SCIENZA E RICERCA

Alla ricerca dei quasar perduti

Il collasso gravitazionale di stelle gigantesche che hanno popolato le epoche più remote della storia cosmica potrebbe aver dato luogo alla formazione dei primi buchi neri supermassivi. Per provare questa ipotesi, un gruppo di ricercatori guidati da Marco Surace dell’Università di Portsmouth ha realizzato una serie di modelli per simulare le cosiddette stelle supermassive primordiali. Uno degli obiettivi è calcolare gli spettri teorici di questi oggetti che i telescopi spaziali, come James Webb Space Telescope (JWST), Euclid e Wide Field Infrared Survey Telescope (WFIRST) saranno in grado di rivelare. I risultati di questo studio sono pubblicati su Astrophysical Journal Letters.

Uno dei problemi irrisolti dell'astrofisica riguarda la formazione dei primi quasar. Secondo gli attuali modelli evolutivi, questi oggetti avrebbero avuto meno di un miliardo di anni prima di raggiungere circa un miliardo di masse solari. La domanda è: che cosa alimenta questi mostri del cielo al punto tale da crescere fino a raggiungere dimensioni così estreme?

 

Secondo una teoria, i primi quasar sarebbero il prodotto del collasso gravitazionale di stelle gigantesche, dette stelle supermassive primordiali, che sono ben diverse dalle stelle ordinarie di popolazione III, cioè la prima generazione di stelle prodotte dal gas povero di metalli presente nell’universo primordiale.

“Si pensa che le prime stelle si siano formate circa 100-200 milioni di anni dopo il Big Bang nell’ambito di piccole strutture pre-galattiche che chiamiamo aloni cosmologici”, spiega a Il Bo Live Marco Surace, ex studente di fisica all’università di Padova e primo autore dello studio.

“Sappiamo ancora poco sulle stelle primordiali (o stelle di popolazione III) ma si ritiene che siano massive, con valori che vanno da decine a centinaia di masse solari”, continua Surace. “In certe condizioni, gli aloni cosmologici possono superare di gran lunga la massa delle stelle di popolazione III, raggiungendo valori pari a decine fino a centinaia di migliaia di masse solari”.   

I modelli evolutivi indicano che gli aloni seguono successivamente una fase di raffreddamento e catastrofico collasso gravitazionale di breve durata, secondo un processo che genera stelle di grandi dimensioni, e in rapido accrescimento, rispetto a quelle tipiche di popolazione III.

 

Tuttavia, le stelle massive primordiali potrebbero subire alcune instabilità gravitazionali e collassare direttamente in buchi neri, diventando così quei “siti cosmici” in cui si sarebbero formati i primi quasar. Ma come facciamo a provare tutto questo?

Il primo passo è quello di trovare l’evidenza osservativa dell’esistenza delle stelle supermassive primordiali. Secondo i modelli evolutivi, questi oggetti dovrebbero passare attraverso la fase di stelle ipergiganti rosse e fredde, circondate eventualmente da densi inviluppi di gas. Ma allora, come facciamo a individuarle? Abbiamo la possibilità di identificarle con le nuove tecnologie o rimarranno per sempre elusive?

Gli autori trovano che gli inviluppi di gas potrebbero rivelarsi utili. In altre parole, anzichè oscurare le stelle, il gas potrebbe incrementare la luminosità delle stelle processando ulteriormente la radiazione a lunghezze d’onda corte, cioè sottoforma di fotoni osservabili nel vicino-infrarosso.  

“Le nostre simulazioni numeriche suggeriscono che le stelle supermassive primordiali potrebbero essere rivelate dai telescopi spaziali di nuova generazione, come JWST o l’European Extremely Large Telescope (E-ELT) e potrebbero essere addirittura visibili da Euclid e WFIRST nel caso fortuito in cui siano soggette al fenomeno della lente gravitazionale”, dice Surace.

Insomma, si tratta di risultati preliminari alquanto promettenti che lasciano agli astronomi qualche speranza nell’affrontare, e possibilmente risolvere, uno dei problemi della cosmologia moderna. “Se le troviamo, potremmo validare il modello sulla formazione diretta dei buchi neri che alimentano i quasar primordiali”, conclude Surace.

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