Chi nasce tondo può invecchiare quadrato?
Si sente spesso dire che invecchiando non si migliora, anzi. Secondo alcuni luoghi comuni (tra cui: “chi nasce tondo non muore quadrato” ) il passare del tempo non cambia la nostra indole; semmai, al contrario, accentua i lati più spigolosi del nostro carattere, rendendoci più scorbutici, testardi e meno aperti alle novità.
Uno studio condotto da un team di ricerca dell’università di Milano-Bicocca mette in discussione questo stereotipo (oltre che alcune evidenze scientifiche sull’argomento), suggerendo che la personalità possa cambiare man mano che si invecchia, con una trasformazione in positivo che avverrebbe in particolare dopo i 65 anni d’età.
I risultati in questione sono stati ottenuti analizzando le risposte a un sondaggio fornite da quasi 400 uomini e donne over 65 in pensione, i quali non solo hanno riferito livelli tendenzialmente più alti di onestà-umiltà e gradevolezza rispetto a quelli di circa un migliaio di giovani adulti, ma hanno mostrato anche una diversa struttura della personalità: chi si riteneva amichevole aveva anche maggiori probabilità di considerarsi onesto e umile rispetto a quanto osservato tra i giovani adulti, nei quali i tratti in questione non sono sempre associati.
“Lo studio della personalità è l’indagine di quelle caratteristiche individuali che ci distinguono dagli altri e che non riguardano le competenze, le capacità o il tipo di intelligenza che si possiede”, spiega Daniele Romano, professore al dipartimento di psicologia all’università di Milano-Bicocca, che ha coordinato la ricerca. “La personalità riguarda piuttosto il comportamento, i pensieri, le emozioni e, più in generale, quei lati di noi che nel corso della vita, a prescindere dall’età, ci fanno comportare, pensare e agire in modo abbastanza regolare, rendendoci, in una certa misura, prevedibili.
All’interno di questo enorme ambito di ricerca ci sono varie teorie che assumono che la personalità sia descrivibile considerando un certo numero di tratti. La teoria che va per la maggiore è quella dei Big five, che postula l’esistenza di cinque tratti fondamentali della personalità”.
Romano e il suo team hanno invece fatto riferimento al modello HEXACO – basato su sei tratti della personalità. “Si tratta di una versione estesa della teoria dei Big five”, continua il professore. “Si fonda grosso modo sugli stessi principi, ma aggiunge una dimensione (quella dell’onestà-umiltà) che permette di cogliere in maniera più precisa alcuni aspetti del comportamento e del pensiero che la teoria dei Big five non riesce a catturare”.
“In generale, le teorie della personalità assumono che una volta raggiunta l’età adulta, i tratti della personalità tendano a rimanere stabili, sebbene con lievi oscillazioni”, racconta Romano. “Il nostro studio mette invece in discussione questa idea”.
Nuove evidenze e domande ancora aperte
“Abbiamo scoperto che due tratti in particolare, ovvero l’onestà-umiltà e la piacevolezza (traduzione imperfetta del termine agreeableness, che descrive la tendenza ad essere accomodanti, voler evitare i conflitti e cercare di andare d'accordo con le persone), diventano molto più strettamente associati tra loro, cosa che non accade, invece, per quanto riguarda le altre quattro dimensioni della personalità. In altre parole: chi riferisce alti valori di onestà tende a rispondere con elevati valori di piacevolezza molto più frequentemente rispetto a quanto succede nei giovani adulti.
Ma non solo. Le persone anziane si sono valutate più positivamente in generale, ritenendosi quindi mediamente più oneste, umili e piacevoli di quanto si ritengano i giovani adulti, oltre che più estroverse e stabili emotivamente. Non abbiamo invece rilevato differenze significative per quanto riguarda l’apertura verso nuove esperienze – in media, quindi, i giovani adulti hanno la stessa propensione degli anziani a sperimentare situazioni nuove, che pure è un risultato interessante, se vogliamo, e tra l’altro in linea con altri studi – e la coscienziosità, poiché le persone più anziane hanno mostrato solo una lieve tendenza a considerarsi più scrupolose e prudenti rispetto a quelle giovani.
La novità della ricerca non riguarda però solo l’argomento affrontato e i risultati scoperti, ma anche il metodo utilizzato per raccogliere le risposte dei partecipanti.
“Di solito, gli strumenti utilizzati per indagare la personalità si basano sull’utilizzo di specifici item: brevi frasi che descrivono un comportamento o un pensiero in una situazione specifica. Ad esempio, “quando vado a una festa, sono il primo a parlare con gli altri” è un tipico item usato per rilevare il tratto dell’estroversione. Chi risponde, quindi, deve esprimere in che misura si senta rappresentato da questo enunciato (se tanto, poco o per niente, ad esempio).
