CULTURA

Nomadi e stanziali sono stati per millenni due facce della stessa medaglia

Il termine italiano “nomadismo” deriva etimologicamente da varie ascendenze in lingue indoeuropee. In greco si riferiva precisamente alla pastorizia, ai pastori e al pascolo. In arabo “bedu” è beduino, nomade, pastore. Il termine italiano “migrazione” ha altre ascendenze. La radice del migrare affonda nell’andare oltre. Donne e uomini sulla Terra stanno in luoghi diversi, cercano apporto alimentare, talora imparano a trovarlo seguendo gli animali o errando, errano per sopravvivere e riprodursi, talora migrano. Il nomadismo dei raccoglitori cacciatori fa riferimento alla ricerca di alimenti di piccoli gruppi o bande in spazi limitati, più che al cambio di biodiversità (e clima). Gruppi della specie talora migrano di conseguenza, si orientano al nomadismo prima per raccogliere vegetali (e acqua), poi per seguire e cacciare erbivori migratori, via via più consapevoli e orgogliosi di essere liberi di muoversi e di cacciare. Il cacciatore del Paleolitico è più errante che nomade. E il nomadismo è una dinamica evolutiva delle specie umane, soprattutto dei sapiens, identitaria con il Neolitico.

Si tratta di vero e proprio nomadismo pastorale quando è organizzato in funzione del capitale animale, prima prevalentemente sulla base delle attività e dei comportamenti degli animali, poi orientato dagli umani. Il nomadismo dei raccoglitori cacciatori prepara, sperimenta, articola, diversifica l’agricoltura e l’allevamento. I nomadi sono costretti ad adattarsi a maggiori variazioni del clima, dei biomi, della biodiversità. Non tutta la specie umana era nomade prima del Neolitico, cioè consapevolmente coerentemente efficacemente dotata di una tecnica relazionale con luoghi più o meno ampi, con l’ambiente, con il clima, con l’acqua, con la terra. Il nomadismo poteva essere una tecnica di sopravvivenza, talora forzato, occasionale, regressivo. Riguardava alcuni gruppi, in alcuni continenti, in alcuni periodi. Risulta diventare un’identità sociale riconoscibile e consapevole solo lentamente. Migrare era una sequenza progressiva di risposte adattative, una strategia evolutiva di sopravvivenza ed adattamento, all’interno della quale vi poteva anche essere, da un certo momento in poi, l’attività pastorale nomade.

Fra i suggerimenti di lettura della nostra redazione per le recenti festività a cavallo fra il 2023 e il 2024, è stato autorevolmente indicato anche un bellissimo interessante saggio di Anthony Sattin, Nomadi. I popoli in cammino che hanno plasmato le nostre civiltà, Neri Pozza Vicenza 2023 (orig. 2022), pag. 425. Opportunamente, l’autore concentra l’attenzione sui millenni del Neolitico, pur non approfondendo la discussione sull’utilizzo del termine e l’esistenza del fenomeno durante i precedenti lunghissimi articolati milioni di anni del Paleolitico.  L’ipotesi è chiara e convincente: per la maggior parte degli ultimi dieci mila anni il rapporto tra popolazioni nomadi e popolazioni sedentarie è stato complementare e interdipendente, fortune e crisi intrecciate. Tuttavia noi sedentari ricostruiamo storie e geografie a nostra immagine e somiglianza, meglio esserne consapevoli; ancor meglio risulta studiare e cercare di comprendere come e perché tanti gruppi di sapiens siano sempre restati in movimento anche alla fine dell’ultimo periodo glaciale, preferendo leggerezza di strutture e continui equilibrati adattamenti con gli ecosistemi circostanti.

Una volta eravamo tutti cacciatori e tutti raccoglitori: i primi a smettere di fare l’una e l’altra cosa risalgono a non più di dodicimila anni fa. Il che non significa che prima eravamo tutti nomadi, piuttosto erranti. Sattin ritorna utilmente sull’etimologia: alle radici del termine indoeuropeo nomos vi è il “pascolo”, uno specifico modo di “cacciare”. Poi il termine nomas indicò qualcuno errante in cerca di pascoli. Le tribù pastorali erranti erano sia nomadi che stanziali, una parallela evoluzione si collegò ai cambiamenti climatici strutturali (che resero possibili allevamento e agricoltura) o frequenti (più o meno ciclici o stagionali). Dopo la costruzione dei primi agglomerati urbani e l’insediamento “residenziale” di un gran numero di persone, il termine “nomade” prese a essere utilizzato per indicare genti che vivono senza mura, ossia ai margini dei centri abitati. Oggi noi sedentari lo usiamo in due modi molto diversi, spiega l’autore: con un senso di nostalgia romantica e vagabonda, da una parte; come un carattere di sbandati senza fissa dimora, “sconosciuti” dall’altra parte.

