Ottanta milioni di individui “profughi” nel 2019! Ottanta milioni di umani come noi, con nome e cognome, generi età identità certe, linguaggi emozioni desideri paure in carne e ossa, costretti a fuggire e ora in fuga, lontani dalle proprie case e per la metà dalle proprie nazioni, abitanti ma non residenti, precari e fragili persone della nostra stessa terra. Un numero certificato! Persone sottoposte a violenza o persecuzione o violazione di diritti umani in patria oppure costrette comunque a lasciare il luogo dove dimoravano fino al 2018 restando dentro i confini patri. Il rapporto annuale Global Trends dell’Unhcr per il 2019 (reso noto il 18 giugno in vista della Giornata mondiale del Rifugiato del 20 giugno 2020) come sempre «traccia» le migrazioni forzate nel mondo basandosi su dati forniti dai governi, dalle agenzie partner incluso l’Internal Displacement Monitoring Centre (Idmc), e dai rapporti dell’organizzazione stessa. Complessivamente riporta che nel 2019 79,5 milioni di persone, donne e uomini, bambine e bambini, sono state forzate a migrare ovvero costrette alla fuga, il numero più alto mai registrato. Circa il 40% sono minori di 18 anni, decine di migliaia dei quali non accompagnati. I migranti forzati erano 70,8 milioni nel 2018, 68,5 nel 2017, 65.6 milioni nel 2016, 65,3 nel 2015 e 59.5 milioni nel 2014, circa 41 milioni nel 2010. In dieci anni dunque il loro numero totale è quasi raddoppiato (pur se per una parte di tratta ovviamente di profughi “cronici”).
Il totale comprende 5,6 milioni di rifugiati palestinesi sotto il mandato Unwra (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East), circa centomila in più del 2018. 20,4 milioni sono i Refugeesrientranti fra i casi specifici previsti dall’apposita Convenzione per poter chiedere “rifugio”, sotto il mandato appunto della relativa agenzia Onu Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees), lo stesso numero del 2018, ma quest’anno i profughi venezuelani hanno contabilità assestante e nel 2017 erano “solo” 19,9 milioni, vi era già stato un significativo incremento ed è proseguito. I Refugees per la maggior parte, circa il 68%, sono provenienti da pochi paesi, Siria, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar (in passato noto come Birmania), ospitati per tre quarti in paesi confinanti e per circa l’85% in molti di quei paesi in via di sviluppo afflitti da insicurezza alimentare e malnutrizione grave, soggetti al rischio di cambiamenti climatici e disastri annunciati. A parte sono stati conteggiati 3,6 milioni fuggiti all'estero dal Venezuela, indipendentemente dalla richiesta di “status”, molti non legalmente registrati come rifugiati o richiedenti asilo, per i quali sono comunque necessarie forme di protezione. Infine, 4,2 milioni di persone sono ancora in attesa di decisione sulla richiesta d’asilo in paesi industrializzati, un aumento enorme e terribile di persone nel limbo dell’incertezza di vita (erano 3,5 a fine 2018, 3,1 a fine 2017, 2,8 a fine 2016, 3.2 milioni a fine 2015); la lentezza delle procedure è anche conseguenza delle crescenti indifferenza e diffidenza verso chi arriva e chiede “rifugio”.
45,7 milioni di persone (nel 2015 40.8, nel 2016 40,3, nel 2017 40, nel 2018 41,3) sono state costrette a fuggire pur vivendo ancora all’interno dei confini del proprio paese, internally displaced people (Idp), i profughi interni, anche per ragioni ambientali e climatiche (a seguito di disastri “naturali”). Tutti i 79,5 milioni sono comunque “migranti forzati”, i quali hanno visto non rispettato (da comportamenti umani più o meno consapevoli) il diritto di restare dove sono nati e cresciuti. Fra quelli internazionali perlopiù si tratta di Refugees da oltre cinque anni (4 su 5, 1 su 5 è rimasto in tale condizione per almeno 20 anni), da generazioni i palestinesi. I reinsediati-rientrati-naturalizzati sono sempre poche centinaia di migliaia l’anno. Negli anni novanta, una media di 1,5 milioni di rifugiati riusciva a fare ritorno a casa ogni anno. Negli ultimi dieci anni la media è crollata a circa 385.000, cifra che testimonia come l’aumento del numero di persone costrette alla fuga ecceda largamente quello delle persone che possono usufruire di una soluzione durevole.
