
Il settimo rapporto relativo al nuovo ciclo di valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) è previsto per il 2029. L’urgenza di una convenzione quadro per contrastare gli effetti delle eccessive emissioni di gas serra (riscaldanti e inquinanti il pianeta) era in larga parte derivata dalla pubblicazione nel 1990 proprio del primo rapporto dell’organo intergovernativo di consulenza scientifica dell’Onu, costituito nel 1988 attraverso un’iniziativa promossa dalla World Meteorological Organization (Wmo) e dall’UN Environment Programme (Unep) per coordinare i risultati della letteratura scientifica disponibile, attraverso il contributo di esperti e scienziati. L’Ipcc non conduce ricerche in proprio né effettua osservazioni climatiche autonome. Valuta analisi e ricerche sul clima in modo trasparente e obiettivo, con rapporti di periodicità non contingente (variabile, prima ogni 5, poi ogni 6, poi ogni 7 anni), il precedente sesto è del 2022; dal 1990 sono usciti anche molti testi speciali di approfondimento specifico; per ora dal 2025 al 2028 ne sono previsti altri tre: Cambiamento Climatico e Città, Forzanti Climatici a Vita Breve, Tecnologie di Rimozione dell’Anidride Carbonica.
Come noto, le attività dell’Ipcc sono svolte da tre gruppi di lavoro: Gruppo I - scienza del clima; Gruppo II - impatti, vulnerabilità e adattamento ai cambiamenti del clima; Gruppo III - mitigazioni dei cambiamenti climatici e questioni socio economiche, costituiti da migliaia di ricercatori scelti per i loro meriti scientifici, principalmente sulla base delle proposte presentate da governi, accademie e istituti. I gruppi interagiscono con altri scienziati e ricercatori attraverso i punti focali nazionali. Gli stati membri sono 195, anche gli Stati Uniti ne hanno sempre fatto parte e per ora l’amministrazione guidata da Trump non è uscita. Il lavoro svolto dagli studiosi subisce varie successive revisioni scientifiche (sia da parte di esperti governativi che da parte di esperti indipendenti) prima di essere discusso e approvato dall’Assemblea Plenaria (l’ultima a Istanbul a gennaio). Il V rapporto è stato reso noto fra il settembre 2013 e il novembre 2014, il VI era previsto per il 2021, ha visto un breve rinvio causa pandemia. Su queste pagine i lavori dell’Ipcc sono stato continuamente diffusi, evidenziato e valutati, la redazione ha anche pubblicato un recente importante volume cartaceo su Il clima che vogliamo. Ogni decimo di grado conta.
A inizio 2025 sono usciti in Italia due testi su argomenti che potrebbero arricchire l’impostazione e le stesse “valutazioni” dei rapporti Ipcc, guardando con maggiore attenzione tematiche finora “doverosamente” accantonate, che hanno però avuto nei successivi decenni crescente peso culturale e scientifico: Francesca Pongiglione, L’emergenza climatica. Ripensare l’individuo in un mondo che cambia, Il Mulino Bologna 2025, pag. 193; Fred Vargas, Un nuovo modo di vivere. Affrontare l’aumento delle temperature e il declino delle energie fossili, traduzione di Francesca Bononi, Einaudi2025 (orig. 2022, Quelle chaleur allons-nous connaítre? Quelles solutions pour nous nourrir?). La filosofia della conoscenza potrebbe molto contribuire a capire e a proporre gli “adattamenti” psicologici individuali e collettivi necessari a ridurre le emissioni e a mitigarne gli effetti. La geologia delle estrazioni fossili potrebbe rendere indispensabili “adattamenti” tendenzialmente alternativi rispetto alla pur necessaria azione istituzionale per la “decarbonizzazione”.
Lo spartiacque del 1990
Per Pongiglione, giustamente, la data di transizione non può essere che il 1990. Sono trascorsi circa 35 anni dalla pubblicazione del primo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), uno spartiacque teorico e pratico che consentì alla comunità scientifica internazionale di descrivere il (relativamente) rapido, recente e allarmante fenomeno dell’innalzamento delle temperature terrestri, dovuto prevalentemente a cause antropiche. A molti e a lungo le competenze dei filosofi sembravano abbastanza inutili di fronte alla crisi ambientale senza precedenti. È via via chiaramente emerso, tuttavia, che rispondere ai cambiamenti climatici richiede, accanto a trasformazioni culturali ed economiche, sociali e tecnologiche, anche un ripensamento dei valori morali e dei doveri reciproci degli esseri umani che si trovano ad abitare il pianeta in questo momento storico.

