UNIVERSITÀ E SCUOLA

L'italiano? Figlio di una scuola sottofinanziata e poco "eroica"

L’appello firmato da 600 docenti sulle competenze linguistiche degli studenti universitari iniziava così: “È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente”. A quanto pare non ci sono indagini sistematiche su questo, o se ci sono non vengono pubblicate. Questo non significa, però, che gli aneddoti sulla povertà linguistica dei nostri iscritti siano da ignorare, per la semplice ragione che vanno tutti nella stessa direzione. Non incontro mai un collega che mi dica: “Sai, quest’anno i compiti nel mio corso erano scritti proprio bene”. Da Torino a Palermo, i docenti universitari (sia quelli che hanno firmato l’appello dei 600, sia gli altri) raccontano regolarmente di errori di ortografia, grammatica e sintassi commessi da studenti alla vigilia della laurea.

Se vogliamo andare più a fondo con il ragionamento dobbiamo guardare ai dati: prima di tutto stiamo parlando della frazione più scolarizzata della popolazione tra i 19 e i 22 anni, quella che è passata attraverso cinque anni di elementari, tre di medie, cinque di superiori, cioè 13 anni complessivi di istruzione primaria e secondaria, più uno o due anni di università. Si tratta di una minoranza che negli ultimi dieci anni si è fortemente ristretta: da 335.541 immatricolati nel 2005 a 260.755 nel 2015, pari a circa un terzo dei diciannovenni italiani. Questo significa che quando guardiamo alle competenze linguistiche degli universitari dobbiamo pensare che là fuori ci sono alcune centinaia di migliaia di altri giovani con capacità di comunicazione quasi certamente minori: come se la caveranno in un mondo in cui la burocratizzazione del lavoro e della vita ci impone ogni giorno testi spesso oscuri o confusi?

Sempre alla ricerca di indizi più solidi sulle capacità dei nostri studenti, guardiamo alle verifiche internazionali sui quindicenni organizzate dall’Ocse: nell’ultima edizione dei test PISA (2015) le capacità di lettura degli studenti italiani erano fissate a 485 punti, cioè 8 punti sotto il livello mediano dei paesi esaminati. Per la precisione, siamo al 35° posto dietro tutti i paesi industrializzati tranne Israele. Fanno peggio di noi solo paesi come Bulgaria, Ungheria, Lituania e Croazia in Europa e la maggior parte dei paesi dell’America Latina mentre i paesi asiatici, con l’eccezione dell’Indonesia, hanno studenti molto migliori: in testa alla classifica per capacità di lettura troviamo Singapore, il Giappone, varie province della Cina, il Vietnam e la Corea.

Ovviamente, modeste capacità di lettura significano anche modeste capacità di scrittura, insieme all’avvio di un circolo vizioso per cui non si leggono libri (il 53% degli adulti italiani non lo fa) e si usano gli smartphone essenzialmente per guardare video o scambiare brevi messaggi nel gergo degli adolescenti.

Le difficoltà di lettura si riflettono poi anche sulla capacità di studiare altre materie, a cominciare da quelle di base. Qualche anno fa, avevo scritto per questo giornale un articolo sulle competenze in geografia dei nostri studenti. La storia era questa:

“Mi parli di come iniziò la guerra fredda (...) in quali paesi si temeva che l’Unione Sovietica installasse regimi a lei favorevoli?”.

Improvvisamente, vedo lo studente impallidire sotto la barba, comincia a fissarsi le scarpe con insistenza, la temperatura corporea scende. Dopo un buon minuto di riflessione, riesce a sussurrare:

“L’Ucraina”, mi fa lui con il tono di chi è sul punto di svenire.

“L’Ucraina faceva parte dell’Unione Sovietica, non dei paesi satelliti”, rispondo.

“I paesi baltici?”

“Anche quelli”.