80 milioni, un numero impressionante, più di uno ogni 100 abitanti Homo sapiens della Terra! E forse si tratta di una sottostima.
Vi sono altri migranti forzati non contemplati da queste ineccepibili statistiche? Probabilmente sì. Purtroppo. Sia nel passato che nel presente, sia internazionali che interni, sia nei paesi di maggiore emigrazione più libera che nei paesi di maggiore immigrazione poco libera continuano a sopravvivere persone in fuga non censite e tantomeno contabilizzate.Per citare qualche ulteriore tipologia diffusa ricordiamo che esistono: molti profughi ambientali e climatici arrivati oltre il confine del proprio Stato, ovviamente senza status riconosciuto (spesso per disastri più lenti e meno repentini, come l’innalzamento del mare e la desertificazione); individui colpiti da disastri più piccoli non presi in considerazione dall’organizzazione che contabilizza morti, dispersi e senzacasa; delocalizzati forzati senza coinvolgimento delle comunità interessate, al di fuori di procedure legali; vittime di “internal displacement” per cause non contemplate nei Guiding Principles on Internal Displacement; perseguitati che non chiedono asilo per le più svariate ragioni; migranti forzati “clandestini” (vittime di traffico di corpi e organi, di prostituzione, di schiavitù); migranti forzati che rientrerebbero nella definizione prevista dalle normative nazionali, come quella dell’articolo 10 comma terzo della Costituzione italiana, ma al quale è impedito l’arrivo. Ed esistevano tanti altri profughi, donne e uomini che avrebbero voluto o hanno iniziato a fuggire e sono tristemente morti durante la persecuzione, durante il disastro e durante la fuga, prima di arrivare al confine o di poter chiedere asilo, lungo il transito (a esempio nel Sahara o nel Mediterraneo), nei campi profughi.
Vi sarà una diminuzione nel 2020 a causa della drammatica pandemia Covid-19 in corso? Probabilmente no. Purtroppo. Non credo proprio che la pandemia abbia ridotto il numero delle fughe. Gli avvenimenti che le provocano sono strutturali e persistenti. Non sono diminuiti i disastri ambientali e climatici, non sono diminuite le guerre e i conflitti armati. Purtroppo su quei fenomeni il virus non agisce. Agisce però sulla mancata percezione pubblica e sociale dei rifugiati. Forse chi ha subito l’alluvione o la siccità aveva la mascherina e rispettava il distanziamento sociale, è dovuto scappare lo stesso, ammesso che abbia fatto in tempo a salvarsi. Forse chi ha ucciso e ferito altri umani, e chi ha ordinato di farlo, indossavano una mascherina e rispettavano il distanziamento sociale, hanno usato la stessa violenza di prima. Appare improbabile, dunque, che tra un anno i dati 2020 descriveranno una situazione significativamente differente. Invitiamo, comunque, a leggere attentamente il quadro dell’Unhcr per il 2019 e a pensare al dramma di chi è costretto a fuggire sa casa propria, terribile sempre, ancor più ora. Gli stessi sbarchi non possono che riprendere, a prescindere dal Covid-19, perlopiù sono persone in fuga da luoghi divenuti ancor più inospitali.
