SCIENZA E RICERCA

Clima e impatto antropico, una mappa del rischio per le foreste pluviali dell'Africa centrale

Con 170 milioni di ettari e una straordinaria ricchezza in termini di biodiversità vegetale e animale le foreste pluviali dell’Africa centrale rappresentano, per dimensioni, le seconde foreste tropicali più grandi del mondo dopo quelle dell’Amazzonia. La loro capacità per ettaro di assorbire CO2 è addirittura maggiore, ospitano una concentrazione di alberi di grandi dimensioni che non ha pari in nessun altro continente e al loro interno vivono specie simbolo fortemente a rischio, come il gorilla di montagna.

Anche le foreste pluviali africane sono però sotto minaccia. A incombere sul loro futuro sono fattori come l’aumento dello stress climatico e la forte espansione demografica che, a sua volta, implica maggiori bisogni per la popolazione locale e un conseguente incremento della deforestazione e dell’estrazione di risorse.

Uno studio pubblicato nei giorni scorsi su Nature, realizzato da un team di ricerca francese che si è avvalso di collaborazioni internazionali, ha mappato i diversi tipi di foresta presenti nell’Africa centrale e ha individuato quelli più vulnerabili con l’obiettivo - hanno spiegato gli autori - di “guidare lo sviluppo di nuovi piani di utilizzo del suolo che preservino l'intera gamma del potenziale evolutivo e funzionale delle foreste odierne”.

Gli studiosi sono partiti dall’analisi di un data set molto ampio di circa 6 milioni di alberi, relativi a 180 mila appezzamenti in Camerun, Gabon, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo e Repubblica Democratica del Congo, i cinque 5 principali paesi boscosi dell'Africa centrale. Per immaginare quale potrebbe essere il futuro di queste foreste pluviali hanno ragionato sull’evoluzione del clima e sulla crescita della popolazione, tenendo conto dei diversi scenari climatici dell'Intergovernmental Panel on Climate Change e delle proiezioni demografiche dell’Onu per la fine del secolo. Sulla base delle diverse specie presenti i ricercatori sono riusciti a raggruppare le foreste in 10 tipologie e hanno dimostrato che alcune aree potrebbero subire in modo più forte rispetto ad altre l’impatto dei cambiamenti climatici e l’aumento della pressione antropica.

“L'area forestale dell'Africa centrale è ben lungi dall'essere un tappeto verde omogeneo”, ha commentato Maxime Réjou-Méchain che lavora per l’Institute of Research for Development ed è il primo autore dello studio. “Questa diversità - ha aggiunto - può essere spiegata dai diversi tipi di clima (umidità, temperatura, velocità di evapotraspirazione, quantità di precipitazioni) e del suolo, nonché dalla storia della flora africana e dal grado di attività umana che ha impattato sulle foreste per migliaia di anni”. Proteggere e gestire in modo sostenibile le foreste africane richiede quindi una maggiore comprensione della loro eterogeneità compositiva e della loro vulnerabilità ai cambiamenti in corso.

Si stima che nel 2050 l’Africa subsahariana sarà abitata da oltre 2 miliardi di persone e davanti a un’espansione demografica che ha questi ritmi sarà determinante rispondere alla sfida di tutelare le foreste pluviali senza compromettere la sicurezza alimentare delle popolazioni locali. “Non dimentichiamo che la sussistenza è il principale driver della deforestazione in Africa e questo ci dimostra anche come la conservazione delle foreste non può essere disgiunta dalla giustizia economica e sociale”, osserva il professor Giorgio Vacchiano, docente di Selvicoltura all'università di Milano e divulgatore scientifico.

Abbiamo chiesto al professor Vacchiano di entrare nel dettaglio dello studio pubblicato su Nature per capire come è stato realizzato e quale contributo può offrire in termini di pianificazione e gestione delle risorse. “La mappa che è scaturita da questo lavoro può essere utilizzata per dare priorità alle aree da conservare”, ha spiegato il docente proponendo anche un confronto metodologico con un’altra pubblicazione che nei mesi scorsi aveva analizzato la vulnerabilità delle foreste, in quel caso europee. “Siamo davanti a due studi molto diversi: quello relativo alle foreste europee cerca di individuare dove colpiranno i disturbi naturali, quello sull’Africa invece riguarda le modifiche al clima in modo un po’ più indiretto. Non si è andati a vedere dove la foresta era già danneggiata ma qual è la relazione statistica che lega la presenza e la distribuzione geografica di alcune specie con il clima in cui queste specie vivono. E’ interessante considerare questi approcci come complementari”.