Dodicimila anni fa la maggior parte dei (forse) cinque milioni di sapiens viventi erano nomadi, per millenni comunità, popoli e imperi di nomadi sono restati ampi e potenti, ma hanno lasciato meno testimonianze scritte o “fisse”, poco leggibili con le lenti dei sedentari. Eppure… Il giornalista, storico, conduttore televisivo e scrittore di viaggi Anthony Sattin (1956) rilegge in modo appassionante la preistoria e la storia dal punto di vista dei gruppi umani in movimento, dai trionfi passati che hanno sempre e comunque plasmato le nostre civiltà, alla riduzione progressiva di numero e a una sorta di demonizzazione attuale dei “nomadi”. La prima parte del volume riguarda i tanti primi millenni del Neolitico in cui le popolazioni stanziali e quelle nomadi (che comunque entrambe scolpivano ed erigevano monumenti, avevano culti e celebravano i luoghi dei morti, tramandavano storie) per lo più convivevano e collaboravano, poiché l’umanità passò certo per gradi dalla caccia e dalla raccolta dei “frutti” della terra (talora poi da far fermentare con un secondo lavoro, l’autore accenna frequentemente a farina, birra e vino) all’agricoltura e alla pastorizia.

La vicenda umana sulla Terra non è solo quella di noi sapiens, ogni specie è intrisa dei complessivi ecosistemi biologici, ovvero di geografia e storia (geografia base della storia, storia geografia in movimento, e via citando), entrambe in evoluzione, anche per ogni specie del genere Homo, anche per noi. Rispetto all’Eurasia degli ultimi diecimila anni, Sattin sottolinea il ruolo delle steppe: i nomadi che se ne sono allontanati maggiormente ne sono stati comunque plasmati e hanno dato forma al nostro mondo in una maniera assai più profonda rispetto ai nomadi di altri luoghi: un corridoio erboso copre novemila chilometri e collega il Mediterraneo al mar Giallo, l’Est all’Ovest, con una catena non insormontabile di altipiani (monti Altai) e la mitica valle di Fergana (cuore spirituale del nomadismo asiatico) che separano un poco la parte occidentale più bassa e la parte orientale più aspra. Molto si deve soprattutto alla domesticazione dei cavalli lì avvenuta. Ovviamente, non esisteva una singola strada o una grande via che attraversasse l’Eurasia antica: merci e materie prime sono state vendute e trasportate attraverso un dedalo di percorsi e contatti.

I luoghi sacri e le sepolture impegnative furono costruiti sia da popoli sedentari che da popoli non sedentari, talvolta come stratificazioni diacroniche negli stessi luoghi. La stessa agricoltura fu promossa (in più punti del pianeta, non negli stessi millenni) da gruppi di sapiens che evidentemente non erano ancora sedentari e che avrebbero “imparato” solo in modo lento e complicato a risiedere tanti decenni nello stesso ecosistema localizzato, a gestire in loco cambiamenti climatici e incremento demografico. I nomadi continuarono comunque a trasmettere proprie idee e costumi, a sperimentare sofisticate strutture sociali e politiche, a intrecciarle con chi si stanziava, a mantenere una maggiore facilità di fuga e migrazione, a “migrare” quindi nel senso originario del termine (andare oltre, scegliere percorsi nuovi). Sattin sottolinea come fra gli Egizi la sfida è ruotata a lungo (millenni) proprio intorno al modo di mantenere l’equilibrio fra i due caratteri identitari: coltivatore e mandriano, stanziale e nomade. Un precario equilibrio fatto anche di mura e conflitti.

