SOCIETÀ

Inizia in Brasile la COP30 della verità

A 10 anni esatti dalla firma dell’accordo di Parigi, la COP30 di Belem, che si terrà alle soglie della foresta amazzonica dal 10 al 21 novembre, sarà una conferenza delle parti chiamata più di altre in passato a difendere sé stessa, a dover dimostrare a un mondo scettico l’efficacia e l’adeguatezza del processo negoziale nell’affrontare e risolvere le sfide climatiche, che, assieme a un panorama geopolitico più che mai frammentato, continuano ad accumularsi.

La crisi del multilateralismo e un problema di framing

Un attacco frontale alla legittimità stessa dell’esistenza stessa delle COP è arrivato all’inizio di quest’anno dagli Stati Uniti, che appena hanno eletto Trump alla Casa Bianca si sono ritirati, nuovamente, dall’accordo di Parigi. La loro decisione si colloca all’interno di una più ampia visione di smantellamento della cooperazione internazionale (ad esempio con il taglio ai fondi USAID) e del multilateralismo come modelli di soluzione congiunta alle sfide globali, non solo quella climatica, ma anche quella sanitaria, dello sviluppo economico e accesso alle risorse, della migrazione dei popoli.

In questa fase storica gli Stati Uniti sembrano voler dire “ognuno si arrangi con i propri mezzi, e vediamo chi è il più forte”. Negando la realtà del cambiamento climatico, è l’idea stessa di sfida globale che gli Usa mettono in discussione: esistono solo interessi nazionali e i problemi diventano tali solo quando varcano i confini nazionali, identitari o intaccano gli interessi economici.

Si tratta di una visione evidentemente molto miope, che testardamente si rifiuta di andare a rintracciare le cause e le origini di quei problemi, che nascono invece proprio da un mondo globalizzato e interconnesso. È un errore di visione, di framing, dettato da chiari e forti interessi di parte, quelli economici dell’industria dei combustibili fossili, che si è sentita sotto attacco dalle politiche green degli ultimi anni e ora sta combattendo una guerra per la propria sopravvivenza (e contro quella degli altri).

Prima di tutto allora la COP 30 ha un compito per così dire epistemologico: deve ristabilire il giusto inquadramento alla sfida più seria del nostro tempo. Dovrebbe sembrare scontato, superfluo, ma oggi purtroppo non lo è. Il cambiamento climatico si risolve solo se tutti contribuiscono a risolverlo e viene vinto solo se tutti vincono, ma prima ancora se tutti sono d’accordo su quali sono le regole del gioco. Ecco, la COP 30 dovrà far proseguire il gioco senza quel giocatore, gli Stati Uniti, che portava al tavolo le maggiori dotazioni finanziarie.

Finanza climatica e adattamento

Non è a parole infatti che la conferenza delle parti può riportare la questione climatica a occupare un ruolo preminente nelle politiche degli Stati e nelle menti dell’opinione pubblica. Le parole, quelle scritte nei testi dei documenti negoziali, non bastano più se non sono seguite da fatti, azioni, numeri che si riscontrano nella realtà.

La COP29 di Baku si era conclusa con un accordo sul nuovo obiettivo di finanza climatica (il New Collective Quantitative Goal) che in realtà non aveva fatto altro che riflettere la spaccatura insanabile che si era generata tra le due parti negoziali: da una parte i Paesi industrializzati che non sono andati oltre la cifra di 300 miliardi di dollari da raggiungere entro il 2035, e dall’altra quelli in via di sviluppo che chiedevano 1300 miliardi di dollari.

La COP30, con la Roadmap Baku to Belem, avrebbe il compito di avvicinarsi il più possibile all’estremo più alto della forbice, ma il rischio è che le distanze tra i due blocchi rimangano incolmabili. Buona parte dei Paesi industrializzati sono anche Paesi della Nato, che a giugno di quest’anno si sono dovuti impegnare, su pressione statunitense, ad alzare la spesa militare al 5% del Pil proprio entro i prossimi 10 anni. Con crescite economiche stagnanti, è difficile che siano disposti a stanziare ulteriori risorse per le vulnerabilità climatiche degli altri. Sarebbe però l’affermazione del principio nazionalista “penso prima ai fatti miei” che è quell’errore di inquadramento dei problemi globali che sta già minando la conferenza delle parti dal suo interno. Speriamo che la COP30 riesca a stupirci.

