dunque di una base teorica, utile per identificare le variabili principali ma ancora lontana da una rappresentazione completa del comportamento umano nello spazio.

Pena e Chen sottolineano che serviranno ulteriori verifiche sperimentali, da condurre negli “analoghi terrestri” delle missioni spaziali: ambienti chiusi, isolati e controllati in cui gruppi di volontari o astronauti vengono monitorati per lunghi periodi. Solo confrontando le previsioni del modello con dati osservabili si potrà capire se le dinamiche simulate corrispondono davvero a ciò che accade in condizioni reali.

L’esperienza delle missioni simulate

Lo studio si inserisce in un filone di ricerca che negli ultimi anni ha prodotto risultati significativi. Esperimenti come il progetto Mars500, condotto tra il 2007 e il 2011 a Mosxa, hanno mostrato quanto le dinamiche psicologiche incidano sulla vita di un equipaggio confinato. In quella missione simulata, sei uomini trascorsero 520 giorni isolati in un modulo sigillato, con una routine rigida e comunicazioni ritardate con il controllo a Terra. I ricercatori osservarono oscillazioni marcate del tono dell’umore, disturbi del sonno, cali di efficienza e un aumento dei conflitti con il centro di comando.

Uno degli aspetti più noti emersi da Mars500 fu la cosiddetta “sindrome del terzo quarto”: un peggioramento collettivo della motivazione e dello stato emotivo nella fase intermedia della missione, quando la novità iniziale è svanita ma il traguardo finale è ancora lontano. Fenomeni di questo tipo confermano che la psicologia del gruppo e la capacità di adattamento individuale sono elementi centrali per la riuscita di un viaggio di lunga durata.

Le implicazioni per le future missioni su Marte

Se la stabilità di un equipaggio dipende dall’equilibrio dei caratteri, la selezione degli astronauti dovrà tenere conto non solo di criteri fisici e tecnici ma anche della compatibilità psicologica. Le agenzie spaziali potrebbero orientarsi verso composizioni di squadra non uniformi ma complementari, in cui temperamenti diversi si compensano a vicenda.

Questo approccio apre anche nuove prospettive per l’addestramento. Periodi di convivenza prolungata in ambienti simulati, esercizi di gestione dei conflitti e valutazioni continue del clima relazionale diventano strumenti essenziali per anticipare possibili tensioni e verificare l’adattabilità del gruppo. In futuro, modelli più evoluti potrebbero persino consentire un monitoraggio psicologico dinamico durante la missione, con strategie di supporto a distanza, sessioni di mediazione o rotazioni nei compiti per alleggerire lo stress.

Ridurre l’imprevedibilità resta impossibile, ma un equipaggio ben bilanciato psicologicamente può reagire meglio a guasti, emergenze o momenti di sconforto. In un contesto in cui ogni errore può essere fatale, l’armonia interna del gruppo diventa una forma di sicurezza non meno importante della ridondanza dei sistemi o della robustezza dei moduli abitativi.

La psicologia come infrastruttura dello spazio

Lo studio di Pena e Chen rappresenta un cambio di prospettiva. La psicologia, finora considerata un aspetto secondario rispetto all’ingegneria o alla medicina spaziale, viene qui trattata come una vera e propria infrastruttura della missione. Capire come combinare caratteri diversi per ottenere un equilibrio stabile non è un esercizio accademico: significa progettare le condizioni minime per la cooperazione e la sopravvivenza.

Quando le future missioni lasceranno l’orbita terrestre, la qualità delle relazioni umane sarà parte integrante della tecnologia di bordo. Tra le valvole d’ossigeno, i moduli pressurizzati e le rotte orbitali, ci sarà un altro sistema vitale da mantenere in equilibrio: quello fatto di empatia, fiducia e adattabilità, l’unico capace di tenere insieme un gruppo di esseri umani mentre attraversa il silenzio dello spazio.

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