Il 20 giugno è la giornata mondiale del rifugiato 2020, istituita dall’Onu nel 2000 insieme alla giornata dei migranti (il 18 dicembre). I dati diffusi descrivono un quadro drammatico del quale non vi è adeguata percezione pubblica e sociale. Eppure da fine 2018 sarebbero in vigore i due Global Compact dell’Onu sia sui rifugiati (accanto alla Convenzione) che per migrazioni sicure e responsabili (senza conseguenze vincolanti per gli Stati). L’attuazione convinta e diffusa dei patti globali garantirebbe a livello di principio reciprocità di diritti e doveri per emigrazioni e immigrazioni. Ben altra cosa dai due decreti “insicurezza” che sono stati emanati in questa legislatura in Italia, capaci solo di chiudere gli occhi di fronte ai profughi e colpevolizzare chi cerca di evitarne la morte, generando (non combattendo) sofferenza e illegalità! In Europa non esiste nemmeno qualcosa di paragonabile al programma americano di protezione degli immigrati entrati irregolarmente quando erano minori, che, pur non fornendo la cittadinanza, permette a circa 700.000 immigrati Dreamers di lavorare legalmente, varato dal presidente Obama nel 2012, avversato dal presidente Trump e giudicato il 18 giugno 2020 infine legittimo dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. Forse nessuno ricorda più in Europa e in Italia quanto diceva sulla situazione di chi fugge da cittadino residente e, se vi riesce, è costretto a chiedere poi asilo in un paese diverso dal proprio divenendo profugo (tendenzialmente apolide) il grande giurista europeo Stefano Rodotà, di cui proprio il 23 giugno 2020 ricorre il terzo anniversario dalla morte.
Stefano Rodotà (1933-2017) si è occupato ovviamente più volte della questione lungo i decenni della docenza universitaria, dei saggi scientifici, dell’impegno civile, delle funzioni istituzionali, del giornalismo pubblicistico. Fra i tanti passaggi scritti e orali, particolarmente significativo appare quanto scrisse il giorno dopo la diffusione dei dati sui rifugiati nel mondo il 21 giugno 2011 (quando erano 41 milioni). “La condizione dei rifugiati ci parla della condizione di tutti noi, della impossibilità di separare il nostro dal loro destino. Rifugio è parola antica, nella quale si rispecchiano una esigenza individuale e una responsabilità collettiva. E proprio il difficile intreccio tra questi due piani ha sempre reso arduo il riconoscimento del rifugiato, con la mai vinta prepotenza dell’esclusione contro l’accoglienza. Rifugio è il luogo dove si trova riparo da avversità, violenza, ingiustizia, persecuzione. Risponde a un bisogno profondo dell’uomo… No, dunque, ad una avara Fortezza Europa… siamo di fronte ad un fenomeno di massa, che dilata le ragioni del rifugio al di là dell’elenco contenuto nella Convenzione… Quell’elenco, nei fatti, si è allungato: lo mostra l‘articolo 21 della Carta europea dei diritti; lo confermano le decisioni con le quali è stato riconosciuto l’asilo politico a donne che, ritornate in patria, avrebbero corso il rischio di mutilazioni sessuali; lo dice un documento come la Dichiarazione di Cartagena, dove la condizione di rifugiato è riferita a chi fugge dal proprio paese perché violenze generalizzate minacciano vita, sicurezza, libertà; perché si può essere vittime di aggressioni straniere, conflitti interni, massicce violazioni dei diritti umani, gravi turbative dell’ordine pubblico.”
A questo punto Rodotà accennò al libro che avevo scritto, uscito pochi mesi prima e che aveva già citato altre volte, sul tema degli Ecoprofughi, “la cui condizione ha origine pure nel rapporto distorto tra il mondo delle persone e il mondo dei beni, non più ispirato al bene comune, ma consegnato solo alla logica di mercato”. In quel testo avevo cercato di esaminare, sui piani biologico antropologico ecologico storico e geografico, le due forze che da sempre costringono individui vivi a fuggire: i cambiamenti climatici e i conflitti fra le specie o, nel caso umano, fra eguali diversi Homo sapiens. Sostenevo allora che da qualche decennio il numero effettivo di rifugiati climatici (fuori da ogni certificazione istituzionale) era ogni anno di fatto superiore a quello dei rifugiati politici (riconosciuti dalla Convenzione e “protetti” dall’Onu tramite l’Unhcr). Anche Rodotà ne era convinto. E, purtroppo, statistiche e analisi successive ci hanno dato ragione.