La presidenza brasiliana proverà almeno a fare progressi sul fronte della finanza climatica dedicata all’adattamento: i Paesi, specialmente quelli in via di sviluppo, devono attrezzarsi ad affrontare siccità, alluvioni, piogge e ondate di calore, aumento del livello del mare e erosione delle coste che anno dopo anno presentano un conto sempre più salato.

A Belem se ne discuterà molto, sia dal punto di vista tecnico (quali indicatori usiamo per misurare l’adattamento) sia dal punto di vista economico: secondo l’Adaptation Gap Report dell’Unep (il programma ambientale dell’Onu) la finanza per l’adattamento nel 2023 ha raggiungo appena i 26 miliardi di dollari, quando le esigenze reali al 2035 sarebbero di almeno 310 miliardi, dodici volte di più. Questo numero ci dice anche che l’NCQG voluto dai Paesi industrializzati a Baku non sarebbe sufficiente nemmeno a coprire i costi dell’adattamento. Ma oltre alla quantità dei soldi spesi conta anche la qualità: un recente rapporto di Action Aid ad esempio ha stimato che solo il 3% dei fondi climatici raggiunge davvero le comunità bisognose. Anche su questo fronte c’è molto da lavorare.

Mitigazione e NDCs

I numeri dell’adattamento certificano i costi crescenti nel tempo di un riscaldamento globale che continua a galoppare. Il 2025 si avvia a essere il terzo anno più caldo mai registrato (dietro 2024 e 2023), stazionando in maniera preoccupante intorno alla soglia di 1,5°C. Secondo l’Emissions Gap Report dell’Unep le emissioni globali sono continuate ad aumentare: l’anno scorso sono arrivate a superare i 57 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti, un aumento del 2,3% rispetto al 2023. Con loro sono salite anche le concentrazioni di gas serra in atmosfera (425 ppm per l’anidride carbonica).

Di conseguenza, la traiettoria su cui ci troviamo attualmente, che proietta nel tempo le politiche attuali, ci porterebbe a circa 2,8°C entro fine secolo. Considerando gli impegni presi, ma solo a parole, si arriverebbe attorno ai 2,5°C. Si tratta certamente di un miglioramento rispetto alle proiezioni di solo 10 anni fa che ci davano circa +4°C (indice che le COP in fondo a qualcosa son servite), ma ancora siamo lontani da rientrare nei livelli di vivibilità e contenimento dei costi, economici ed esistenziali, richiesti dall’accordo di Parigi.


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Il presidente del Brasile Lula l’ha voluta definire la COP della verità: “sarà il momento per i leader mondiali di dimostrare la serietà del proprio impegno al pianeta” ha detto. “Senza un’immagine completa delle Nationally Determined Contributions (NDCs) cammineremo ciechi verso l’abisso”.

Finora l’appello di Lula però non ha trovato riscontro nei fatti. Pochi capi di governo si sono presentati al summit dei leader del 6 e 7 novembre (poco più di 50). Inoltre da questa COP ci si attendeva un uso più consapevole dei dati raccolti dal Global Stocktake della COP28, per informare scelte e azioni più ambiziose. Invece quello che emerge dal terzo ciclo di NDCs che tutti i Paesi membri avrebbero dovuto consegnare quest’anno è davvero insufficiente.

Di quasi 200 Paesi, solo 64 hanno spedito in tempo i propri documenti nazionali e di conseguenza l’NDC Synthesis Report pubblicato alla vigilia dell’appuntamento brasiliano ha dovuto fare i conti solo con circa un terzo delle emissioni globali: troppo poco per trarre conclusioni informative e utili su dove stiamo andando. In più, a gennaio 2026 gli Stati Uniti si ritireranno definitivamente dalla convenzione Onu sui cambiamenti climatici e verrà meno, anche nei numeri contenuti nei rapporti, il loro impegno a ridurre le emissioni.

