SOCIETÀ

Il duro lavoro di tradurre Donald Trump

Viennot Bérengère è una traduttrice per la stampa da quasi vent’anni. L’8 novembre 2016 la sua vita, lavorativa in particolare ma non solo, cambia radicalmente: gli Stati Uniti eleggono come 45° presidente Donald Trump. La comfort zone che Barack Obama aveva creato con il suo mandato per i traduttori a livello mondiale crolla definitivamente e Viennot si trova catapultata in un universo linguistico parallelo.

“La lingua di Trump”, pubblicato da Einaudi, è un saggio che raccoglie le riflessioni di una traduttrice alle prese con il nuovo “linguaggio”, cioè quello di Trump. Bérengère riflette su come la comunicazione del presidente americano sia assolutamente unica: ogni capitolo analizza in modo semplice e diretto le strutture linguistiche, andando a cercare le reali motivazione del loro utilizzo. Partendo dalla base, cioè dalla sintassi e dai vocaboli, l’autrice inizia a salire vorticosamente verso l’alto, prendendo come oggetto di studio anche i contenuti dei discorsi di Trump. Ma andiamo con ordine.

Già dalle prime pagine, l’autrice spiega chiaramente il lavoro del traduttore: dare al fruitore una traduzione più fedele possibile. “Nel contesto della traduzione politica, quella che qui ci interessa, ci si sforza di restituire un discorso umano coerente che porti un messaggio destinato a essere trasmesso”. Per questo motivo, non è sufficiente tradurre in modo “meccanico”: c’è bisogno di conoscere nel modo più esaustivo il contesto, poiché il linguaggio di ogni interlocutore è composto da numerosi fattori di carattere culturale, inseriti in una cultura ben definita. Trump, in questo senso, rappresenta una vera e propria sfida. Già dall’inizio del suo mandato, i traduttori, abituati ai “discorsi fluidi e sintatticamente impeccabili” di Obama, si sono trovati davanti: un vocabolario povero in cui spesso vengono inseriti termini volgari, frasi brevi che ricalcano lo stile di Twitter (molto amato dal presidente) e contenuti che non conoscono il politically correct.

Perché Trump quindi ha avuto successo pur utilizzando un modo di comunicare al di fuori delle normali regole di vita sociale? La risposta può essere riassunta analizzando il suo profilo Twitter: il presidente americano parla con la pancia, utilizzando numerosi cliché e slogan, riferendosi solamente ai propri elettori. Una “valvola di sfogo”, come la definisce l’autrice, per dare voce al pensiero binario di Trump: c’è il bene e c’è il male, punto. La sua popolarità è legata quindi a un ragionamento semplice, tipico delle persone che non comprendono la complessità e le mille sfumature della politica, sentendosi presi in giro da questa: è lo “zoccolo duro d’America”, come lo definiscono i media, a cui si aggiunge tuttavia anche il settore industriale. 

Il lavoro di Bérengère si arricchisce anche con l’analisi del rapporto tra Trump e diversi argomenti: la stampa, Twitter, la scienza, l’umorismo, Melania e anche Dio. Questo vortice di pensieri ci porta alla convinzione che Donald Trump si sia creato un universo parallelo alla realtà, una sorta di circuito chiuso. Ogni evento, di qualsiasi natura, viene capovolto allo scopo di ottenere più consensi tra gli americani. Tuttavia questo non succede: l’atteggiamento e il linguaggio del presidente alimentano solamente gli elettori già fedeli alla sua linea politica

Perché interessarsi quindi alla “lingua” di Trump? “Se la lingua di Donald Trump rispecchia perfettamente il suo modo di pensare e la sua politica, - spiega l’autrice nel libro - venata di misoginia, di razzismo, di mancanza assoluta di empatia e di sfrenata ricerca del profitto, significa che è il prodotto del suo tempo e della sua società”. Il 45° presidente degli Stati Uniti non è dunque il problema ma il frutto ormai decadente della realtà americana. La storia oggi ci insegna che l’esaltazione del passato, il “Make America great again” di Trump, non è altro che una visione distorta ed errata, su cui bisogna metterci una croce sopra. È tempo ormai di svegliarsi dal sogno americano.

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