SOCIETÀ

La sospettosa incertezza internazionale

L’impressionante accelerazione impressa da Donald Trump nel ridisegnare gli Stati Uniti e il loro impatto sull’ordine mondiale, arrivando anche a rompere tabù di ordine morale, gettando al vento alleanze storiche e formandone di nuove e inaudite, stracciando le regole scritte e non scritte del diritto internazionale, sta creando un effetto a catena, con riflessi spesso drammatici, in ogni angolo del mondo. Basti pensare al drastico cambio di rotta sulla questione della guerra in Ucraina, culminato con la decisione di interrompere le forniture militari a Zelensky, punito così dopo il plateale e surreale diverbio alla Casa Bianca (lasciando il Cremlino a esultare), o al brutale smantellamento dell’USAID, l’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale (con il taglio di 60 miliardi di dollari in contratti di aiuti esteri, soprattutto umanitari: ma la Corte Suprema ha appena bloccato la disposizione del presidente), o ancora al ritiro degli Stati Uniti da principali tavoli di coordinamento internazionale contro il cambiamento climatico; per non parlare dell’imposizione dei dazi qua e là, scatenando una guerra commerciale globale dagli esiti ancora non del tutto chiari, e delle minacce più o meno reali di annessioni, dalla Groenlandia a Gaza. Va talmente veloce Donald Trump (e ogni volta lascia macerie dietro di sé) che viene da chiedersi: a chi toccherà la prossima mossa? Quale postura assumerà, tanto per fare un solo esempio, al cospetto della Cina, suo vero competitor anche sotto il profilo commerciale? Il New York Times ha fotografato così, pochi giorni fa, questa situazione di “sospettosa incertezza”: «I leader stranieri sono di fronte a un dilemma nel trattare con un presidente imprevedibile e non convenzionale come Trump, che sta apportando modifiche sostanziali ai termini commerciali con poco preavviso o preparazione. I cinesi non vogliono iniziare i colloqui formali perché non vogliono essere visti come supplichevoli, e sono cauti nell’offrire concessioni prima di aver compreso i parametri del dibattito».

La questione è complessa, perché riguarda da vicino anche le relazioni strategiche già esistenti tra Russia e Cina (c’è chi sostiene che la Russia sia diventata da tempo, soprattutto dopo l’invasione dell’Ucraina, una “colonia cinese”). Una partnership economica e militare che affonda le sue radici storiche nella ferma opposizione agli Stati Uniti e alle democrazie liberali, ma che ora, chissà, la ritrovata sintonia tra Trump e Putin potrebbe anche mettere in discussione. Di certo per la nuova amministrazione americana il pragmatismo prevale sull’ideologia. Quindi la domanda: cosa ne sarà di Taiwan nel più immediato futuro? Washington sarà ancora disposta a spendersi, anche militarmente, pur di salvare l’autonomia dell’isola dalle mire di riunificazione di Pechino? E con quale “guadagno”, visto che si tratta dell’unica lente utilizzata dall’amministrazione Trump per giudicare cosa conviene agli Stati Uniti e cosa no?

L’incognita della Cina

Alcune pubbliche prese di posizione possono aiutarci a comprendere meglio la situazione attuale. La prima risale allo scorso luglio, pochi giorni prima che Biden si ritirasse dalla corsa elettorale: «Taiwan - disse Trump - dovrebbe pagarci per la difesa che gli Stati Uniti stanno offrendo. Sai, non siamo poi così diversi da una compagnia di assicurazioni». La settimana successiva si era spinto a sostenere che l’isola "…aveva rubato il business dei chip agli Stati Uniti: non avremmo mai dovuto permettere che ciò accadesse». Avanti veloce: lunedì scorso, 3 marzo. Lo stesso presidente Trump annuncia che la Taiwan Semiconductor Manufacturing investirà 100 miliardi di dollari per rafforzare la produzione di chip negli Stati Uniti: il capitale sarà destinato alla costruzione di cinque nuovi impianti di fabbricazione in Arizona. «Una mossa straordinaria da parte della società più potente del mondo", ha commentato Trump, evidentemente soddisfatto per il “pagamento”. Sul fronte cinese invece i toni non cambiano, come la portata delle minacce. L’ultima in ordine di tempo è del portavoce del ministero della Difesa cinese, Wu Qian, al quale era stato chiesto di commentare la notizia della nuova esercitazione di difesa nazionale dell’esercito taiwanese, al quale aveva partecipato anche una delegazione statunitense: "È un grave errore di calcolo, estremamente pericoloso - ha dichiarato Wu -. Tentare di frenare la marea con una scopa finirà per portare solo l’autodistruzione. Verremo a prendervi, prima o po". Concetto ribadito poche ore fa dal premier cinese, Li Qiang: "La Cina avanzerà con fermezza per la riunificazione con Taiwan". Alla fine di febbraio l’equipaggio di una nave cargo cinese era stato fermato dalla Guardia Costiera di Taiwan perché sospettato di aver sabotato deliberatamente un cavo internet sottomarino.

