SOCIETÀ

La Groenlandia svolta a destra, ma senza cadere tra le braccia di Trump

Donald Trump l’aveva promesso, rivolgendosi direttamente agli elettori: “Vi terremo al sicuro. Vi renderemo ricchi. E insieme porteremo la Groenlandia a vette che non avreste mai pensato possibili prima”. L’annessione dell’isola artica è una priorità per il presidente americano (“per garantire la sicurezza internazionale”), la pretende senza rinunciare alle minacce più o meno velate, senza escludere l’uso della forza (“Ci riusciremo, in un modo o nell’altro”). Un po’ come la Cina con Taiwan. Ma c’era, e ancora c’è, un problema di mezzo: la volontà dei groenlandesi. Che ieri, chiamati alle urne, hanno scelto di mandare gambe all’aria i partiti di centrosinistra che fin qui avevano governato (Inuit Ataqatigiit e Siumut), premiando le opposizioni di centrodestra: il partito Demokraatit, liberale, moderato, che ha triplicato i consensi arrivando a sfiorare il 30%, e i nazional-populisti di Naleraq, cresciuti fino al 24%, che se fosse per loro si getterebbero domani tra le braccia del presidente americano. Elezioni peraltro segnate da una fortissima affluenza, con la chiusura dei seggi prolungati di mezz’ora per consentire a chi era in coda di esprimere il proprio voto, il che la dice lunga sulla percezione della posta in gioco. Clamorosamente smentiti i (pochi) sondaggi che non avevano minimamente previsto questa rivoluzione. E probabilmente ora bisognerà dubitare anche di quel sondaggio che, alla fine di gennaio, sosteneva che l’85% dei groenlandesi era contrario all’annessione americana.

Autonomia, ma a quale prezzo?

Riparte dunque da qui la strada che definirà il futuro della più grande isola del mondo (misura oltre 2 milioni di chilometri quadrati), piazzata a cavallo del Circolo Polare Artico, all’estremo nord dell’oceano Atlantico: uno dei luoghi meno abitati della Terra, con oltre l’80% della sua superficie coperta dai ghiacci (ma il riscaldamento globale rischia di modificare assai rapidamente la sua conformazione) e appena 57mila abitanti, 41mila votanti, la maggior parte dei quali indigeni Inuit. Tutto ruota attorno alla questione dell’indipendenza: l’isola appartiene formalmente alla Danimarca (anche se, geograficamente, è assai più vicina a Washington che a Copenaghen), che la controlla da oltre tre secoli, ma che a partire dal 1979 ha concesso all’isola un ampio autogoverno (è una “regione autonoma”, a eccezione della politica estera e della difesa). Oggi l’economia della Groenlandia dipende in gran parte dall’industria della pesca (oltre il 90% viene esportato) e dal sostegno finanziario danese, che invia sovvenzioni per 4,3 miliardi di corone danesi all’anno, pari a circa 580 milioni di euro all’anno. Indipendenza vorrebbe dire rinunciare a quei fondi, che rappresentano più della metà del bilancio complessivo della Groenlandia, indispensabili per finanziare, e dunque rendere gratuite come sono attualmente, l’assistenza sanitaria e l’istruzione. È vero che l’isola è ricca di giacimenti petroliferi e di gas naturale non ancora sfruttati (come ha accertato l’agenzia federale americana US Geological Survey), oltre a diversi elementi delle terre rare (ittrio, scandio, neodimio, disprosio), necessari per la produzione di molti beni tecnologici (smartphone, computer, batterie, turbine eoliche) e fondamentali per l’hardware dell’intelligenza artificiale; ma è anche vero che le estrazioni, in condizioni così estreme, hanno un costo molto alto. E bisogna inoltre tener conto che i groenlandesi hanno emanato regole severe per la protezione dell’ambiente: aziende disposte a devastare il territorio pur di estrarre ricchezza non sono mai state ben viste dalla popolazione locale (almeno finora). È per questo che, pur avendo ottenuto nel 2009 il diritto di dichiarare la piena indipendenza attraverso un referendum, la Groenlandia ancora non lo ha fatto: soprattutto per il timore che un distacco dal sostegno economico della Danimarca possa far diminuire il tenore di vita degli abitanti.

