«Io posso non credere nei vampiri, ma loro credono in me. E sono perfettamente in grado di rivelare chi io sia.» A dirlo non è Dylan Dog ma Francesco Paolo de Ceglia, professore ordinario di Storia della scienza presso l’Università di Bari Aldo Moro, nel suo libro Vampyr - Storia naturale della resurrezione (Einaudi, 2023). Un argomento insolito per un accademico, ma oltre a fare ricerca l’autore ha una passione per la comunicazione e ama indagare i confini tra scienza, pseudoscienza, tradizioni e culture di altri tempi. Come ha fatto anche nella sua opera precedente Il segreto di san Gennaro - Storia naturale di un miracolo napoletano (Einaudi, 2016).
Visti i temi che de Ceglia approfondisce nei suoi saggi, quale momento migliore per interpellarlo se non a ridosso di Halloween? Scopriamo così che la scintilla con i vampiri è scoccata durante la recente pandemia, infatti dice che «è stato il vuoto cosmico del Covid a farmi trovare in una situazione analoga a quella dei contadini sperduti nei paesini della Serbia che nei secoli scorsi avevano paura dei rapporti umani, perché chiunque poteva portare la peste o la morte. Anche noi vedevamo la vita in funzione di un orizzonte temporale, l’arrivo dell’estate che specialmente il primo anno pensavamo avrebbe posto fine al dramma, mentre per loro era l’arrivo della buona stagione dopo l’inverno».
Il riferimento alle campagne serbe non è casuale, infatti le epidemie di vampirismo come quella che colpì nel 1732 il villaggio di Medvedja (allora parte dell’impero austroungarico, oggi in Serbia) si concentrano in una certa zona geografica detta “cintura dei vampiri”. E, come racconta de Ceglia, questi episodi avvengono più spesso d’inverno, con l’arrivo del buio e del freddo. Questa stagionalità ora non influisce più sulle nostre vite, se abbiamo elettricità e riscaldamento, ma in società agricole o in condizioni socio-economiche diverse fa invece un’enorme differenza. Infatti, in molte culture ci sono feste particolari legate al periodo dell’anno in cui le giornate si accorciano, le tenebre avanzano e si oltrepassa una soglia in cui tutto può succedere…
«Tra fine ottobre e inizio novembre – prosegue l’autore – c’è una di quelle che vengono chiamate le “grandi porte dell’anno”, l’altra è fra aprile e maggio. A fine ottobre si è già seminato e le greggi sono portate nelle stalle, quindi si ferma l’attività agro-pastorale, poi ad aprile/maggio si riapre tutto e già si capisce se la stagione andrà bene oppure no. E nel mondo slavo, l’inverno corrispondeva alla morte dei campi, del seme che deve morire per rigenerarsi, ma in qualche modo anche alla morte degli individui che passavano la loro vita quasi sempre a letto perché era l’unica cosa che potevano fare senza consumare energia. Si alzavano ogni tanto se avevano un ciocco di legno per il fuoco oppure davano da mangiare alle bestie, poi tornavano a star fermi. E ciò creava quasi un senso di trance collettiva stagionale per cui in questi lunghi sonni interrotti, la gente immaginava di tutto, elaborava narrazioni su fantasmi o vampiri vivendo in questa dimensione onirica in cui c’era il male».
Cintura europea dei vampiri nell'età moderna (da "Vampyr - Storia naturale della resurrezione" di Francesco Paolo de Ceglia, Einaudi 2023).
Quando non c’è il purgatorio
E il male assume le forme più varie, perché anche se il titolo del libro di de Ceglia cita solo i vampiri, le schiere malefiche comprendono streghe e stregoni, lupi mannari e fantasmi... Con esempi che attingono non solo ai Paesi dell’Europa centro-orientale, ma anche alla Scandinavia o alle isole britanniche. Curiosa per esempio la cesura che sembra esistere tra un folklore dell’est e uno dell’ovest dove i vampiri sono molto meno presenti: è stata la Chiesa? «In Europa la Chiesa ha ammansito queste paure – e l’autore specifica di non essere credente – perché alla fine da cristiano dovevi avere paura soltanto del diavolo, tutte le altre erano eventualmente espressioni del diavolo. Ma se eri un buon cristiano, se andavi a messa, se stringevi il crocefisso, era difficile che potesse capitarti qualcosa; tanto più nei Paesi che avevano il purgatorio. I vampiri c’erano in varie epoche storiche e in tanti luoghi, ma il territorio che sembra essere più esente da questo fenomeno è il triangolo Italia-Spagna-Francia con casi isolati di vampirismo. Allora mi si è accesa la lampadina: forse qui è stato creato un presidio intellettuale che ha fatto sì che la narrazione dei vampiri non prendesse piede? I Paesi cattolici non soltanto avevano un controllo spirituale della Chiesa, ma erano anche delle unità statuali abbastanza forti, quindi c’era un potere politico che ti impediva di andare nei cimiteri e farti giustizia da te. Invece nei Paesi in cui lo Stato non arrivava, non c’era il potere politico né quello della Chiesa, e se mi succedeva qualcosa di brutto allora erano stati i morti».