Una riflessione (anche) filosofica
Serve certamente una riflessione filosofica ed etica che si interroghi sui doveri degli individui nei confronti dell’ambiente e provi a giustificarne in modo solido (non astratto e moralistico) l’esistenza, la natura e l’estensione. Non si tratta di “snaturare” l’essere umano chiedendogli (ci) di essere diverso da come è sempre stato e di comportarsi in modo altruista, oculato e coscienzioso come forse mai nella sua storia evolutiva è riuscito a fare. L’umanità si trova nel mezzo di un sentiero ancora pieno di diramazioni che possono condurre a luoghi molto lontani da loro. Non abbiamo ragioni per assumere che ci dirigeremo verso il luogo peggiore, non abbiamo ragioni per assumere che andremo verso quello migliore. Abbiamo la possibilità di scegliere che tipo di persone vogliamo essere: non c’è altro modo di rispondere alla sfida del surriscaldamento globale se non cambiando la società, e non c’è altro modo di cambiare la società se non cambiando noi stessi.
La giovane e brava filosofa Francesca Pongiglione (1980), professoressa associata di filosofia sociale nell’università San Raffele di Milano e direttrice dello European Centre for Social Ethics presenta un interessante e fertile approccio culturale, che arricchisce la letteratura in materia di cambiamenti climatici. La prima parte descrittiva riassume efficacemente le sfide scientifica, politica ed etica; la seconda parte “normativa” illustra, conseguentemente, come e perché cambiare per il clima. Sull’origine antropogenica del cambiamento climatico contemporaneo vi è ormai un consenso scientifico pressoché unanime: tra le decine di migliaia di ricerche e studi pubblicati sul tema da studiosi indipendenti provenienti da tutto il mondo, più del 97% la considera acquisita, la percentuale è in crescita e sta scomparendo la minoranza che esprime ancora qualche forma di riserva (per quanto chiassosa ed enfatizzata come l’altro di due punti di vista, mediaticamente e psicologicamente obbligatori).
Il primo dei sei capitoli si sofferma, appunto, sulla descrizione scientifica del surriscaldamento globale, analizzando i dati che sono stati prodotti dal 1990 a oggi e che ci consentono di tracciare una linea di connessioni causali - spesso complesse - tra azioni individuali, emissioni di gas serra, ricadute sull’ambiente, effetti sugli esseri umani. Il secondo capitolo esamina le imprescindibili difficoltà o riottosità ad agire da parte di tutti gli agenti coinvolti, governi e multinazionali, come anche dei singoli. Rivolgersi agli individui per risolvere una crisi di tale portata può essere sconfortante e fallimentare. Abbiamo il dovere di sapere cosa sta accadendo e provare a risolvere il paradosso dei piccoli effetti, facendoci un pochino aiutare anche da culture antiche e visioni alternative. La narrazione è molto chiara, competente ed efficace; ogni tanto si riassumono dubbi e nessi nell’elegante incedere del ragionamento; forse qualche spunto ulterioresarebbe potuto arrivare da una prospettiva esplicitamente evoluzionistica e dalla filosofia della scienza.

Dai polizieschi alle energie fossili
Dal suo canto, la bravissima scrittrice francese Fred Vargas sa che molti preferiscono vederla sfoderare bei polizieschi di pura evasione, purtuttavia un’implacabile necessità l’ha incalzata a studiare per anni energie fossili e cambiamenti climatici e a scrivere ora il seguito del denso importante volume uscito qualche anno fa, quella volta una motivata indignata invettiva. Questa volta presenta una rassegna innovativa su aspetti inevitabili del futuro umano. L’esigenza è sorta dalla combinazione dell’indole da scienziata archeologa geologa con la constatazione che pochi si stanno occupando dei prossimi picchi di petrolio, gas e carbone.
Vargas ha nuovamente raccolto quanta più documentazione possibile e preso spunto dai rapporti della comunità scientifica internazionale, in particolare di quella nota come Giec nel suo paese, come Ipcc in quasi tutti gli altri paesi. Ribadisce che avrebbe di gran lunga preferito rassicurarci sulla continuazione, con metodi diversi da quelli di oggi, dei nostri stili di vita, ma dobbiamo avere il coraggio di affrontare la sconvolgente crisi economica causata dalla decrescita del petrolio (da cui i vari titoli e sottotitoli). Pur ragionando anche sui quattro scenari di riscaldamento globale da qui al 2100, elaborati e diffusi nel 2014 e aggiornati nel 2022, l’autrice affronta la tematica che condizionerà tutti gli scenari ed è stata finora secondo lei sottovalutata dagli specialisti, dagli scienziati di varie discipline e dai decisori politici: le conseguenze del certo, inevitabile, progressivo e relativamente rapido declino geologico del petrolio.