Il problema è che alcune di queste frasi riescono a catturare lati del carattere solo in persone che vivono determinate situazioni, ma non altre. Questo perché i contesti di vita di cui si fa esperienza da giovani possono essere diversi da quelli in cui ci si trova in età più avanzata”.
Per provare a cogliere aspetti della personalità che non risentissero della specificità degli item, i ricercatori hanno adottato una scala di valutazione differente, in cui non venivano presentate delle frasi contestualizzate, bensì degli aggettivi isolati (ad esempio: “quanto sei socievole?”)
“Un questionario basato sugli aggettivi e non sugli item è in grado di catturare i tratti della personalità a prescindere dall’età, perché non pone di fronte a un contesto specifico”, continua Romano. “Perciò, nel rispondere a queste domande, ogni persona pensa alle situazioni che vive nel periodo della vita in cui si trova ed esprime un giudizio su sé stessa al netto del contesto.
I questionari compilati dai partecipanti over 65 sono poi stati poi paragonati con delle risposte già raccolte – sempre utilizzando la scala basata sugli aggettivi – in altri studi precedenti da un totale di 1200 giovani adulti”.
Per analizzare i risultati, gli autori hanno inoltre utilizzato un approccio basato sul principio di correlazione, che permette di rilevare il modo in cui determinati aggettivi tendono ad essere valutati allo stesso modo dai partecipanti. In questo modo è stata osservata una maggiore tendenza tra le persone più anziane a mostrare più frequentemente l’associazione descritta poc’anzi tra il tratto dell’onestà-umiltà e quello della piacevolezza.
“Sono varie le ragioni che potrebbero spiegare tale differenza”, commenta Romano. “La prima è che le persone più anziane, rispetto a quelle giovani, tendono a dare maggiore valore all’avere un ‘buon carattere’. Un’altra ipotesi è legata proprio alle differenze nei contesti di vita di cui parlavamo poco fa: le persone più giovani potrebbero sperimentare più frequentemente situazioni (magari legate al contesto lavorativo) in cui chi è particolarmente onesto non viene considerato molto piacevole (o viceversa, ndr)”. Un’altra possibilità, conferma Romano, è che esistano differenze generazionali nella sensibilità e nella percezione delle persone in grado di influenzare anche il loro modo di autovalutarsi.
Bisogna considerare, d’altronde, che lo studio della personalità soffre necessariamente di alcune limitazioni, tra cui il fatto che i questionari utilizzati sono self-reported e misurano perciò l’autopercezione delle persone, non il loro carattere in maniera diretta. Un altro limite di queste ricerche è la loro natura trasversale e non longitudinale. In altre parole, fotografano la personalità di un campione di persone in un determinato momento, ma non rilevano le trasformazioni che avvengono nel corso del tempo.
“I nostri dati sono cross-sezionali e vanno interpretati come tali”, sottolinea Romano. “Mostrano, quindi, che i giovani adulti di oggi e gli anziani di oggi (ovvero i giovani adulti di ieri) hanno determinate caratteristiche che suggeriscono – ma non implicano necessariamente – che sia avvenuta una trasformazione della personalità nel corso del tempo. Purtroppo, è molto difficile condurre studi di personalità longitudinali; per farlo, bisognerebbe somministrare lo stesso questionario alle stesse persone a distanza di almeno venti o trent’anni”.
Presente e futuro della ricerca
“Questo lavoro fa parte di una serie di studi condotti nell’ambito di un progetto PRIN (Programmi di Ricerca di Rilevante Interesse) finanziato dal Ministero dell’Università”, racconta Romano. “La nostra ipotesi di fondo è che la personalità sia determinata dall’interazione di fattori biologici, psicologici e sociali, che insieme modellano pensieri, comportamenti e abitudini. Ci siamo quindi domandati cosa accade alla struttura della personalità quando un evento segna in profondità il vissuto individuale, al punto da determinare un cambiamento radicale su uno di questi piani.
Per scoprirlo stiamo conducendo studi sulla personalità che coinvolgono persone affette da patologie che impattano sul funzionamento cognitivo – come nel caso di pazienti affetti dal morbo di Alzheimer – o sulle relazioni con gli altri. Quest’ultimo è il caso di persone con malattia di Parkinson, che si trovano spesso ad affrontare, purtroppo, problemi legati allo stigma e al conseguente isolamento sociale, o di persone con lesioni spinali, condizione che comporta una riduzione delle attività sociali.
Abbiamo inoltre svolto ricerche sui cosiddetti NEET (Not in Education, Employment or Training) – cioè le persone giovani che non studiano né lavorano, le quali tendono a sperimentare un parziale ritiro dalla vita comunitaria – per capire, anche in questo caso, se tale condizione sia associata a specifici cambiamenti della struttura della personalità.
Insomma, la ricerca prosegue e ci auspichiamo che questi studi aiutino a capire meglio in che modo certi eventi e circostanze di vita possano influenzare la personalità”.