Qui forse bisogna aprire una parentesi teologica perché, secondo de Ceglia, il vantaggio della Chiesa cattolica rispetto a quella ortodossa o protestante è che ha il controllo sui vivi e sui morti, perché ha il purgatorio con cui dice “non ti preoccupare, ai morti penso io”. Quindi il corpo può essere sepolto in chiesa e così viene depotenziato, l’anima è sotto controllo in purgatorio dove secondo la credenza deve espiare per poter uscire. E infatti così come «Foucault parlava di biopolitica per le carceri e i manicomi, luoghi in cui si controllavano i vivi – aggiunge l’autore – quando viene inventato il purgatorio è uno straordinario strumento di necropolitica, cioè si mettono concettualmente là tutti i morti e proprio perché sono confinati e gestiti dalla Chiesa non possono venire a nuocerci; perché c’è chi li punisce. Nei Paesi protestanti e ortodossi che non hanno il purgatorio, la Chiesa non ha un piede nel mondo dei vivi e uno nel mondo dei morti, quindi non li controlla. Secondo la tradizione evangelica il morto si addormenta, per poi risvegliarsi il giorno del giudizio in cui sarà mandato all’inferno o in paradiso, ma in quel periodo dove sta? È questo il problema che, specialmente nei primi secoli dopo la cristianizzazione che ha imposto la sepoltura, ha scatenato la paura che prima o poi i morti si sveglieranno. E in quel caso io ortodosso non ho un Dio che brucia spiritualmente il morto per conto mio, ecco perché in prima persona devo andare e fare da me… In pratica il Dio cattolico ci ha fatto da colf, ha fatto un lavoro sporco che non volevamo fare e invece gli ortodossi devono farselo da soli, cioè riesumare materialmente il morto “difficile” e darlo alle fiamme, perché ciò che nei Paesi cattolici avviene spiritualmente loro devono farlo performativamente».
Le anime del purgatorio sono spesso rappresentate avvolte in un fuoco spirituale (diocesi di Rottenburg, Stoccarda).
Il vampiro come “altro”
Queste performance apotropaiche si rendevano necessarie quando per esempio succedeva qualcosa di nefasto nel villaggio: un’epidemia, il raccolto rovinato o comunque qualche paura che a un certo punto si impossessava della comunità, allora si andava a cercare un capro espiatorio ed ecco il vampiro. Di solito, come testimoniano vari episodi raccolti da de Ceglia, il vampiro è l’altro, lo straniero, il diverso, la donna di dubbia moralità o chi è morto in modo anomalo. Un’interessante sovrapposizione tra la liminalità dei vampiri, sospesi tra la vita e la morte, e la marginalizzazione di persone che avevano solo la sfortuna di essere un po’ diverse dal resto del loro contesto.
Come spiega l’autore «sostanzialmente bisognava aver condotto una vita sospetta, ma alla fine chi non è sospetto agli occhi altrui? E qui si intrecciano vampirismo e stregoneria, perché la stessa fattucchiera che fino a ieri mi dava l’erba per farmi passare il mal di pancia, oggi che è morta inizio a pensare che forse aveva qualche rapporto col diavolo; spesso sono gli operatori del magico o semplici guaritori che cadono nella possibilità di essere dei vampiri. Oppure erano stigmi di nascita, il fatto di avere i capelli rossi o gli occhi azzurri o i denti sporgenti, o bastava appartenere a una certa famiglia».
Poi però, una volta scelto il capro espiatorio e trovata la tomba da aprire, dentro bisognava trovare un corpo un po’ più florido, andavano fatte tutte le procedure del caso e infine bisognava avere la fortuna che gli eventi nefasti cessassero subito dopo. Quindi se erano solo legati alla percezione della gente, come risate che si udivano di notte o animali che facevano strani versi, è possibile che finissero. Ma se c’era davvero un’epidemia o una carestia, era impossibile che il rito funzionasse. A quel punto si poteva dire che non era quello il vampiro primario e si doveva andare a ritroso fino a trovare il cosiddetto “arcivampiro” originario, che a partire dalla sua sepoltura avrebbe poi infettato tutti gli altra (quasi un paziente zero).
Per de Ceglia «bisognava essere fortunati e chiudere la storia il prima possibile, perché se no si rischiava di dover svuotare tutto il cimitero, come succede in Slesia e Moravia tra il XVII e il XVIII secolo: in paesini di 50-60 anime si trovano ad avere addirittura 100-200 corpi appesi. Perché c’era la tradizione di non metterli a terra altrimenti avrebbero continuato a infettare, quindi si facevano delle specie di altalene coi morti e quelli esposti erano più dei vivi. È ovvio che si creava il parossismo perché anche quando la Chiesa dà la possibilità di bruciarli tutti, dopo due mesi succedeva qualcos’altro... Quindi questi morti si moltiplicano e la situazione diventa veramente insostenibile, perché è come se ci fosse un confronto continuo tra i viventi e il mondo infero che affiora».