Negli ultimi tre millenni i popoli nomadi in Asia hanno costruito enormi imperi, dei quali sono comunque restare alcune tracce e testimonianze: gli Hyksos in Egitto, i Sarmati, i Medi e i Persiani, gli Xiongnu in Mongolia e Manciuria, gli Sciti oltre il mar Nero e il mar Caspio, i Sogdiani in Uzbekistan e i Battriani in Afghanistan. Vanno poi ricordati i Mongoli da Gengis Khan a Tamerlano, gli Arabi, la dinastia Yuan, gli Ottomani, i curdi, i Moghul in India, i Safavidi in Persia, gli Zungari in Mongolia, gli Unni e Attila (a lui sono dedicate parole serie, fuori dalla leggenda, con le quali si chiude la prima parte). Fra l’altro, per secoli i mercati collocati tra i due poli sedentari costituiti dagli imperi cinese e romano avevano contribuito a mantenere un ordine nel mondo, anche in quello dei nomadi, che vi svolgevano un ruolo centrale di connessione migratoria. Sattin vi fa continuo riferimento, in capitoli che prendono spunto da un ritrovamento archeologico o da un evento storico, evitando con sagacia troppe analogie e comparazioni, incrociando spesso studi ed esperienze personali, visto che molto ha viaggiato in alcune di quelle aree e maturato lunghe recenti soste accanto a popolazioni ancora nomadi.

La seconda parte del volume riguarda un millennio circa, quello successivo alla caduta dell’Impero romano (più o meno dopo Attila, appunto), descrive l’ascesa e la caduta dei grandi imperi creati da sapiens che rifiutavano un solo luogo in cui risiedere: Unni, Arabi, Mongoli, dinastia Yuan. L’insieme dei “nomadi” ha poi molto contribuito al Rinascimento europeo con una rilevante capacità di influenza permanente sul mondo degli Stati in formazione di noi sedentari. La terza parte si apre con l’inizio dell’era moderna, con gli studiosi dell’Occidente a insistere sul fatto che i bianchi dovessero padroneggiare il mondo naturale e dominare tutto il mondo abitato. In questo periodo, segnato dalla competizione e dalla rivalità, i nomadi scompaiono del tutto dall’immaginario europeo ma la globalizzazione mercantile non può cancellarli dalle realtà culturali e commerciali interconnesse. La leggerezza dei nomadi, il modo in cui si sono adattati a essere agili nel pensiero e flessibili nell’azione, nonché l’equilibrio che hanno mantenuto con il mondo naturale possono darci ancora conoscenze e indicazioni fertili.

Se il Paleolitico vede continue migrazioni ovunque (e di quasi tutte le specie) ma conosce precaria e breve stanzialità umana, il Neolitico evolve in una storia parallela e interconnessa di stanziali e nomadi con una conseguente trasformazione del fenomeno migratorio in emigrazioni e immigrazioni, invasioni e conquiste. Da una parte le tribù e i popoli nomadi inseriscono nelle loro mappe o itinerari migratori i luoghi fissi e spesso “murati” degli stanziali, anche per evitare o scambiare o razziare i loro prodotti derivanti da agricoltura e allevamento residenziali; dall’altra parte le comunità e i popoli stanziali circoscrivono un proprio territorio (più o meno ampio) di appartenenza e però continuano a migrare “oltre”, sia inviando o subendo emigranti, accogliendo o introducendo immigrati, sia avendo bisogno di ampliare l’areale stanziale (per la crescita demografica) o di “esplorare” altre stanzialità, nell’interesse dei singoli individui (sempre più “specialisti” di qualcosa) o dell’intera comunità.

Il nomadismo è, insomma, una modalità di vita e un’arte manifatturiera affinatisi attraverso centinaia di generazioni, riferibili soprattutto a dopo la residenzialità maggioritaria del Neolitico (quando acquista caratteri storici e culturali tipici). Il nomade in linea di massima sa dove bisogna andare, cosa si deve portare e ci si può aspettare, come sopravvivere e adattarsi e riprodursi, perché possa risultare vantaggioso sostare un poco o quando ripartire (in quale stagione o clima). Fuggire non è essere nomadi, e molto nel Paleolitico si è dovuto fuggire da cambiamenti climatici o da altri animali predatori. Incuriosirsi del mondo oltre lo sguardo non è essere nomadi, e molto nel Paleolitico si è scoperto camminando e vagando, alla ricerca pure di altro (meno noto) cibo o riparo o benessere. Emigrare e immigrare, tecnicamente, presuppongono stanzialità, eppure ci si spostava in “altri” luoghi anche nel Paleolitico, senza essere necessariamente nomadi, fra grotte e ripari, oppure un poco più lontano da ghiacci e deserti, oltre che per le cento altre dinamiche del vivere e comunicare in gruppi.

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