UNIVERSITÀ E SCUOLA

Maier: "Auschwitz, ricordo che brucia ancora la nostra coscienza"

Pubblichiamo un estratto della lectio magistralis del professor Charles S. Maier della Harvard University in occasione del conferimento della laurea ad honorem in Studi europei da parte dell'università di Padova

Vorrei iniziare con l’osservare che al giorno d’oggi nel mondo ci sono in realtà due giornate di commemorazione dell’Olocausto. Una è domani, il 27 gennaio, Giorno della Memoria, votato come ricorrenza dalle Nazioni Unite nel 2005 per ricordare le vittime del genocidio nazista degli ebrei. Cade nell’anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dei soldati sovietici, avvenuta il 27 gennaio 1945. La sua osservanza è stata ratificata da molti stati membri, inclusa l’Italia, che in effetti approvò la commemorazione nel 2000, cinque anni prima dell’ONU.

All’epoca ci fu una profonda discussione su quale sarebbe dovuta essere la data più appropriata come anniversario. Furio Colombo, di sinistra, di origini ebraiche e difensore di Israele, volendo sottolineare il destino degli ebrei italiani assassinati nell’Olocausto, propose il 16 ottobre. Il 16 ottobre 1943, le unità dell’SS tedesca e la polizia fascista italiana rastrellarono circa un migliaio di ebrei romani che furono poi deportati ad Auschwitz. L’Associazione Nazionale Ex Deportati Nei Campi Nazisti, nel tentativo di dare risalto ai deportati politici imprigionati nei campi di concentramento tedeschi e all’eredità della Resistenza, insistette per la data del 5 maggio, giorno in cui, nel 1945, il campo di concentramento di Mauthausen fu liberato.

Alla fine, la pesante eredità di Auschwitz e lo sterminio degli ebrei prevalse nella scelta della data. La legge del 20 luglio 2000 si focalizzò sulla commemorazione dell’Olocausto.  Vorrei citarla:

"La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all'articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell'Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere".

Ma questa ricorrenza non corrisponde al giorno in cui le comunità ebraiche mondiali commemorano l’Olocausto. Yom HaShoah: la giornata ebraica e israeliana della Shoah ricorre nel ventisettesimo giorno del mese ebraico di Nissan, una settimana dopo l’ultimo giorno della festività di Pasqua, che quest’anno cade il 10-11 aprile 2018, tra tre mesi. Il parlamento israeliano approvò questa commemorazione nell’aprile del 1951, dopo un dibattito che rifletté le profonde divisioni politiche all’interno dello stato ebraico e il desiderio di utilizzare la commemorazione per la causa sionista. L’intenzione era di memorializzare la rivolta del ghetto di Varsavia, che iniziò il primo giorno di Pasqua del 1943, ovvero il 19 aprile del calendario civile. Ci fu accordo sul fatto che il giorno sarebbe dovuto essere iscritto nel calendario lunare ebraico, ma non durante la festività pasquale, da cui la scelta della data. Come doveva essere definito e celebrato rimase oggetto di dibattito appassionato per tutto il decennio successivo. Il partito socialista all’opposizione, Mapam, voleva che la ricorrenza commemorasse l’Olocausto e la data della ribellione del ghetto, dal momento che furono i membri del loro gruppo giovanile a prendere l’iniziativa della ribellione nel 1943. Il primo ministro Ben Gurion intitolò la legge “Giornata Memoriale dell’Olocausto e dell’Eroismo”. Quando Menachem Begin, di destra, divenne primo ministro, sollecitò invano l’accorpamento della ricorrenza con la giornata commemorativa delle forze armate israeliane, che cadeva la settimana seguente, in un’unica giornata di festa nazionale. Perciò i gruppi politici israeliani – sia tra l’opposizione di sinistra, sia tra i militanti di destra e tra il centrosinistra di Ben Gurion, a seconda delle rispettive storie – spesero una generazione tentando di evitare che gli avversari politici potessero accaparrarsi la ricorrenza a beneficio della propria causa. Ciò nonostante, la giornata della memoria dell’Olocausto, Yom HaShoah, fu riconosciuta come patrimonio dello stato e rimase una data genuinamente commemorativa. Dal 1959, nella giornata della memoria dell’Olocausto in Israele, le sirene suonano e qualsiasi attività si ferma, compresi i pedoni che camminano per strada e le auto in autostrada, per due minuti di silenzio. Contestare e dibattere la memoria aiuta a tenerla viva e importante. Alcuni ebrei mettono in discussione l’appropriatezza della ricorrenza dal momento che nella Diaspora, specialmente negli Stati Uniti, l’interesse e la conoscenza di questa data si sono affievoliti. Malgrado ciò, Yom HaShoah conserva sia un messaggio di sacrificio per colpa degli aguzzini che di resistenza e appartiene, per così dire, al popolo ebraico, sia in Israele che nella Diaspora. È una data per la memoria comune e per la comune affermazione.

