Nel 1967 venne pubblicato Lettera a una professoressa, il testo più famoso di don Lorenzo Milani, che sarebbe diventato uno dei simboli delle proteste studentesche del Sessantotto e di una scuola inclusiva capace di abbattere le mura del classismo. Lasciando da parte i tanti significati e i simbolismi associati a quest’opera e alla figura di don Milani, è importante ricordare che Lettera a una professoressa è frutto anche del lavoro degli allievi della sua scuola di Barbiana. Il libro, infatti, è il risultato di un’esperienza di scrittura collettiva, un metodo didattico adottato da don Milani che prevedeva un programma strutturato di elaborazione condivisa del testo. Come descritto tra le pagine dell’opera stessa, il progetto prevedeva che ogni fase, a partire da quella preparatoria, venisse definita e discussa da tutti: ogni alunno si impegnava a scrivere parte del testo, a confrontarlo con quello degli altri, a selezionare le parti migliori, a ordinarle gerarchicamente e, infine, a rileggere e limare la stesura definitiva.
La premessa su cui si basa questo metodo di scrittura è che un testo redatto in gruppo sia allo stesso tempo più ricco e preciso dal punto di vista linguistico, ma anche più essenziale ed efficace, perché il lavoro collettivo comprende infatti anche un accurato processo di selezione finalizzato a rendere il testo privo di ripetizioni, cacofonie e informazioni superflue.
Ciò che conta, comunque, non è solo il risultato. L’obiettivo della scrittura collettiva è soprattutto quello di incoraggiare la partecipazione e la collaborazione tra gli studenti. Il processo tramite il quale un gruppo lavora insieme per produrre un unico testo assume quindi un importante valore pedagogico. Consente, innanzitutto, di imparare gli uni dagli altri, poiché ognuno viene ispirato e “contaminato” dallo stile comunicativo dei suoi simili, assorbendone qualcosa. Insegna inoltre agli studenti che il contributo di ognuno di loro, se messo al servizio della collettività in maniera costruttiva e non competitiva, è fondamentale per la costruzione di un bene comune, che diventa qualcosa di più della somma delle singole conoscenze individuali.
Con l’aiuto della storica e scrittrice Vanessa Roghi abbiamo approfondito la storia e le finalità della scrittura collettiva come approccio educativo, per riflettere anche sull’utilità di questa pratica nell’epoca digitale.
“La scrittura collettiva si sviluppa a partire dal primo Dopoguerra, con la diffusione della teoria dell’attivismo pedagogico (secondo la quale l’alunno dovrebbe partecipare “attivamente” al suo percorso di istruzione e apprendere sperimentando, non solo ascoltando le lezioni in maniera passiva, ndr) e dei movimenti socialisti”, racconta Roghi. “Questa pratica didattica inizia a circolare in particolare grazie al lavoro di un pedagogo francese, Célestin Freinet, che considerava fondamentale la dimensione collettiva – la classe – per lo svolgimento delle attività scolastiche. La scrittura collettiva era un approccio finalizzato non solo a promuovere l’alfabetizzazione e l’appropriazione linguistica anche da parte degli studenti provenienti da ceti sociali più bassi, che non avevano dimestichezza con la lettura o la scrittura, ma anche a incoraggiare la costruzione di una comunità all’interno della quale gli studenti potessero lavorare e imparare insieme.
La scrittura collettiva arriva in Italia nel secondo Dopoguerra, quando Scuola e città, la rivista di Ernesto Codignola, iniziò a pubblicare nella nostra lingua i testi di Freinet. La diffusione di questo metodo tra gli insegnanti fu promossa anche dal Movimento di cooperazione educativa (MCE), inizialmente denominato: “Cooperativa della tipografia della scuola” che favorì anche la nascita del giornalino scolastico come approccio educativo per incoraggiare la cooperazione tra gli studenti”.
Fu Mario Lodi, che insieme ai suoi alunni avrebbe scritto il libro Cipì, a far conoscere a don Lorenzo Milani questo metodo didattico. “L’approccio adottato da Milani era da sempre basato sulla condivisione del sapere”, continua Roghi. “Quando Lodi raccontò al priore di Barbiana le attività di co-scrittura che svolgeva con i suoi bambini, le loro due classi iniziarono a intrattenere uno scambio epistolare e Milani adottò l’approccio della scrittura collettiva, grazie al quale sarebbe nato Lettera a una professoressa”.
