SOCIETÀ

La transizione ecologica è una fucina di scienza e innovazione

Il Protocollo di Montreal viene spesso ricordato come emblematico esempio di successo della diplomazia climatica globale. Approvato nel 1987 ed entrato in vigore nel 1989, è riuscito nel suo intento di mettere d’accordo tutti i Paesi delle Nazioni Unite nel trovare una rapida soluzione al buco dell’ozono.

Non è forse altrettanto permeato nell’immaginario collettivo il fatto che l’adozione e l’applicazione del Protocollo sia stata anche una straordinaria storia di successo scientifico, o meglio di quella che oggi viene chiamata, con una breve sigla, R&I: ricerca e innovazione.

Prima la scienza ha fornito una chiara comprensione del fenomeno: Frank Sherwood Rowland e Mario Molina scoprirono nel 1974 che alcuni gas refrigeranti (CFC, clorofluorocarburi) allora contenuti in bombolette spray, frigoriferi, schiume isolanti e solventi industriali, danneggiano le molecole di ozono in atmosfera, che assorbono la radiazione ultravioletta e come una sorta di crema solare planetaria ci proteggono dalle radiazioni più dannose. Per questa scoperta i due scienziati furono insigniti del premio Nobel per la chimica nel 1995, assieme a Paul Crutzen.

La conoscenza da sola però non era sufficiente a risolvere il problema. Occorreva dismettere l’utilizzo dei CFC e sostituirli con alternative che avrebbero preservato non solo l’ozono della stratosfera, ma anche le filiere industriali che facevano affidamento all’uso di quelle sostanze.

Gradualmente e collettivamente le soluzioni vennero trovate, ricorrendo ad esempio agli idrofluorocarburi (HFC) o a refrigeranti cosiddetti naturali come l’anidride carbonica, l’ammoniaca o il propano. Essendo questi gas privi di cloro, non danneggiano l’ozono. Sono tuttavia gas a effetto serra, ma vi contribuiscono in percentuali limitate rispetto ad altre fonti, come quelle energetiche fossili.

La ricerca di base ha creato la consapevolezza nell’opinione pubblica e nella classe dirigente della presenza di un rischio che andava affrontato. La ricerca applicata ha poi sviluppato soluzioni di concerto con l’industria, che ha adottato le innovazioni, guidata da una serie di nuove regole che ha accettato di buon grado, consapevole che conveniva alla salute di tutti.

Conoscenza scientifica, sviluppo tecnologico, adozione di mercato, prontezza sociale e politica hanno tutte agito di concerto, a diversi livelli, per risolvere un problema che non riguardava una singola nazione, ma tutto il mondo.

La transizione ecologica che intende mitigare il cambiamento climatico è oggi chiamata a sostituire ben di più di qualche elettrodomestico o qualche lattina ad aria compressa: la scala della sfida è molto più grande e richiede di ripensare le fondamenta su cui poggia l’intera società globale. Dobbiamo reinventare l’energia che alimenta le nostre giornate, quella che usiamo per accendere una lampadina per leggere un libro, o per spostarci da una città all’altra.

Fortunatamente non partiamo da zero, anzi. Buona parte delle tecnologie che servono ad attuare la transizione a fonti energetiche più sostenibili sono già disponibili, grazie al lavoro che la ricerca ha fatto negli ultimi decenni.

Un rapporto dell’Ocse ha misurato proprio il ruolo di scienza e innovazione nella realizzazione della transizione. Proprio come nel caso del buco dell’ozono, le conoscenze di base sulla portata del problema da affrontare, disponibili ormai da diversi decenni, hanno già valso un premio Nobel (per la pace) a chi periodicamente le riunisce in una serie di rapporti: l’IPCC, il gruppo intergoveramentale sul cambiamento climatico, lo ha vinto nel 2007, assieme ad Al Gore.

Anche la ricerca applicata per alcune tecnologie ha già abilitato una vera e propria rivoluzione: “la riduzione dei costi permessa dall’innovazione tecnologica ha accelerato l’adozione di nuove tecnologie in settori chiave”, recita in apertura il rapporto Ocse. “Nel 2023 ad esempio l’elettricità da grandi impianti fotovoltaici era il 56% più economica di quella prodotta da combustibili fossili, mentre era quattro volte più costosa nel 2010”. La riduzione dei costi di produzione permessa dalla messa a punto di tecnologie affidabili ha permesso anche il successo dei veicoli elettrici, la cui flotta globale “ha raggiunto quasi i 58 milioni alla fine del 2024, un valore triplo rispetto a quello del 2021”.