A Donald Trump e ai suoi sodali i soldi non mancano: è quindi probabile che le rassicurazioni, in termini economici, e addirittura le elargizioni aumenteranno di molto nelle prossime ore, proprio per spingere i partiti usciti vincitori dalle elezioni a intraprendere quanto prima la via del referendum sull’indipendenza, anche per sfruttare la scia emotiva. In attesa di avere il conteggio definitivo dei voti (a causa della complessa geografia dell’isola molte schede elettorali vengono “spedite” a Nuuk, la capitale, attraverso barche, aerei ed elicotteri) si possono però disegnare alcuni scenari. Se davvero i partiti Demokraatit e Naleraq avranno conquistato la maggioranza dei voti, e dunque potranno contare su un numero di seggi sufficienti per controllare l’Inatsisartut, il Parlamento monocamerale di appena 31 seggi, con sede a Nuuk, il prossimo passo sarà proprio la definizione di una data per indire il referendum. Bisognerà però trovare una linea di compromesso che a oggi non sembra così nitida: posto che quasi tutti i partiti sono favorevoli all’indipendenza (tranne uno, Atassut, che ha preso il 7% dei voti), i Demokraatit sono profondamente cauti sui tempi per raggiungerla: “Gli elettori vogliono un cambiamento, ma noi vogliamo uno sviluppo economico per finanziare il nostro welfare”, ha ribadito il leader dei Demokraatit, Jens-Frederik Nielsen, ex ministro dell’industria e dei minerali. “Non vogliamo l’indipendenza domani, bisogna prima costruire delle buone fondamenta”. Per inciso: Nielsen aveva espresso preoccupazioni per l’interesse americano per la Groenlandia, definendola “una minaccia alla nostra indipendenza politica: dobbiamo difenderci. E non siamo in vendita”. Al contrario, i populisti di Naleraq sono per il tutto e subito, senza indugi. “Possiamo farlo nello stesso modo in cui siamo usciti dalla Comunità Economica Europea nel 1985 (dopo il referendum vinto nel 1982 con il 53% dei voti)”, ha commentato il leader di Naleraq, Pele Broberg. “Allora ci sono voluti tre anni. Anche la Brexit è durata tre anni. Perché dovremmo impiegare più tempo? Presto la Groenlandia sarà in grado di stare in piedi da sola”. Prima del voto lo stesso Broberg aveva riconosciuto: “Bisogna ammettere che Trump ha fatto molto bene al movimento per l’indipendenza”.

Il rebus delle alleanze

La partita è delicata: perché è vero che sulla definizione dell’autodeterminazione si giocherà la costruzione della prossima coalizione di governo. Ma è altrettanto vero che, sul punto, una sintonia più naturale si potrebbe trovare tra i Demokraatit (ai quali comunque spetterà la conduzione dei colloqui per la formazione del nuovo governo) e gli ambientalisti di sinistra di Inuit Ataqatigiit, il partito del premier uscente Mute Egede, che dal 36% del 2021 sono scesi al 20%. Oppure con i socialdemocratici di Siumut (fermi al 14%), che propongono sì un referendum, ma non prima di quattro anni. Tutto dipenderà dai numeri reali che usciranno a conclusione dello spoglio dei voti. Ma è evidente che la Casa Bianca aumenterà il “pressing” nei prossimi mesi. Anche perché non è la prima volta che Trump cerca di allungare le mani sull’isola artica: ci aveva già provato nel 2019, all’epoca del suo primo mandato, bruscamente respinto dall’allora premier danese Mette Frederiksen. Ma per gli Stati Uniti la Groenlandia è storicamente un avamposto di sicurezza: dopo l’invasione della Germania nazista della Danimarca, nel 1940, gli americani stabilirono sull’isola basi militari, una delle quali, la base spaziale Pituffik (ex Thule Air Base), sulla sua costa nord-occidentale, è ancora gestita dagli Stati Uniti in base a un accordo di difesa siglato nel 1951 con la Danimarca. La base, che ha principalmente la funzione di contrastare le attività russe nell’Artico, attualmente supporta missioni di allerta missilistica, di difesa missilistica e di sorveglianza spaziale. Ci lavorano circa 650 persone, tra membri della Space Force statunitense, dell’aeronautica e diversi civili canadesi, danesi e groenlandesi.

È evidente che per gli Stati Uniti l’indipendenza della Groenlandia sarebbe un primo, fondamentale passo per tentare di ottenere l’annessione dell’isola. Ma la strada è ancora lunga da percorrere. Secondo Dwayne Ryan Menezes, direttore del centro studi britannico Polar Research and Policy Initiative, interpellato dalla Cnn, “…il successo di Demokraatit e Naleraq indica che molti in Groenlandia possono puntare all’indipendenza, ma si preoccupano altrettanto di questioni sociali come l’assistenza sanitaria, l’assistenza all'infanzia, l’istruzione e l’occupazione”. Quindi attenzione alle letture troppo frettolose: è vero che i “sovranisti” di Naleraq (possiamo definirli i principali alleati di Trump) possono ora contare su un quarto dei seggi in Parlamento: ma è altrettanto vero che un’ampia maggioranza di elettori ha scelto invece la prudenza, la cautela. Oltretutto è singolare che un personaggio come Donald Trump, che è stato capace in meno di due mesi dal suo insediamento di ridimensionare le agenzie scientifiche federali (dalla National Science Foundation al National Institutes of Health, dai Centers for Disease Control and Prevention, fino alla Food and Drug Administration), ritirando gli Stati Uniti dalle strategie climatiche globali, voglia mettere le mani su uno dei territori più delicati e più minacciati dal cambiamento climatico. La National Oceanic and Atmospheric Administration, nel suo controllo annuale dello stato di salute dell’Artico, pubblicato lo scorso dicembre, ha tracciato un quadro cupo di “una regione che negli ultimi due decenni ha mostrato un rapido declino, mentre gli esseri umani continuano a bruciare combustibili fossili”. “L’Artico - si legge nel rapporto - continua a riscaldarsi più velocemente del globo in generale e nel 2024, per l’11° anno consecutivo, le anomalie di temperatura sono state superiori alla media globale”. Il riscaldamento del permafrost, il rischio d’innalzamento dei mari conseguenza dello scioglimento dei ghiacciai: per alcune piante e animali questi cambiamenti potrebbero rivelarsi devastanti.

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