
Autoritratto (part.), New York, NY, 1954, stampa alla gelatina ai sali d'argento 2012, 40x50 cm ©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY
Il primo incontro con le immagini di Vivian Maier è nel 2009: “Ero alla Howard Greenberg Gallery di New York per una mostra, quando mi mostrarono qualche scatto di quest’autrice sconosciuta – spiega Anne Morin, oggi considerata la massima esperta dell’opera della fotografa americana –. Ricordo di aver subito detto: ‘dobbiamo rendere omaggio a questa donna’”. Un omaggio che oltre 15 anni dopo prende forma a Padova nella più grande personale finora realizzata a livello mondiale: Vivian Maier. The Exhibition, aperta fino al 28 settembre al Centro San Gaetano di Padova, curata dalla stessa Morin e prodotta da Arthemisia. Un’esposizione monumentale che raccoglie 220 fotografie, filmati in Super8, oggetti personali e materiali d’archivio: una sorta di gesto di riparazione verso una donna che ha vissuto tutta la vita nell’ombra, restituendoci il mondo attraverso uno sguardo originale ma universale.
Chi è davvero Vivian? Il mistero è parte integrante della sua leggenda. Bambinaia per mestiere e fotografa per vocazione, Maier compie l’intero arco della sua vita, dal 1926 e al 2009, senza mai esporre un suo lavoro, senza mostrare a nessuno le migliaia di immagini che scatta in maniera quasi compulsiva. Muore in povertà, sostenuta dalla generosità della famiglia Gensburg, per la quale ha lavorato, senza sapere che due anni prima parte del suo archivio è finito all’asta per 380 dollari a causa di un conto non pagato: un tesoro di oltre 150.000 negativi e 3.000 stampe che oggi la consacrano tra i grandi della fotografia del Novecento.

Con la sua inseparabile macchina fotografica, vera e propria estensione del suo corpo, Vivian Maier attraversa per oltre 40 anni New York e soprattutto Chicago come un fantasma; invisibile ma tutt'altro che cieca, riesce a catturare attraverso la luce l’essenza di situazioni e persone nel loro divenire. Il suo sguardo è l’unica cosa che oggi ci rimane di lei, che non ha lasciato scritti o interviste; Maier non cercava visibilità ma visione, le sue fotografie raccontano un’America popolare e marginale, fatta di parchi e bambini, lavoratori e senzatetto: talvolta in posa, più frequentemente sorpresi o ignari di fronte all’obiettivo. Una sorta di fantascienza del quotidiano dove ogni scatto restituisce forza poetica alla normalità: perché in fondo “lo straordinario si trova nelle profondità dell’ordinario”, come annotava Victor Hugo.
L’allestimento padovano è il risultato di un lavoro certosino da parte della curatrice, che ha selezionato le immagini da un archivio di decine di migliaia di fotografie: “Mi sono sentita come Magellano mentre si affacciava per la prima volta sul Pacifico, senza informazioni o riferimenti – racconta Morin –. Vivian Maier non aveva bisogno di condividere: le sue foto erano per se stessa, per conquistarsi uno spazio di libertà in una società che, come tante donne della sua epoca, l’aveva marginalizzata”. Una riflessione che rimanda al saggio Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, citato dalla curatrice: anche Vivian si è costruita una stanza – silenziosa e mobile – in cui poter essere ciò che le convenzioni non le permettevano.


Una situazione che però allo stesso tempo le permette di comprendere esclusi ed emarginati, quelli che Michel Foucault definisce infami (coloro che nell’antica Roma venivano esclusi dalla gerarchia sociale imposta dal censor o dal praetor): le persone comuni, ordinarie, che nessuno guarda. “Maier è come loro, ed è per questo che riesce a vederli – scrive Morin nel catalogo della mostra –. Li porta alla luce, li rende visibili facendo leva su una peculiarità, qualcosa nel volto, nell’abbigliamento, nel portamento, forse quella dignità, solennità e in qualche modo nobiltà che si portano dentro e che Bossuet in Sermoni e orazioni (1669) descrive come l’eminente sovranità dei poveri”.
La mostra è concepita come un archivio vivente e potente, un racconto orizzontale che intreccia le grandi tematiche della sua opera: dalla street photography ai famosi autoritratti che ci mostrano l’autrice riflessa in specchi, vetrine, pozzanghere, come continuamente in cerca di una conferma della propria esistenza. Immagini sospese tra gioco e identità, tra messa in scena e autoaffermazione, precursori inconsapevoli dell’attuale ossessione per il selfie. A queste sono affiancate sezioni che esplorano aspetti meno conosciuti dell’opera di Maier: i video realizzati con la cinepresa a mano, le foto a colori scattate con la Leica (esposta anch’essa), con la quale a un certo punto ‘tradisce’ la fidata Rolleiflex, un’intera sezione dedicata alla fotografia astratta.

“Vivian Maier non ha avuto famiglia, ruolo sociale, amanti né amici. Si è costruita da sola attraverso la fotografia”, osserva Morin. Immergersi nel suo immaginario è un viaggio nella frammentazione, nell’ombra, nella marginalità, ma anche nella bellezza ostinata di chi sa raccontare la realtà in punta di piedi. Tarkovskij diceva che “i poeti e i bambini non guardano il mondo, lo scoprono”: una frase che calza a pennello alla statunitense. La sua macchina fotografica non è un mezzo per comunicare, ma uno strumento per esistere. E oggi, finalmente, anche noi possiamo vederla.
Vivian Maier. The Exhibition
A cura di Anne Morin
Centro Cutlurale Altinate - San Gaetano
Fino al 28 settembre 2025