Un lungimirante investimento in ricerca ha permesso l’avvio di queste trasformazioni, che a loro volta ora alimentano più ricerca. Il rapporto Ocse mostra infatti che più di un quarto (28%) delle pubblicazioni scientifiche considerate sono rilevanti per gli obiettivi di sostenibilità ambientale, energetica e sociale, e che le collaborazioni scientifiche internazionali sono significativamente più comuni in ambito di studi energetici e ambientali che in altre discipline.

Un altro dato interessante riguarda i brevetti. Quelli che riguardano tecnologie a basse emissioni attingono a molta più ricerca rispetto a quelli associati a tecnologie ad alte emissioni: in media, citano un numero di articoli scientifici sei volte più alto.

Alcuni dati del rapporto hanno anche una notevole rilevanza geopolitica: la Cina è ora il Paese che contribuisce di più a livello mondiale alle pubblicazioni scientifiche in riviste di energia e tra il 10% dei lavori più citati, 4 su 10 sono cinesi.

Lo stesso dominio si vede nei brevetti. Dal 2010 al 2020 sono cresciuti di 6 volte quelli cinesi, mentre la crescita di Stati Uniti e Europa è stata inferiore al 20%. Circa un quarto (25%) di tutti i brevetti cinesi sono a tema energetico-ambientale, mentre sono solo 1 su 10 quelli degli Stati Uniti. Allo stesso modo, il capitale a sostegno delle start-up cinesi impegnate in questioni energetiche e ambientali è cresciuto del 25% nello stesso periodo, in Europa solo del 6% mentre è rimasto invariato negli altri Paesi Ocse.

Non occorre nemmeno ricordare che la Cina domina già la filiera di produzione delle tecnologie green, dai pannelli solari alle batterie, passando naturalmente per i veicoli elettrici.

Per non perdere definitivamente il contatto con chi si è piazzato in testa alla corsa della transizione energetica, gli Stati occidentali devono fare di più. Il rapporto Ocse a questo riguardo ha trovato che i finanziamenti pubblici che direttamente supportano la ricerca e lo sviluppo (R&D) delle aziende si traducono in innovazioni con beneficio ambientale, le quali spesso si materializzano in brevetti. Non hanno invece lo stesso impatto positivo i semplici incentivi o sgravi fiscali alle aziende che investono in R&D, soprattutto nei Paesi europei. In altri termini, le aziende che ricevono un trattamento fiscale favorevole ma sono libere di sfruttare questo vantaggio come meglio ritengono, non producono innovazioni green.

Il dato sembra parlare direttamente al PNRR italiano, che ha sì sostenuto le aziende che investono in ricerca, ma lo ha fatto prevalentemente proprio tramite incentivi e sgravi fiscali, senza vincolare in modo più stringente quel supporto finanziario alla produzione di innovazione utile alla causa ambientale, che era invece una delle direttive del PNRR, insieme a digitalizzazione e inclusione.

“La strada da percorrere per raggiungere gli obiettivi di crescita sostenibile rimane lunga e l’adozione delle migliori tecnologie e pratiche disponibili, seppur necessaria, è ancora lontana dal risultare sufficiente” ricorda il rapporto. “Ad esempio, l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha stimato che, per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C senza sacrificare la crescita economica, il 35% della riduzione di gas serra richiesta al 2050 dovrà venire da tecnologie che ad oggi non sono ancora sul mercato”. In particolare si tratta delle cosiddette emissioni difficili da abbattere (hard to abate) come quelle prodotte da industrie pesanti come acciaio, cemento o trasporto marino.

Questi settori sono già soggetti a un crescente costo del carbonio che emettono, o carbon pricing, un meccanismo regolatorio che disincentiva la produzione di gas serra e incentiva l’adozione di soluzioni più sostenibili. Ma senza un continuo sostegno a tutta la filiera dell’innovazione queste soluzioni non possono innestarsi nella società con un ritmo graduale a sufficienza da evitare scossoni che significherebbero crolli industriali, perdite di posti di lavoro e crisi sociali. “Senza innovazione, gli obiettivi net zero possono venire raggiunti solo a un costo più elevato”.

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