SCIENZA E RICERCA

Neuroprotesi: un microchip in futuro aiuterà il cervello

Quando si parla di protesi solitamente si pensa a un dispositivo artificiale che sostituisce un braccio, una gamba, del tessuto. Parti del corpo umano dunque, di cui si cerca talvolta di recuperare anche le funzionalità. Ora l’idea è ancor più ambiziosa: creare neuroprotesi intelligenti in grado di ripristinare l’attività delle reti neuronali, che potrebbero essere impiegate in caso di lesioni o malattie cerebrali, tra cui il morbo di Parkinson per fare solo un esempio. Al progetto, detto Ramp (Real neurons-nanoelectronics Architecture with MemristivePlasticity), sta lavorando un consorzio di ricerca europeo composto dal Neurochip Lab di Stefano Vassanelli, del dipartimento di Scienze biomediche dell’università di Padova che coordina le indagini, dall’università di Southampton, dall’università di Zurigo e dal laboratorio per la microelettronica e microsistemi del Consiglio nazionale delle ricerche. 

Il programma parte da lontano ed è la prosecuzione di uno studio che ha dato proprio nei mesi scorsi i risultati più significativi. Si tratta di una ricerca iniziata nel 2008, nome di battesimo CyberRat, guidata sempre da Vassanelli. Obiettivo: realizzare dei microchip impiantabili a livello cerebrale capaci di registrare e stimolare l’attività dei neuroni. “Siamo partiti dall’idea di sfruttare i vantaggi della tecnologia  microelettronica per lo studio del cervello, dato che negli ultimi anni si è visto uno sviluppo estremo delle capacità di miniaturizzare microelementi elettronici”. E questo anche per capire come funziona non tanto la singola cellula cerebrale ma una rete neuronale, cioè tanti neuroni collegati insieme, e come vengono elaborate le informazioni. Perché, secondo Vassanelli, è questa la vera sfida del Ventunesimo secolo.

In pratica gli scienziati hanno creato dei microchip, piccole piastrine in silicio, su cui sono stati integrati moltissimi sensori capaci di registrare l’attività elettrica di un’intera popolazione di neuroni ad alta risoluzione. E sono stati inseriti degli stimolatori in grado di evocare nella rete neuronale le stesse risposte che vengono indotte da input naturali esterni, come sensazioni tattili o visive. Le dimensioni dello strumento sono all’incirca quelle di un ago da siringa e la sperimentazione della tecnica, condotta per ora sui topi, ha dato esiti positivi.

“Giunti a questo punto abbiamo compiuto un passo concettuale in avanti e abbiamo pensato di integrare nel microchip un sistema che potesse non solo registrare e stimolare ma anche sostituire l’attività delle reti neuronali”. Si tratta di reti artificiali che emulano quelle vere ed elaborano informazioni con sinapsi elettroniche simili a quelle reali (le sinapsi sono il punto di contatto funzionale tra due cellule nervose). Il gruppo di ricerca sta lavorando a un microcircuito elettronico, costituito da transistor e condensatori, in grado di generare impulsi elettrici e di comportarsi come neuroni veri. Ciò che fa la differenza in natura, tuttavia, è che i neuroni non comunicano in modo “standard” ma sono in grado di cambiare la loro risposta in base all’esperienza, grazie alla plasticità delle sinapsi. Per introdurre nel sistema anche questa variabile, gli scienziati hanno pensato di utilizzare un nuovo elemento microelettronico, teorizzato molti anni fa e riscoperto recentemente nei laboratori della Ibm, detto memristore. Il dispositivo ha proprietà simili a quelle delle sinapsi, cioè cambia la propria capacità di condurre in funzione della storia passata degli impulsi che ha ricevuto, e introduce dunque anche nella rete neuronale artificiale un principio di plasticità.

“L’obiettivo – spiega Vassanelli che si dedica a questo filone di ricerca ormai da 15 anni, dopo il suo soggiorno al Max Planck Institutes of Biochemistry – è di preparare la strada per avere un giorno, tra 15-20 anni, delle neuroprotesi capaci di sopperire ad eventuali perdite o disfunzioni delle reti neuronali naturali”. Che si tratti di traumi, patologie neurodegenerative o altri tipi di malattie neurologiche, questo tipo di approccio potrebbe permettere il ripristino delle funzionalità del tessuto cerebrale.  

Se si guarda più a breve termine invece, già nel giro di qualche anno le nuove tecnologie potrebbero permettere di migliorare la tecnica di stimolazione cerebrale profonda, utilizzata soprattutto nel trattamento dei casi più gravi del morbo di Parkinson, quando le altre terapie non sortiscono effetto. Si tratta di un procedimento condotto attraverso l’impianto in alcune zone del cervello di microelettrodi che producono impulsi elettrici. “Attualmente – spiega Vassanelli – gli elettrodi che vengono utilizzati hanno le dimensioni di due millimetri, noi invece utilizziamo siti di registrazione e stimolazione mille volte più piccoli di questi e ciò permetterà di evitare alcuni degli effetti indesiderati che purtroppo la stimolazione cerebrale profonda a volte porta con sé”. Se nel trattamento del morbo di Parkinson la procedura è ormai consolidata, attualmente si sta cercando di estenderne l’impiego anche in altre situazioni, come in caso di epilessia, di Alzheimer e, come ipotizza qualcuno, per facilitare il risveglio dal coma. È evidente che avere a disposizione nuove tecnologie, come quelle realizzate nell’ambito del progetto CyberRat e ora in fase di ulteriore sviluppo con Ramp, potrebbe senza dubbio aprire prospettive interessanti. 

E le possibilità di impiego non finiscono qui. Se infatti è già stato dimostrato che attraverso chip impiantati nel tessuto cerebrale si è in grado di far pilotare un arto artificiale a una persona, in futuro potrebbe essere possibile restituire anche la sensazione tattile. Questo attraverso sensori di pressione collocati nell’arto artificiale capaci di convertire lo stimolo esterno in una risposta neuronale simile a quella di un arto vero. “La strada è ancora lunga – conclude Vassanelli – perché siamo a livello di ricerca di base, ma la direzione è questa”. 

Monica Panetto

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