"lettera a una professoressa" di don Lorenzo Milani e altre opere in edizione della lef originale, su www.lef.firenze pic.twitter.com/Zo0Q4jS8Mo
— L.E.F (@LEF14414783) March 13, 2015
Per quanto riguarda il valore pedagogico della scrittura collettiva, “condividere le parole che si conoscono significa farle crescere”, osserva Roghi. “Ogni persona padroneggia un certo numero di vocaboli, ma ciascuno di noi li utilizza in modo differente. Il nostro patrimonio linguistico è sempre diverso; perciò, condividendolo con gli altri, ampliamo non solo la quantità di vocaboli che conosciamo, ma anche la quantità di significati che attribuiamo loro. La scrittura collettiva serve inoltre a incoraggiare un lavoro solidale di appropriazione collettiva del testo, molto diverso da quello individuale e agonistico sul quale spesso si fonda la scuola”.
“ Condividere le parole che si conoscono significa farle crescere Vanessa Roghi
“Spetta poi all’insegnante capire come strutturare e coordinare l’attività di scrittura collettiva a seconda della situazione specifica”, continua Roghi. “Ogni classe e ogni studente è differente, così come i contesti sociali e culturali di provenienza. È importante modificare continuamente il proprio approccio didattico per assicurarsi di riuscire a dialogare con gli studenti che si hanno di fronte. Bisogna inoltre tenere conto del fatto che il passare del tempo trasforma anche i consumi culturali. Oggi, ad esempio, un’esperienza di scrittura collettiva potrebbe prevedere l’uso di strumenti e risorse digitali”.
Parlando del presente e del futuro della didattica vale la pena di riflettere, infine, sul senso che può assumere questa pratica in un mondo in cui esistono programmi di intelligenza artificiale – come ChatGPT – in grado di produrre su richiesta testi decisamente validi su qualsiasi argomento e in qualsiasi stile. D’altronde, se ci riflettiamo su, anche ChatGPT, quando gli viene richiesto di produrre un’opera, esegue un compito di scrittura collettiva, perché attinge a un database estesissimo di risorse presenti in rete e fonde, anche se non sappiamo esattamente con quali criteri, informazioni provenienti da testi di varia natura scritti da autori differenti.
“Queste considerazioni possono aiutarci a riflettere sul senso che attribuiamo alla scuola”, commenta Roghi. “Se crediamo che lo scopo della scuola sia l’apprendimento di determinate nozioni, allora al giorno d’oggi non serve più a niente entrare in una classe. Ogni informazione è disponibile su internet, e sarebbe più utile seguire un tutorial che spiega come si svolgono le ricerche in rete che seguire una lezione di storia o di letteratura. La scuola – al contrario – così come la scrittura collettiva, non serve solo al raggiungimento di un risultato finale, ma rappresenta anche – e soprattutto – un’opportunità di crescita data dalla possibilità di stare insieme attivamente, lavorando in un ambiente collettivo e costruendo relazioni significative tra pari”.
Torniamo perciò a quanto si diceva in apertura: nella scrittura collettiva non conta solo il risultato, ma tutto quello che si impara da questa esperienza condivisa e dalla condivisione di idee e forme espressive. In un approfondimento sul Magazine di Treccani, Riccardo Cesari definisce l’elaborazione testuale di ChatGPT come un processo di “scrittura collettanea”, che non possiede alcun valore educativo: nulla viene trasmesso da una persona all’altra e nessuno impara niente da chi gli sta accanto. Come sostiene Cesari, grazie a ChatGPT possiamo ottenere un prodotto senza averlo prodotto, perché l’esperienza che facciamo di questo strumento è finalizzata al consumo e non alla creazione del testo. Proprio le finalità, in altre parole, sono diverse, e non bisogna confonderle: ChatGPT serve a ottenere un testo pronto a soddisfare una determinata esigenza. Quando invece il fine è quello di imparare e di arricchirsi attraverso la produzione di un’opera, allora va da sé che bisogna lavorarci in prima persona, da soli o in gruppo.
“Un’esperienza di scrittura collettiva non punta necessariamente a produrre un testo candidato a vincere il premio Nobel”, sottolinea Roghi. “Serve piuttosto a educare gli adulti di domani, facendo in modo che dopo l’uscita dal percorso scolastico siano in grado non solo di elaborare un testo da soli o in gruppo, ma anche, soprattutto, di ascoltare e di sapersi fare ascoltare dagli altri in modo democratico, senza essere aggressivi o autoritari. E questo ci riporta al valore pedagogico della scrittura collettiva”.