
Ghiacciaio di Lares. Foto di Paolo Ghisu.
Si dice che prima o poi nella vita di ogni documentarista apparirà un pastore a indicargli la strada. Ed è proprio così che ha origine Il Canto del Ghiaccio, un progetto audiovisivo di Paolo Ghisu e Stefano Collizzolli, che racconta la fusione del ghiacciaio di Lares, del complesso dell’Adamello.
Paolo Ghisu, nato e cresciuto a Trento, viene dal mondo della cooperazione internazionale, come fotografo si occupa di tematiche sociali, lavora con ONG ed agenzie umanitarie, soprattutto in Mozambico. “Vivo tra il Mozambico e Trento; tornato in Italia stavo cercando un progetto fotografico per raccontare un qualche cosa dell'Italia. Inizialmente avrei voluto raccontare una storia di montagna, desideravo raccontare le persone, i pastori, volevo raccontare un po’ le mie origini”.
Alla ricerca di “appunti visivi” per capire come far evolvere questo progetto, Paolo scopre che il ghiacciaio del Lares così come lo conosceva non esiste più: al suo posto trova un lago lungo quasi 1 km attraversato da grandi blocchi di ghiaccio: “Un lago intero in cui puoi navigare, volendo, non una pozza. Puoi portarci una barca”, argomenta Ghisu. Di quel luogo così familiare ormai divenuto irriconoscibile, scatta delle fotografie e le mostra a Stefano Collizzolli, regista e produttore, trentino anche lui: “Non riconosco il posto, proprio non ho idea di cosa c’entri con il luogo che ho frequentato, in cui ho camminato negli anni precedenti”.
Così decidono insieme di fare un documentario per raccontare lo sgomento di quello che avevano davanti agli occhi, per provare a capire cosa stesse succedendo.
Paolo abbandona allora i pastori: “Lasciavo da parte la presenza umana, che per me anche dal punto di vista artistico, fotografico, stilistico era una novità. Abbiamo iniziato ad andare su e giù per i ghiacciai dell'Adamello-Presanella per studiare e per iniziare a raccogliere delle immagini”.
Il Canto del Ghiaccio nasce da una necessità biografica, oltre che sociale e climatica: il ghiacciaio di Lares è un luogo nascosto, remoto, molto poco osservato rispetto ad altre vedrette, ma è il ghiacciaio di casa; è il luogo inaccessibile con cui si sono confrontati fin da bambini. Ed ora ha le sembianze di poco più che un relitto: Stefano racconta come la sensazione fortissima sia quella di trovarsi davanti a qualcosa che è già morto, che non esiste più. Che quel ghiacciaio nelle condizioni climatiche attuali non potrebbe formarsi, e di fatto non può sopravvivere. È come guardare una stella già spenta: la luce c’è ancora, ma la stella è morta. E quel ghiacciaio è già morto, insomma è già un “fossile climatico”.
Pur non volendosi porre come un progetto didascalico ed esclusivamente divulgativo, il documentario intreccia all’elemento artistico quello dello studio scientifico riguardo al cambiamento climatico e ai suoi effetti sugli ecosistemi montani. Il progetto ha infatti una radice importante nell’osservazione scientifica e nella collaborazione con la Commissione glaciologica della SAT (Società Alpinisti Tridentini), con il Servizio glaciologico lombardo, il Museo delle scienze di Trento ed in particolare con il Parco Naturale Adamello Brenta .
Collizzolli afferma: “Non stiamo descrivendo la dinamica glaciale con il linguaggio e il dataset di un glaciologo, ma ci interessa non commettere errori o non forzare cose che potrebbero poi essere ingannatorie”. Gli autori stessi confermano che non si tratta appunto di un lavoro scientifico, ma il materiale raccolto può essere certamente utilizzato per coadiuvare la ricerca.
Il Canto del Ghiaccio è uno sguardo lento ed attento, lungo cinque mesi: tre telecamere fisse sul ghiacciaio, alimentate a pannello solare, per un totale di 200 mila scatti per ogni camera. In aggiunta chiaramente a tutto il materiale audiovisivo raccolto nelle diverse uscite; Ghisu racconta: “Siamo saliti una quindicina di volte nel corso dell’estate. A volte solo io e Stefano, a volte con un operatore di drone, a volte con degli amici che credevano nel progetto e ci hanno aiutato moltissimo, anche nell’istallazione degli impianti fotovoltaici per alimentare le telecamere in quota”.
Ma questo sguardo non è quello di un divulgatore scientifico, bensì è il tentativo di elaborare in modo artistico il tema, traducendo l’osservazione, lasciandosi attraversare da quel luogo e cercando di instaurare un dialogo con lo spettatore, un coinvolgimento emotivo.
I segnali del cambiamento climatico si esplicitano anche sui mutamenti dei ghiacciai, che ne costituiscono un segnale d’allarme, sono il termometro della Terra.
Ma c’è la necessità di coinvolgere in modo diverso lo spettatore, con un linguaggio che lavori sull’emozione, perché si sta raccontando il mondo, l’essere umano e il suo comportamento. Anche se fisicamente l’uomo non compare nelle riprese, anche se non c’è drammaturgia in senso classico, non per questo è una storia che non lo riguarda.
Collizzolli afferma che si tratta di una questione di esperienza: “Per arrivare sul ghiacciaio con l’attrezzatura impieghiamo cinque ore e mezza. Quindi quando arriviamo, il nostro stare lì è frutto di quella fatica ed insieme di quel piacere”. Il fine del lavoro è esattamente quello di prendere lo spettatore e portarlo lì, in cima al ghiacciaio e di sostare lì davanti per un po’. Perché se sosti vedi, ma anche senti.
Difatti, nel racconto della fusione del ghiacciaio di Lares, l’ascolto, il suono, acquisiscono una loro dimensione specifica ed autonoma: oltre alle riprese video, sono stati registrati i suoni che il ghiacciaio produce, molti in presa diretta, immergendo i microfoni nell’acqua, calandoli nei crepacci. Suoni incredibili, a tratti improbabili, simili a molte cose (un violino, cavi elettrici che vibrano), ma in sé stessi unici.
L’essere umano è essenzialmente visivo, vive immerso in una cultura visuale, mentre il suono è legato ad un aspetto primitivo, istintivo, ma è proprio in questa primitività che risiede l’importanza del suono.
Paolo Ghisu e Stefano Collizzolli hanno deciso con questo lavoro di discostarsi dalla classica visione didascalico-divulgativa, per concentrarsi sull’emozione, sul sentire il cambiamento.
Insieme hanno raccontato come il senso di perdita provocato dalla visione della vedretta morente venga bilanciato dal fatto che molta vita si stia appropriando di quel luogo: iniziano a spuntare larici, salgono i camosci e di conseguenza gli stambecchi. Eppure questo processo è straniante, perché va ad una velocità che non è controllabile e non è compatibile con i tempi umani, con la nostra (in)capacità di adattamento. Bisogna fermarsi, ascoltare e pensare, perché come ha detto Stefano Collizzolli: “Non si tratta tanto della morte di un sistema naturale che si modifica, quanto la morte dell'umano”.
Il Canto del Ghiaccio debutterà come cortometraggio il 21 marzo al Museo delle Scienze di Trento. Una video istallazione all’interno della mostra che il MUSE inaugurerà in occasione dell’anno internazionale per la conservazione dei ghiacciai.
A partire dal prossimo autunno sarà invece disponibile il progetto documentario nella sua interezza.