Sorrido con l’aria incoraggiante: “Senta, prendiamo una scorciatoia. Se lei va in macchina al valico di Tarvisio, in che paese si trova?” (mi vergogno di me stesso, trasformare un esame in gita fuori porta per salvare studenti ansiosi, ma non saprei che altro fare).

“Tarvisio?”

“Sì, Tarvisio”.

“Ecco, Tarvisio, in questo momento ho un vuoto, non saprei”.

Lo guardo meglio: è una persona normale, avrà 27 o 28 anni, è iscritto a una laurea magistrale e vuole uscire dall’università in marzo, con un titolo di studio che gli permetterà di accedere a ruoli dirigenziali nella pubblica amministrazione, candidarsi per lavorare in organismi internazionali, magari pensa di fare il volontario per Emergency. Però non sa dov’è Tarvisio.

Concludevo argomentando che in 18 anni di studio qualcuno, da qualche parte, in qualche momento, avrebbe dovuto dire: “Bene, ragazzi, allora l’Italia con quali paesi confina?”. Forse quel qualcuno c’era stato, una maestra diligente o un professore delle medie che riteneva importante la geografia, ma il mio studente non ascoltava, non leggeva, non guardava la carta geografica. E dubito che fosse brillante con i congiuntivi.

Nel fare queste considerazioni naturalmente mi guardo bene dall’associarmi al coro di lamentele in stile Paola Mastrocola sul fatto che “non c’è più la scuola di una volta”, versione moderna del “Signora mia, non ci sono più le mezze stagioni!”. Vedo ogni giorno che molti studenti arrivano all’università senza sapere cosa significano parole presenti ogni giorno nei titoli dei giornali come “recessione”, “grande slam” o “bad bank”. Purtroppo, la ricetta di tornare alla scuola della selezione, ai licei di un tempo non è la soluzione: il liceo classico rimpianto dall’autrice torinese era un’istituzione che accettava solo i figli dei privilegiati, chi arrivava con alle spalle famiglie colte e benestanti.

La sua qualità era figlia dell’esclusione ed è semplicemente irriproducibile in una scuola di massa, tanto più in una scuola di massa sottofinanziata da decenni, demotivata e priva di insegnanti creativi. C’è sempre un aspetto “eroico” nella relazione educativa, una ricerca di senso che le burocrazie del Miur non possono soddisfare: solo i docenti carismatici possono scuotere gli allievi, trascinarli e far loro amare il sapere.

Per la formazione ciò che è decisivo non è il contenuto dell’istruzione ma il modo in cui il messaggio è veicolato e i contesti sociali in cui ciò avviene. Lo spirito antintellettuale diffuso nella nostra società produce studenti svogliati o scettici e genitori interessati soltanto al diploma o alla laurea, privi di qualsiasi investimento emotivo nei confronti della scuola o dell’università. Per una coincidenza che mi appare rivelatrice, verificando alcuni dei dati citati qui sopra ho aperto una pagina di Repubblica.it con un articolo intitolato “La grande fuga dall’università”. Sulla parte destra dello schermo mi è comparsa una pubblicità della pasta Barilla in cui i fusilli vengono definiti “attorciglievoli”: non “attorcigliati”, “a elica” o qualche altra definizione che renda in italiano l’idea della forma a spirale di questo tipo di pasta. No, “attorciglievoli”.

Perché mai i nostri studenti dovrebbero studiare (l’italiano o qualsiasi altra cosa) se la società in cui vivono si nutre di anti-intellettualismo, di elogi della mediocrità, di ironia sui “professoroni”? In televisione e al governo si vedono ogni giorno ex giovani cresciuti a pane e Mike Bongiorno: ignoranti ma veloci, furbetti e piacioni. I congiuntivi corretti non hanno mai fatto fare carriera a nessuno, in televisione o in politica. Peccato che invece servano quando si compila un curriculum o si va a un colloquio d’assunzione.

Fabrizio Tonello

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