L'intervista al professor Giorgio Vacchiano sullo studio che ha analizzato la vulnerabilità delle foreste pluviali dell'Africa centrale. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Questo studio - introduce il professor Giorgio Vacchiano, docente di Selvicoltura all'università statale di Milano - ha due novità interessanti, proprio dal punto di vista della sua realizzazione. La prima è l’enorme base di dati che è stata utilizzata: le foreste tropicali africane sono particolarmente sconosciute alla scienza, sono un territorio difficile da cui abbiamo sempre avuto poche informazioni sia dal punto di vista della vegetazione, sia da quello climatico perché sono poche le stazioni meteorologiche, soprattutto di lungo periodo, da utilizzare per prevedere i trend dell’evoluzione del clima. In questo articolo gli autori hanno usato i dati di presenza, quindi quali specie esistono e in quale punto, con coordinate precise, di oltre 6 milioni di alberi, appartenenti a 200 specie diverse".

Queste informazioni sono state ricavate da oltre 180 mila aree di campionamento ricavate da inventari forestali. Si tratta di "quelle che da noi sarebbero le richieste di autorizzazione al taglio forestale e mi riferisco anche a tagli legali e sostenibili, quindi non necessariamente legati a pratiche di deforestazione. Questo è un esempio di come utilizzare in modo costruttivo un dataset che effettivamente ci può dire molto", fa notare al riguardo il professor Vacchiano.

La seconda novità è come è stata analizzata la vulnerabilità climatica. "Gli autori - approfondisce il docente - hanno specificato di aver messo sotto esame tre aspetti che è importante considerare insieme: la vera e propria vulnerabilità, cioè come cambierà il clima nelle foreste esaminate, ma anche l’adattamento, la capacità delle specie di reagire ai cambiamenti e infine l’esposizione, vale a dire qual è il grado attuale di minaccia a cui le foreste riescono o meno a far fronte. Gli autori si sono così ingegnati per stimare e quantificare queste tre grandezze che sono tutte collegate ma che ci parlano di tre processi diversi. Ad esempio la vulnerabilità dipenderà dagli scenari climatici, quindi da come si modificheranno temperature e precipitazioni. L’esposizione dipende invece da quanto le foreste sono distribuite in una fascia climatica ampia, perché se la stessa specie esiste e vive in climi diversi vuol dire che è capace di resistere a condizioni climatiche e termiche differenti. Sulla capacità di adattamento è stata invece esaminata la biodiversità: sappiamo che foreste bioverse sono maggiormente stabili, hanno più carte da giocare nei confronti degli estremi climatici e quindi il grado di biodiversità genetica o filogenetica è stato considerato come un proxy per la capacità di adattamento. Mettendo insieme questi tre elementi sono stati raggiunti dei risultati nuovi".

Quali aree sono risultate più vulnerabili e come proteggerle?

La ricerca ha analizzato foreste distribuite in 5 stati dell’Africa equatoriale: il Gabon, il Camerun, la Repubblica Centroafricana, il Congo e la Repubblica Democratica del Congo. Si tratta quindi del grande bacino delle foreste del fiume Congo, il secondo per estensione dopo quello dell’Amazzonia nell’ambito dei tropici del nostro pianeta. "Per quanto riguarda la minaccia climatica le foreste più vulnerabili sono risultate essere quelle ai margini di questa grande area: quindi a nord, a sud e lungo la costa atlantica. Sono foreste che vivono in una fascia climatica ristretta, e si teme quindi che possano soffrire o sparire nel momento in cui il clima cambia, oppure foreste che saranno esposte a grandi cambiamenti climatici. Le trasformazioni non saranno infatti omogenee in tutta questa fascia: nella parte occidentale ci aspettiamo un forte aumento della siccità mentre in quella orientale aumenterà la precipitazione", spiega il professor Giorgio Vacchiano.