Tra i Paesi che non hanno consegnato in tempo la propria NDC c’è anche l’Unione Europea, alle prese con un consenso sempre più in crisi sui temi ambientali e un progressivo deterioramento delle politiche del Green Deal. Fuori tempo massimo, mercoledì 5 novembre il consiglio dei ministri dell’ambiente ha approvato di tagliare le emissioni almeno del 66% al 2035 e del 90% entro il 2040 (rispetto al 1990), per non presentarsi in Brasile del tutto impreparati, ma concedendo molto a chi vuole preservare lo status quo.

Neanche la Cina ha formalmente consegnato in tempo il suo documento nazionale (è arrivato solo il 3 novembre), ma aveva annunciato all’assemblea generale delle Nazioni Unite di New York, lo scorso settembre, che prevede per la prima volta nella propria storia recente un calo delle sue emissioni di almeno il 7% entro il 2035: di nuovo troppo poco per rispettare l’accordo di Parigi, ma abbastanza per prendersi la posizione di leadership del processo di decarbonizzazione globale.

Iniziative da tenere d’occhio

Sarà proprio il tenore del dialogo tra Europa e Cina uno dei punti più importanti del negoziato climatico di Belem. Tra le altre iniziative da tenere d'occhio c’è la proposta brasiliana di avviare un meccanismo di finanziamento di bond forestali, che vorrebbe superare le falle dei crediti di carbonio (ma non si capisce se ci riuscirà), per proteggere il patrimonio forestale amazzonico e globale, assieme alle comunità indigene che ci vivono: TFFF è l’acronimo per Tropical Forest Forever Facility e vorrebbe raccogliere 125 miliardi di dollari, di cui 25 da finanza pubblica e 100 da finanza privata. Il Brasile però non è privo di ambiguità: di recente ha deciso con la Cina di tagliare la foresta amazzonica con una linea ferroviaria che consentirà il trasporto merci in arrivo dalla costa pacifica verso quella atlantica.

Essendo tra i maggiori produttori al mondo di biocarburanti, il Brasile ha anche lanciato l’iniziativa Belem 4x che vorrebbe quadruplicare la produzione di carburanti cosiddetti sostenibili (inclusi quelli sintetici o e-fuels) al 2035. Tra i sostenitori c’è anche l’Italia, che li promuove anche in Europa.

Dopo tre anni in cui la conferenza delle parti veniva gestita da un petrostato (Egitto, Emirati, Azerbajian), quest’anno torna a essere ospitata da uno Stato la cui economia non è esclusivamente dipendente dai combustibili fossili, ma che comunque ha forti ambizioni nel settore. Lo scorso ottobre ad esempio il governo ha concesso l’autorizzazione a Petrobras per l’esplorazione di giacimenti amazzonici, tra la foce del Rio delle Amazzoni e la costa brasiliana, incontrando forti resistenze dei movimenti ambientalisti.

Per lo meno a COP30 la società civile dovrebbe avere una libertà di espressione che alle tre precedenti COP non era stata pienamente garantita. La partecipazione tuttavia si è rivelata difficoltosa già a diversi mesi dall’inizio, con alloggi scarsi nei numeri e troppo costosi per garantire un accesso agevole a chi viene da lontano.

Un altro snodo centrale di questa e delle future conferenze delle parti sarà il tentativo di rendere il problema climatico meno separato da quello della biodiversità e della desertificazione, tematiche per cui esistono altre conferenze Onu e altre convenzioni (nate proprio in Brasile, a Rio de Janeiro, nel 1992 al Summit della Terra), che però si parlano troppo poco tra loro.

Nonostante tutto quello che il mondo sta attraversando, ricucire tra loro i lembi della questione ambientale è un passaggio indispensabile di quell’operazione di reinquadramento dei problemi del nostro tempo, e in fondo è anche il primo passo per iniziare a risolverli.

 

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