In odor di santità (o di vampirismo)?
A proposito di cadaveri “pasciuti”, a seconda del luogo dove si ritrova questo corpo florido o ben conservato può essere considerato un santo o un vampiro. A Bologna per esempio viene venerata come co-patrona della città santa Caterina Vigri, il cui corpo secondo la tradizione continuava ad avere capelli e unghie che crescevano ed erano tagliati dalle monache del suo monastero, ma in effetti altrove forse sarebbe stata in odor di vampirismo? Secondo de Ceglia «è come se si scontrasse l’Europa dei santi con l’Europa dei vampiri: per i cattolici se c’è una indecomposizione è divina, e stop. Come scrive anche papa Benedetto XIV nel suo trattato sulla santificazione nel 1750, in cui dice sostanzialmente (ma in modo molto più elegante) “i santi esistono perché esistono e i vampiri non esistono perché non esistono, perché se esistessero sarebbero troppo simili ai santi”.
Invece per i protestanti, che avevano la tradizione del Nachzehrer (il masticatore di sudario), alcuni fenomeni di indecomposizione possono essere maligni e forse sono quei vampiri di cui parlano gli ortodossi. In sostanza pensavano che alcuni corpi continuassero ad avere un residuo di vita e questo agisce negativamente sul villaggio; non è sicuro che si alzino dalle tombe, però rimanendo lì portano la peste. Ma se esistono questi corpi indecomposti, può anche darsi che tutti i santi venerati dai cattolici siano dei vampiri».
E poi c’era il mondo ortodosso che credeva sia ai santi che ai vampiri, ma la differenza non era molto chiara, quindi se si trova un morto indecomposto di cui non si sa nulla, che si fa? «Lo si porta davanti alla chiesa, poi si aspetta: se arriva un’epidemia vuol dire che è un vampiro, lo si fa a pezzi e lo si brucia; se invece qualcuno guarisce da una malattia allora è un santo. Questo è lo strappo nel cielo di carta di pirandelliana memoria, cioè fa capire che è tutta narrazione, perché a seconda di come vanno le cose lo stesso soggetto ignoto può essere vampiro o santo… è tutto nella nostra testa».
Max Schreck interpreta il conte Orlok nel film "Nosferatu il vampiro" del 1922.
È il mostro che ci parla
Chiediamo infine a Francesco Paolo de Ceglia che cosa ci possono dire di noi stessi i vampiri, dato che sono proiezioni delle nostre paure. «I vampiri finalmente hanno potuto parlare, perché sono sempre stati raccontati da altri. Cioè abbiamo creduto sempre troppo a Van Helsing che raccontava le cose dal suo punto di vista, ma se andiamo a vedere le cronache ci rendiamo conto che i vampiri erano i soggetti più marginali, quindi non dovremmo prestare troppa fiducia al cacciatore di vampiri che va bene nei romanzi, ma non nella storia. Perché è chi ha vinto che racconta la storia, mentre questi erano poveri personaggi che a un certo punto, per le cause più varie, morivano. E poi, proprio perché si trovavano in una situazione di marginalità, la loro vita diventava una sorta di tela bianca su cui ciascuno si inventava qualcosa».
Quindi chi sono oggi questi “vampiri” che non possono raccontare la propria storia? «Sono le persone che non riescono a parlare di sé, coloro che rimangono muti. E sono molti, anzi il 99% dei componenti della storia è muto, quindi i vampiri sono coloro che compiono una traversata con una nave e vengono risucchiati dal Mediterraneo, che non avranno mai la possibilità di raccontare la loro storia, ma lo faranno altri. Sono le donne morte di femminicidio, ci sarà qualcun altro che scrutando qualcosa in internet metterà insieme una storia rabberciata... Un altro esempio di “vampiro” sono i morti per guerre di cui forse neanche loro conoscono le cause.
Ora siamo noi stessi sui social che cerchiamo di descriverci, di mettere la fotografia in cui sembriamo fighi e poi alla fine diventiamo lo screenshot di un altro che ci scrive un commento velenoso, un nostro amico o una terza persona. I vampiri siamo tutti noi, nella misura in cui non abbiamo voce anche a livello politico. Da un certo punto di vista siamo tutti, per dirla con Lady Gaga, “little monsters” o piccoli vampiri. E questo è tremendamente liberatorio, perché ci carica della responsabilità di raccontarci e di non delegare a nessuno il nostro racconto, perché delegando qualcun altro ci fa essere qualcosa che non siamo, ci fa essere responsabile dei suoi problemi, delle sue ansie, delle sue frustrazioni».
Una riflessione che riecheggia anche la necessità di presa di parola da parte di soggettività marginalizzate o minoritarizzate, che oggi vogliono disintermediare la narrazione dei propri bisogni e delle proprie istanze. Perché, come scrive il filosofo Paul B. Preciado, finalmente possiamo ascoltare la vera voce di “un mostro che ci parla” e non quella di chi gli dà la caccia.