Le foreste della Repubblica Democratica del Congo, che rappresentano più della metà delle foreste dell'Africa centrale, sono invece risultate resistenti alle variazioni climatiche ma pericolosamente soggette all’attività umana. "Non dobbiamo dimenticare - continua il docente - che qui la deforestazione continua. Contrariamente a quanto accade nell’America latina non è guidata tanto dall’agricoltura industriale ma da un’agricoltura di sussistenza. I ricercatori hanno quindi provato anche a prevedere come varierà questo tipo di pressione utilizzando come indicatori l’aumento della popolazione e la posizione geografica delle strade. Questo ha portato a rivelare che anche foreste climaticamente resistenti, che sono particolarmente preziose perché non ce ne sono molte, rischiano di essere compromesse da un’attività umana diretta troppo intensa".

La mappa realizzata dai ricercatori può quindi essere utilizzata per dare priorità alle aree da conservare perché consente di "risalire a quali tipi di foresta sono carenti dal punto di vista della protezione" oppure di "individuare dove c’è bisogno di aree di collegamento perché magari ci sono delle aree ben protette ma non collegate tra di loro da corridoi verdi che sono molto importanti per mantenere un flusso genetico e fare in modo che questi geni di resistenza, portati dai semi delle piante e dagli animali che li disperdono, possano diffondersi nell’ambiente". 

Gli autori dello studio sono inoltre riusciti ad attenuare il livello di incertezza tipico dei modelli statistici che mettono in relazione l'area in cui ciascuna specie vive con il clima che la caratterizza. Queste incertezze risiedono nel fatto che "non si riesce mai a catturare tutti i punti in cui una specie vive, soprattutto in foreste inaccessibili e difficili come quelle pluviali" e nel legame tra molte variabili climatiche, condizione che rende complesso stabilire "se la presenza o l’assenza di una specie è dovuta a tutte queste variabili insieme oppure solo a una e la correlazione con le altre è solo un risultato casuale", approfondisce il professor Vacchiano. 

"I ricercatori hanno aggirato in modo molto intelligente questo ostacolo raggruppando le specie tra di loro: il risultato quindi non riguarda il futuro di 200 specie della foresta pluviale africana ma di 10 comunità. Hanno raggruppato la presenza di specie, con una cluster analysis, e hanno scoperto che all’interno di queste comunità l’analisi era molto più robusta perché le fonti di incertezza erano meno influenti. Si è di fatto descritta anche molto meglio la variabilità floristica e la composizione della foresta pluviale perché la foresta non è solo un elenco di specie ma è fatta dalle relazioni tra queste specie. Individuare delle relazioni è quindi una strategia vincente", commenta il docente di Selvicoltura dell'università di Milano.

La deforestazione

A minacciare in modo diretto il futuro delle foreste tropicali sono anche le attività di deforestazione. Secondo un rapporto del World Resources Institute, basato sui dati della rete Global Forest Watch, nel 2020 i tropici hanno perso 12,2 milioni di ettari di copertura arborea e, di questi, oltre 4 milioni di ettari ha riguardato le foreste primarie tropicali umide, particolarmente importanti per lo stoccaggio del carbonio e la biodiversità. Il paese più colpito continua ad essere il Brasile e il Congo figura al secondo posto.

"I dati a cui possiamo riferirci sono molto recenti. Sappiamo che Global Forest Watch, rete mondiale che utilizza monitoraggi satellitari ad alta frequenza per monitorare la deforestazione quasi in tempo reale e con un’alta accuratezza spaziale. I risultati dei 2020 sono stati diffusi un mese fa e indicano un avanzare della deforestazione in quasi tutte le foreste tropicali, sia in Sudamerica da cui siamo purtroppo abituati a ricevere più notizie negative, sia in Africa. E’ stata fatta anche una riflessione sull’effetto del Covid, su come la pandemia possa aver contribuito ad esacerbare la deforestazione in parte perché questi stati, colpiti anche economicamente dalla situazione pandemica, hanno dovuto investire meno nel controllo del territorio. E dal punto di vista della popolazione, soprattutto in Africa, si è riflettuto su come il peggioramento delle condizioni di vita, l’aumento della precarietà, la diminuzione del reddito e dell’occupazione abbiano aumentato la pressione che le popolazioni esercitano sulle foreste, proprio come mezzo di sopravvivenza", spiega il professor Vacchiano.