Il 27 gennaio, al contrario, non è una ricorrenza di cordoglio comunitario. È un giorno di pubblica commemorazione, un giorno in cui i non-ebrei (assieme ad alcuni ebrei) ricordano le vittime, non solo le vittime ebraiche, ma anche gli zingari, gli omosessuali e tutti coloro che furono marginalizzati, espulsi dalla società dei potenti e assassinati. Al contrario delle ricorrenze nazionali che celebrano il sacrificio fatto dai nostri rispettivi eserciti nazionali – come il 4 novembre in Italia o l’11 novembre in Francia, Inghilterra e negli Stati Uniti, o l’8 o 9 di maggio – è una commemorazione che ricorda il sacrificio degli altri. Più precisamente, commemora le vittime, persone che spesso si consideravano come cittadini protetti dai propri moderni stati-nazione, ma che al contrario furono separati e fisicamente rimossi e in molti casi eliminati. Parlando con franchezza: commemora coloro i quali non furono adeguatamente protetti dalle proprie nazioni.

Foto: Massimo Pistore

A onor del vero, l’Unione Europea ha scelto una data che rimarca non un momento di successo – non ad esempio il 9 maggio – ma un’epoca di vergogna. Infatti, ha scelto per la propria giornata della memoria la data in cui l’esercito sovietico liberò Auschwitz, una memoria paradossale dal momento che la nazione liberatrice non appartiene all’Unione Europea e che in effetti liberò i campi di sterminio anche se aveva imprigionato milioni dei propri cittadini in prigioni brutali e campi di lavoro. Nondimeno, i soldati sovietici rimasero scioccati quando incontrarono i sopravvissuti deperiti di Auschwitz alla fine di gennaio di 73 anni fa. Quelle immagini non hanno perso la capacità di sconvolgere nei tre quarti di secolo trascorsi da allora.

Non ci piace ricordarlo in questi termini, ma il 27 gennaio dev’essere in parte il ricordo della complicità e, per alcune nazioni, di vergogna. Il pathos del Giorno della Memoria risiede nel fatto che solleva il problema storico e morale degli spettatori. Raoul Hilberg, uno degli storici che per primi tracciarono sistematicamente le politiche che portarono alla distruzione degli ebrei europei, distinse tre categorie: il carnefice, lo spettatore e la vittima. Il carnefice è una categoria già molto complessa in sé: c’erano molti non-tedeschi come pure ufficiali tedeschi, soldati, polizia e personale dei trasporti che eseguirono i compiti loro assegnati nella burocrazia dello sterminio e alcuni portarono a termine il proprio ruolo con più consapevolezza, zelo e crudeltà di altri. Lo spettatore è parimenti una categoria ambigua. Lo spettatore potrebbe essere stato un sostenitore silenzioso del carnefice. Lui o lei sarebbe potuto rimanere indifferente al destino di coloro i quali vennero separati dalla comunità. Dal momento che le politiche di marginalizzazione e sterminio si intensificarono nel tempo, lo spettatore potrebbe aver approvato tali politiche ad un certo punto, diciamo nel 1935, ma non aver appoggiato le politiche del 1938. Certamente il termine potrebbe essere applicato ingiustamente a molti. Lui o lei potrebbero essersi opposto ai carnefici, ma senza aver avuto il coraggio o la possibilità di resistergli o di assistere le vittime. In un regime totalitario sappiamo che resistere spesso equivale a sacrificarsi; perciò onoriamo coloro che hanno resistito senza necessariamente condannare coloro che non lo hanno fatto. Ad ogni modo, a prescindere dal grado di rimpianto, indifferenza o non riconosciuta approvazione che gli spettatori abbiano dimostrato, il Giorno della Memoria è stato istituito con la consapevolezza che gli europei come individui e come rappresentanti delle singole nazioni sono stati troppo spesso spettatori. Se osservato coscienziosamente, è il ricordo di un fallimento. Perciò, in quanto commemorazione, ha una valenza diversa da quella della giornata ebraica della Shoah.