Trump prosegue con il suo approccio solo all’apparenza volubile e capriccioso, sempre provocatorio, arrogante, eccessivo al punto da ribadire poche ore fa, di fronte al Congresso, di “aver bisogno” della Groenlandia e di voler piantare la bandiera americana su Marte (è un progetto possibile?). Al momento attuale non c’è dubbio che Taiwan resti uno dei dossier di rilievo per l’attuale amministrazione americana ma, a differenza del passato, quasi esclusivamente per questioni di convenienza (Trump ha appena dichiarato che un’invasione dell’isola da parte della Cina sarebbe “catastrofica”). Eppure questo crescente mercimonio della geopolitica (al bando le emozioni, gli ideali, la difesa dei diritti: sono solo affari) non lascia immaginare scenari immutabili, anzi. Lo scorso dicembre, dunque prima dell’insediamento del ciclone-Trump, il Council on Foreign Relations scriveva: "La crescente quasi-alleanza tra Cina e Russia rappresenta la più grande minaccia agli interessi nazionali vitali degli Stati Uniti in sessant’anni. I loro sforzi congiunti per minare le politiche e l’ordine internazionale degli Stati Uniti hanno fatto notevoli progressi nell’ultimo decennio e continueranno per il prossimo futuro. Contenere la Russia e dissuadere la Cina sono i compiti gemelli della politica statunitense di oggi". La mossa a sorpresa di Donald Trump sull’Ucraina, che ha scelto di dare pieno sostegno al dittatore russo (in cambio di cosa?), segna un clamoroso cambio di traiettoria nella politica estera degli Stati Uniti, così com’era stata concepita dal dopoguerra a oggi. La giornalista e scrittrice Anne Applebaum l’ha commentata così: «Il cambiamento impresso da Trump è radicale. Sta dicendo: non mi interessano più le alleanze, non mi interessano le vostre opinioni. Farò un patto con questo dittatore (Putin) sopra le vostre teste.

E questo è un messaggio che viene ascoltato non soltanto in ogni capitale europea, ma in ogni capitale alleata in tutto il pianeta come un segno che gli Stati Uniti stanno cambiando" Taiwan compresa. Filippine e Giappone compresi, perché questa nuova sintonia con il Cremlino potrebbe nascondere un messaggio assai concreto al leader cinese Xi Jinping: spartiamoci ciò che è meglio per ciascuno di noi. Ma in questo clima, chi può fidarsi di chi? Mentre si intensificano le pretese, del tutto unilaterali, della Cina sul mar Cinese meridionale, strategico per le loro linee di navigazione commerciale. Finora gli Stati Uniti avevano svolto il ruolo di argine: da qui in avanti è probabile che non sarà più così. Cina che, sia detto per inciso, ha appena approvato un aumento del 7,2% della sua spesa militare per il 2025, in linea con gli aumenti degli anni precedenti, al fine di “salvaguardare la sua sicurezza nazionale”.

Le risposte dell’Unione Europea

In questo quadro, spaventoso e preoccupante come mai, spicca l’assenza dell’Unione Europea che paga a carissimo prezzo decenni di divisioni, di particolarismi, di gelosie, di pigre tattiche perverse che l’hanno in gran parte svuotata di contenuti condivisi. Di fronte al brusco voltafaccia di Washington, che ha cancellato con imbarazzante semplicità un’alleanza decennale (con queste basi, che fine farà la Nato?) sono arrivate alcune risposte da Bruxelles. La prima riguarda il piano “ReArm Europe”, presentato dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen: un piano che potrebbe valere 800 miliardi di euro nei prossimi anni andando a far leva su prestiti finanziati da Eurobond, con l’esclusione delle spese per la Difesa dai conteggi del Patto di Stabilità e con la possibilità di dirottare fondi per la coesione verso gli armamenti. «Viviamo in tempi pericolosi - ha rimarcato von der Leyen -. Non c'è bisogno che io descriva la gravità delle minacce che ci troviamo ad affrontare. O le conseguenze devastanti che dovremo sopportare se queste minacce si avvereranno. La domanda non è più se la sicurezza dell'Europa sia minacciata in modo molto reale. O se l'Europa debba assumersi una maggiore responsabilità per la propria sicurezza. In verità, conosciamo da tempo le risposte a queste domande. La vera domanda che abbiamo di fronte è se l'Europa è pronta ad agire con la stessa decisione che la situazione impone». Ma non è, e non sarà, soltanto una questione di armi, di esercito comune (ammesso che mai si riesca a trovare un punto d’accordo tra i 27). C’è anche la questione commerciale, che probabilmente è la sfida più urgente e immediata che l’Unione Europea si trova a fronteggiare, di fronte alla minaccia dei dazi americani (gli Stati Uniti sono il principale partner dell’UE per l’esportazione di merci e il secondo per l’importazione). Per semplificare: qualora gli Stati Uniti applicassero dazi al 25% sui prodotti delle aziende europee, l’aumento di prezzo ne ridurrebbe la loro possibilità di vendita. Se poi l’UE decidesse di rispondere imponendo dazi sui prodotti statunitensi d’importazione, anche questi finirebbero per costare di più ai consumatori europei. Creando così ulteriori difficoltà alla crescita economica. Quindi diventa fondamentale aprire, e in fretta, altre “vie commerciali”. È in questo quadro che si colloca la trasferta dell’intera Commissione Europea in India, alla fine di febbraio, con l’obiettivo di concludere, entro la fine del 2025, i negoziati per “un accordo di libero scambio equilibrato, ambizioso e reciprocamente vantaggioso”. Ursula von der Leyen e il premier indiano Narendra Modi hanno sottolineato l’importanza di intensificare la cooperazione tra l’India e l’Europa sulla base «di valori e principi condivisi, tra cui la democrazia, lo Stato di diritto e l’ordine internazionale basato su regole», come hanno ribadito in un comunicato congiunto.

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