Un confronto con lo studio che ha analizzato la vulnerabilità delle foreste europee

Qualche mese fa, su Nature Communications, era stato pubblicato uno studio dedicato alle foreste europee che, a differenza di quanto accade nella fascia equatoriale, sono in una fase di espansione e negli ultimi trent'anni hanno visto crescere la loro superficie di circa il 9% raggiungendo i 227 milioni di ettari. Tuttavia anche le foreste europee non sono prive di segnali di vulnerabilità e questo studio, condotto dal Centro comune di ricerca della Commissione europea a Ispra, in Italia, in collaborazione con il Max-Planck Institute e le università di Firenze, Valencia ed Helsinki, quantificava condizioni di rischio per il 60%della biomassa. Le minacce analizzate dai ricercatori sono lo sviluppo di incendi, tempeste di vento in grado di sradicare gli alberi e la presenza di insetti e parassiti dannosi. Condizioni che non sono certamente nuove ma che, come ha spiegato a Il Bo Live Giovanni Forzieri, ricercatore del Joint Research Centre della Commissione europea a Ispra e primo autore dello studio, si presentano con una frequenza e un'intensità maggiore a causa del cambiamento climatico.

Abbiamo chiesto a Giorgio Vacchiano un confronto tra i due lavori di ricerca per comprendere le differenze a livello di impostazione metodologica. "E’ interessante perché in effetti i metodi seguiti sono stati diversi. Lo studio sulle foreste europee si è basato sulle aree attualmente colpite da tre forti tipologie di disturbi: incendi, tempeste di vento e grandi attacchi da parte di insetti. L’obiettivo era cercare di capire quali sono i fattori legati al clima, alla morfologia dei luoghi e alla struttura della foresta che favoriscono l’insorgere di questi fenomeni. Per quel lavoro sono stati utilizzati i catasti delle aree colpite: abbiamo un dataset europeo degli incendi molto valido che è gestito dal Centro comune di ricerca della Commissione europea, per le tempeste di vento esiste un dataset simile che è stato realizzato recentemente, mentre per gli insetti non esiste ancora nulla e quindi i ricercatori si sono rivolti alle foreste americane per fare delle analogie che consentissero di capire quali fattori favorissero la pullulazione degli insetti. Il risultato estrapolato a tutte le foreste d’Europa è stato che circa il 60% delle foreste del continente è vulnerabile a questi tre agenti di distruzione, per quanto temporanea, della biomassa. Siamo quindi davanti a due studi molto diversi: quello relativo alle foreste europee cerca di individuare dove colpiranno i disturbi naturali, quello sull’Africa invece riguarda le modifiche al clima in modo un po’ più indiretto. Non si è andati a vedere dove la foresta era già danneggiata ma qual è la relazione statistica che lega la presenza e la distribuzione geografica di alcune specie con il clima in cui queste specie vivono".

"E’ interessante considerare questi approcci come complementari. Sempre più spesso anche nel nostro Paese gli enti gestori del territorio o i parchi vogliono fare un’analisi di vulnerabilità. Anche nei decreti attuativi dell’ultimo Testo unico sulle foreste e le filiere forestali è stato inserito l’obbligo per chiunque redige un piano forestale di fare l’analisi di vulnerabilità climatica delle foreste che vengono pianificate. Si tratta di qualcosa che fino a qualche anno fa non esisteva. Tutti si chiedono come questa analisi debba essere fatta: lavori che applicano metodi diversi, guardando ai disturbi già avvenuti o alle potenzialità di cambiamento del clima, sono senz’altro anche dei modelli che possiamo replicare in piccolo sul nostro territorio".

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