CULTURA

Un nuovo capitalismo è possibile?

Il titolo del libro è ambizioso tanto quanto la sfida che si propone di affrontare. Ripensare il capitalismocurato dagli economisti Marianna Mazzucato e Michael Jacobs, ha il coraggio di prendere il toro per le corna e di provare ad indicare alcune soluzioni per superare la fase non proprio brillante che sta attraverso il capitalismo a livello internazionale. 

I problemi sono noti: una ripresa dalla grande crisi del 2008 che è ancora anemica e instabile, una forte crescita delle diseguaglianze sociali e un potere di acquisto statico quando non in declino, la spada di Damocle della sostenibilità ambientale che incombe sopra le nostre teste. Secondo Mazzucato e Jacobs, la ricetta liberista che finora è stata messa in campo per affrontare questi problemi si è rivelata inefficace quando non sbagliata. La combinazione di austerità nei conti pubblici, riduzione del peso dello stato nell’economia, abbassamento della pressione fiscale e uso distorsivo delle stock optioncome incentivo per i manager sta peggiorando, secondo i due autori, la situazione. Invece di essere una soluzione sono parte del problema: difetti strutturali che devono essere corretti.

Per formulare una proposta coerente, Mazzucato e Jacobs, hanno raccolto nel libro importanti contributi di brillanti economisti compreso il premio Nobel Stiglitz. Dalla lettura del diversi contributi è possibile trarre molte indicazioni che provo qui a sintetizzare nei passaggi principali. Il primo aspetto riguarda un nuovo protagonismo dello stato e della politica economica. Il punto centrale di questa riflessione proviene dalla stessa Mazzucato che in un suo libro precedente, Lo stato innovatorerichiama l’importanza dello stato nella promozione dell’innovazione e in ultima analisi nella crescita economica. Secondo questa lettura, lo stato gioca un ruolo chiave nella ricerca di base e nell’investimento attraverso capitali pazienti(che non devono rispondere delle fluttuazioni della borsa) in tecnologie complesse. La retorica sull’innovazione ci ha abituato a considerare imprescindibile il ruolo svolto dalle start-up e dai venture capital, ma si tratta, secondo Mazzucato di un errore di prospettiva. Senza il contributo degli investimenti dello stato molte delle tecnologie che ad esempio oggi troviamo nell’iPhone non sarebbero disponibili. Il Gps, le interfacce touche in fondo anche ad Internet stesso, sono il risultato di progetti voluti e finanziati dallo stato. Progetti  che hanno richiesto molti anni prima di poter arrivare a delle soluzioni tecnologiche stabili. E la Silicon Valley allora? È ancora molto importante perché naturalmente contribuisce all’innovazione e gioca un ruolo cruciale per la commercializzazione dei nuovi prodotti, ruolo nel quale lo stato è particolarmente inefficiente. Ma il punto rimane: senza un humus tecnologico adeguatamente preparato attraverso investimenti statali (e quindi del contribuente), le radici delle start-up californiane non avrebbero la possibilità di attecchire. Senza un buon terreno non sono possibili buoni frutti. 

Se questo è vero, l’austerità diventa un difetto più che una virtù. Lo stato deve tornare a spendere, non naturalmente in spesa corrente, ma facendo investimenti di lungo periodo e finanziando la ricerca nelle grandi frontiere tecnologiche. Lo sviluppo di queste tecnologie ha delle ricadute dirette e indirette nello sviluppo economico favorendo a cascata la nascita di nuove idee e di nuove imprese. In Europa abbiamo un esempio virtuoso a cui ispirarci: il Cern di Ginevra che, oltre ad aver contribuito alla ricerca scientifica con fondamentali scoperte nell’ambito della fisica delle particelle, ha anche inciso fortemente sulla nostra vita quotidiana attraverso l’invenzione del Web che ha reso internet facilmente navigabile dagli utenti. La presenza dello stato è quindi fondamentale perché, rispetto ai privati ha la possibilità di investire capitali che non hanno bisogno di un ritorno immediato e che possono sopportare un rischio più elevato, almeno in una fase iniziale. Proprio questi investimenti iniziali su frontiere tecnologiche complesse hanno poi la caratteristica di attrarre successivamente anche risorse private che quindi contribuiscono a moltiplicare gli effetti positivi in termini di ricadute e diffusione commerciale. 

Naturalmente per effettuare investimenti di questa entità servono risorse che vanno recuperate con la tassazione. Invece di abbassare le tasse, secondo quando dicono gli autori e in particolare Stiglitz, queste andrebbero rimodulate e rese più eque(no flat taxper favorire il lavoro e gli investimenti in capitale umano (formazione) che sono necessari per ridurre le diseguaglianzee fornire alle imprese quelle competenze che sono fondamentali per la loro competitività.

Il libro in sostanza richiama la Politica ad un ruolo decisamente più proattivo e meno remissivo. Una Politica che deve tornare a dare quella visione sul futuro che è necessaria per incentivare comportamenti virtuosi negli agenti economici. In fin dei conti se siamo andati sulla Luna è perché Il presidente Kennedy aveva deciso che questo era un obiettivo fondamentale per gli Stati Uniti per tenere testa (e dimostrare poi la propria superiorità) al programma spaziale dell’allora Unione Sovietica. 

Prendendo per buone le proposte di Mazzucato e Jacobs, viene da chiedersi in che modo potremmo applicarle alla realtà Italiana. Il nostro paese si trova attualmente in una delicata fase economica e finanziaria caratterizzata da un elevato debito pubblico e da una forte pressione fiscale. In queste condizioni è difficile pensare di poter rilanciare una grande campagna di investimenti pubblici sulle grandi frontiere tecnologiche: non abbiamo più fieno in cascina e le tasse hanno raggiunto il limite di guardia. È evidente che se vogliamo dare seguito a quanto indicato da Mazzucato e Jacobs, dobbiamo ragionare quantomeno a livello europeo e convincere i nostri partner a mettere in campo un nuovo programma di investimenti pubblici. Da soli non andiamo da nessuna parte.

È però una strada in salita perché, a parte la diffidenza - direi culturale - che questo tipo di iniziative suscita in Nord Europa, molti paesi europei si trovano in una situazione che potremo definire opposta alla nostra sul piano economico-finanziario. Hanno debiti pubblici contenuti e hanno la possibilità di poter fare questi investimenti in modo unilaterale, senza avere la necessità di un consenso europeo. Inoltre, programmi di questo genere hanno il difetto di avere risultati differiti nel tempo e difficilmente anticipabili. Se vogliamo quindi trovare un terreno comune dobbiamo necessariamente fare un salto di qualità nelle proposte che portiamo al tavolo delle trattative

Dove cominciare? Un esempio concreto sul quale potremmo convincere i nostri interlocutori riguarda l’industria 4.0 e il ruolo che le ICT avranno nella manifattura del futuro. Da questo punto di vista, un terreno sul quale l’Europa deve recuperare rispetto a Cina e Stati Uniti riguarda l’intelligenza artificiale. Qualcosa si sta muovendo ma non è ancora sufficiente per tenere il passo dei nostri competitor. Perché l’Italia (che vanta un’ottima qualità nella ricerca anche in questo campo) non si fa protagonista di un’iniziativa in questo senso? Sì, serve la Politica.

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