Si è discusso del fatto che la commemorazione dell’Olocausto che avverrà domani è stata creata in un’era di grande consapevolezza sul tema, tanto da essere diventata di fatto la ricorrenza sovranazionale dell’Unione Europea. Concordo e ritengo che quella consapevolezza sia aumentata in trent’anni – possiamo forse datarla con il discorso del presidente della Repubblica Federale Tedesca Richard von Weizsäcker dell’8 maggio 1985, vent’anni prima del voto dell’ONU, con la sua eloquente ammissione circa la responsabilità tedesca, o dall’egualmente accorato discorso del presidente Chirac nel 53esimo anniversario del rastrellamento di Vel d’Hiver, il 16 luglio 1995, quando confessò “ces heures noires souillent à jamais notre histoire, et sont une injure à notre passé et à nos traditions. Oui, la folie criminelle de l'occupant a été secondée par des Français, par l'Etat français”. In quegli anni si assistette anche alla trasformazione della Comunità Europea in Unione Europea, dall’Atto unico europeo al Trattato di Maastricht. La connessione tra il riconoscimento dell’Olocausto e la costruzione europea è rilevante per capire l’intensità di questa ricorrenza, poiché non solo commemora il fatto che gli ebrei furono vittime e che i sopravvissuti sono stati spesso, volontariamente o meno, spettatori, ma afferma che gli ebrei furono parte costituente della cultura europea. Non erano semplicemente “altri” o stranieri di fatto prima di esserlo ufficialmente. Le comunità ebraiche erano esistite in Europa fin dall’antichità. Il Giorno della Memoria segna un tempo in cui i popoli europei e gli stati si sono rivoltati contro i loro stessi membri. E non solo gli europei; non intendo escludere da responsabilità i limiti delle politiche americane, che troppo spesso impedirono agli emigranti di trovare riparo e per troppo a lungo rimasero sorde rispetto a ciò che avveniva in Europa.

Auschwitz rimane quel che ho definito, in un intervento di circa vent’anni fa, un “ricordo caldo”, ovvero un ricordo che non perde la propria capacità di “bruciare” la nostra coscienza. I ricordi caldi hanno un tempo di decadimento molto lungo, al contrario dei “ricordi freddi”, che diventano più velocemente dei semplici aspetti spiacevoli della storia umana. Mi sono chiesto cos’ha reso l’atrocità dell’Olocausto così permanente nella nostra coscienza. Non i numeri in sé, né solo il fatto che fosse un genocidio pianificato.  La forza di quel ricordo dipende dal fatto che l’Europa, che si definiva una civiltà superiore, aveva iniziato a degradare, espellere e infine sterminare una comunità che aveva fatto parte della propria per moltissimo tempo. Sebbene di religione diversa dalla maggioranza degli europei, gli ebrei, questo è certo, avevano comunque vissuto in mezzo a loro fin dall’antichità.

La mia teoria è che i ricordi caldi fanno appello alla nostra coscienza, perché ricordano ai discendenti dei carnefici e degli spettatori la loro incapacità di agire: ci ricorda la nostra potenziale complicità, se fossimo vissuti da adulti negli anni Quaranta. È il ricordo di coloro che non resistettero. Non che avrebbero necessariamente potuto resistere o anche solo mostrare solidarietà alle vittime, nonostante molti di loro lo fecero. Ma il semplice fatto che quell’azione non è stata intrapresa ha lasciato una macchia e ha reso l’Olocausto una colpa perpetua.

Rimane importante sottolineare, ad ogni modo, che i fallimenti morali degli anni ‘30 e ‘40 e degli anni ‘90 – e forse anche del colonialismo europeo – non furono solo fallimenti individuali. Come riconosciuto dal discorso di Jacques Chirac nel 1995, essi furono fallimenti politici e di stato, fallimenti delle nostre istituzioni. Questo è il motivo per cui ci coinvolgono come studenti e protagonisti della storia. Lo storico Timothy Snyder, che ha scritto in modo toccante dei campi di sterminio in Polonia e Ucraina, ha recentemente sostenuto che l’Olocausto è avvenuto dove gli stati tradizionali erano scomparsi o avevano fallito. Io credo, tuttavia, che sia altrettanto corretto sostenere che avvenne dove gli stati avevano tradito le loro popolazioni più vulnerabili. Certamente si potrebbe ritenere che gli stati satellite tedeschi non fossero più rilevanti come stati, dal momento che la loro sovranità ed autonomia erano state così indebolite. Eppure, sia nel caso di Vichy in Francia o della Repubblica Sociale Italiana creata sotto gli auspici nazisti, o ancora della Croazia ricostituita o dell’Ungheria o della Romania, nonostante fossero tutti stati satellite, certamente indeboliti, essi avevano mantenuto un certo grado di indipendenza e autorità nella gestione delle popolazioni. Sappiamo che quando i rispettivi governanti si opposero, per un motivo o per un altro, furono in grado di impedire il processo di eliminazione, riuscendo a ostacolare il protocollo di Wannsee. Alcuni lo fecero, ma la maggior parte cooperò e consegnò i propri cittadini di origine ebraica allo sterminio. Individui e leader in una società civile hanno potuto fare la differenza, come in Danimarca e Bulgaria, dove riuscirono a proteggere gli ebrei delle proprie comunità. La maggior parte di noi comprende che le nostre nazioni avrebbero potuto fare di più per evitare o mitigare questa atrocità. Ho partecipato a conferenze accademiche in Olanda e nel mio paese, in cui i partecipanti erano tormentati dal fatto che la propria nazione – inclusa la mia – non avesse fatto di più per impedire le deportazioni o accelerare l’accoglienza di coloro che fuggivano dai territori sotto il controllo tedesco. E perciò è come cittadini e come coscienze individuali che dobbiamo ragionare di responsabilità. 

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