Lo scenario più moderato dell’Ipcc è stato già reso impossibile dall’inerzia dei governi nella riduzione delle emissioni dopo la Cop21 di Parigi del 2015; lo scenario più estremo non potrà verificarsi a prescindere, perché le emissioni si ridurranno comunque a causa della fine del petrolio prima del 2100; i due scenari intermedi sono entrambi possibili, ma il “fossile”, appunto, finirà e sarà quella la questione principale rispetto alla quale adattarsi, se ne saremo capaci, e l’autrice prova a offrirci utili consigli. Ne vien fuori un libro che non ci si sarebbe mai aspettati di leggere. Nel metodo e nel merito. La splendida, fiabesca e illuminosa Fred Vargas è molto nota (anche) nel nostro paese per romanzi polar, colti e ironici. Si tratta della storica archeozoologa Frédérique Audouin-Rouzeau (Parigi, 1957), dotatasi di uno pseudonimo (in comproprietà con la gemella pittrice), inizialmente solo per le scritture letterarie di fiction.
Incursioni non sempre condivisibili
Decenni addietro non sempre furono da molti di noi condivise le incursioni di Vargas sull’attualità politica (per esempio non fece bene in merito a Cesare Battisti in Francia). Per la seconda volta ora si occupa di scienza e di clima, da un punto di vista inconsueto e urticante, da archeologa colta ed economista diligente. Sottolinea subito la tendenza dei media a concentrarsi sulle catastrofi e sui temi che spaventano, semplicemente perché fanno vendere. Dal suo punto di vista, giustamente, la tendenziale fine “naturale” dei combustibili fossili non è una catastrofe e tenderà anzi a ridimensionare la stessa “catastroficità” (chiamiamola così) dei cambiamenti climatici antropici globali in corso: i rapporti Giec (ci vuole indulgenza internazionale nei confronti di una francese o di un francese, sono fatti così) non tengono in debito conto gli eventuali ostacoli di natura geologica o economica che potrebbero verificarsi nel corso di un secolo.
Pesano ovviamente molte incertezze fisico-biologiche e geo-politiche (ulteriori guerre militari e potenziali conflitti sociali restano sullo sfondo), tuttavia la progressiva diminuzione, prima delle riserve e poi della produttività o della finanziabilità, dei combustibili fossili sono un dato “futuro” abbastanza certo e ciò “imporrà” una decrescita delle emissioni e, in generale, delle produzioni industriali e dei consumi globali. Le risorse di idrocarburi non sono inesauribili, la loro quantità evolverà e determinerà svolte anche nell’alimentazione, nei trasporti, nella convivenza urbana e nell’insufficienza di alcuni beni materiali, una decrescita non scelta. Vero è che i picchi “definitivi” del petrolio sono stati già più volte annunciati e sono ancora materia di ricerca e discussione.
Vargas tenta e motiva una periodizzazione, indica proprio il 2025, poi il 2040 e il 2060-80 come momenti di scansione. La lunga escursione fra i siti di scienziati, governi, organismi multilaterali, imprese, associazioni è meticolosa e argomentata, strutturata in 15 capitoli e in un’appendice, ognuno con tanti paragrafi (titoli e sottotitoli esplicativi), e una quindicina di minute pagine di note bibliografiche finali. L’autrice ci dà del “voi” e con appassionato affetto suggerisce ogni tanto quando prendere fiato rispetto a cifre, tabelle, grafici, figure. Ovviamente, si parla più di mobilità che di migrazioni (un cenno ai migranti climatici). Secondo Vargas, i secoli dei trasporti veloci a lunga distanza stanno per giungere al termine, i veicoli elettrici non possono riguardare tutti i mezzi e non saranno comunque sufficienti. La prospettiva è materialmente radicale di qui al 2100 (massimo): cavalli e buoi per l’agricoltura (biologica, necessariamente) e il trasporto; niente più aereo o quasi; molto ridimensionati treni e navi (non a vela); rallentamento vertiginoso dei sistemi elettronici (pure per scarsità delle terre rare, sia come accesso che come trasportabilità); ineluttabile ritorno al passato nel rapporto tra vita di comunità e congestione urbana (perlopiù in bici). Spesso si fa riferimento alla Francia, come ecosistema meglio conosciuto ed esemplificazione specifica degli scenari, trattando i temi con fredda globale determinazione scientifica (anche il nucleare). Chi vivrà, vedrà.