SOCIETÀ

Ungheria, le elezioni in Parlamento come un "referendum" pro/contro Orban

Gli elettori ungheresi sono di fronte al classico bivio, con un’offerta politica mai così polarizzata, radicalizzata. Al punto che l’appuntamento del prossimo 3 aprile, quando si voterà per il nuovo Parlamento magiaro, si potrebbe paragonare a un referendum: pro o contro Viktor Orbán. Da un lato c’è lui, il premier da dodici anni in carica, leader indiscusso del partito nazionalista e fieramente illiberale Fidesz: un piccolo Putin in salsa ungherese che negli ultimi anni nulla ha fatto per nascondere l’ammirazione per lo stile del presidente russo (incontrato a febbraio, al Cremlino, venti giorni prima dell’invasione dell’Ucraina). Orbán, negli anni, si è fatto largo nel cuore dei sovranisti europei per aver saputo imporre un considerevole assortimento di leggi (contro i migranti, le ong, i vagabondi, gli omosessuali, contro l’indipendenza dei giudici e dei media) che con la democrazia hanno davvero poco a che spartire. Quasi un corpo estraneo nell’Unione Europea, che non a caso ha avviato a carico di Budapest diverse procedure d’infrazione. Nell’altro schieramento c’è tutto il resto della politica ungherese, in un’improbabile quanto variegata aggregazione di partiti che a fatica si riesce a definire coalizione (dai socialisti ai liberali, dai nazionalisti agli ecologisti), perché trova coesione e ragione non tanto sui singoli temi (dai diritti civili all’appartenenza all’Unione Europea, non mancano le divergenze, anche aspre) quanto nell’incrollabile opposizione allo stesso Orbán, individuato come il “male” del paese, da mettere finalmente all’angolo della politica, e del futuro, dell’Ungheria. O bianco o nero: bisogna scegliere da che parte stare. Una terza via non è data.

Una campagna elettorale che si giocherà sul filo dell’ultimo voto e profondamente condizionata dall’invasione russa in Ucraina. Che ha costretto Viktor Orbán a un frettoloso riposizionamento, suo e del partito che guida, dopo gli ultimi anni trascorsi a flirtare sempre più sfacciatamente con il Cremlino. «Orbán era convinto che Putin non avrebbe attaccato l’Ucraina», scriveForeign Policy, l’autorevole magazine americano specializzato in politica internazionale. «Quando lo ha fatto, la posizione dell’Ungheria è rimasta nel caos per circa una settimana. Inizialmente Orbán ha sostenuto le sanzioni, ha chiamato il presidente ucraino Zelensky per offrire supporto e ha fatto entrare i migranti ucraini. L’Ungheria ha rapidamente smesso di bloccare gli sforzi di adesione dell'Ucraina all’UE e alla NATO e sembrava che la diplomazia ungherese potesse tornare a uno stato di normalità. Ma dopo una settimana (e dopo un’analisi dei sondaggi e dell'umore popolare), tutto è svanito e il governo Fidesz ha deciso di puntare su un duplice messaggio: pace ed energia a buon mercato». In una parola: pensiamo ai fatti nostri. Così, quando i primi ministri polacco, ceco e sloveno, si sono recati a Kiev per mostrare solidarietà e sostegno alla nazione aggredita, il premier ungherese ha preferito evitare di metterci la faccia. Poi l’ha spiegata così: «L’Ungheria deve rimanere fuori dalla guerra perché nessun ungherese dovrebbe mettersi tra l’incudine ucraina e il martello russo. Ed è per questo che ci rifiutiamo di inviare soldati o armi nel teatro di guerra». Un neutralismo esibito per convenienza elettorale (immaginando che la classe media e i pensionati, grandi elettori di Fidesz, siano più preoccupati delle forniture di gas per il prossimo inverno che non per le sorti degli ucraini) e per tattica strategica: un domani, se Putin dovesse trarre qualche vantaggio dalla sua “operazione speciale”, l’Ungheria potrebbe chiedere un trattamento privilegiato in cambio della sua “non interferenza”. E i sondaggi, al momento, sembra stiano ancora dando ragione a Orbán, anche se il margine di vantaggio è di quelli esigui, appena due punti percentuali. Nell’ultima rilevazione condotta tra il 16 e il 18 marzo dall’Istituto indipendente Republikon, Fidesz è accreditato del 41% delle preferenze, mentre gli avversari arrivano al 39%. Sull’esito finale del voto del 3 aprile peseranno, e molto, gli indecisi, che i sondaggisti stimano attorno al 16%.

Un voto in bilico: scelta di campo, tra Est e Ovest

Il leader della lista di opposizione “Uniti per l’Ungheria” è Péter Márki-Zay, attuale sindaco di Hódmezővásárhely, una piccola città dal nome impronunciabile nel sud del paese: economista, laureato in ingegneria elettronica, cattolico, sette figli, ex sostenitore convinto di Fidesz, fino alla brusca svolta a destra impressa da Orbán (che oggi definisce come “un populista spietato” oppure “il cagnolino di Putin”). Politicamente si può definire un conservatore, un moderato, requisito indispensabile per una figura di sintesi alla guida di una compagine così variegata. Ma non è uno che le manda a dire, tutt’altro che prudente nella schermaglia verbale, il che gli ha attirato contro più di una critica. Ad esempio, in un’intervista alla rivista di geopolitica Le Grand Continent: «Orbán è cambiato molto nel corso della sua carriera politica, passando dal comunismo al fascismo, ha coperto praticamente tutto lo spettro fino alla sua svolta a destra. L’unica cosa con cui è coerente è la corruzione». E spesso sono i fatti, non le opinioni, a raccontare la parabola del leader ungherese). Oppure: «Orbán fa propaganda anche sulla guerra accusando l’opposizione di voler mandare i soldati a combattere in Ucraina e presentando se stesso come il garante della pace. La nostra campagna elettorale è molto difficile a causa delle bugie del partito del premier, Fidesz: controlla la stampa e  fa da grancassa alla propaganda russa». Ma la strategia, a quanto pare, sta dando risultati: due punti appena di distanza nei sondaggi (per quanto attendibili possano essere) sono una grande opportunità di ribaltare il tavolo. Al punto da spingere Márki-Zay a scrivere, con enfasi, su Facebook: «Orbán e Putin da un lato, oppure l’Occidente e l’Europa: è questa la posta in gioco. Una scelta tra il lato oscuro o quello buono della storia». Fino a promettere, in caso di vittoria alle elezioni del 3 aprile, di riscrivere una nuova costituzione («che poi sottoporremo a referendum»), di cancellare la legge omofoba anti Lgbt e di ristabilire lo stato di diritto: «In Ungheria non c’è democrazia, non c’è libertà di stampa, non c’è stato di diritto. Dobbiamo ricominciare tutto da zero. Perché stiamo parlando di cambio di regime, non di cambio di governo». L’unico punto di continuità, per così definirlo, con le politiche di Orbán sarebbe sul tema dell’immigrazione: i partiti di opposizione si sono detti favorevoli al mantenimento dei “muri di confine” (soprattutto con la Serbia) alzati dall’attuale governo. Una sorta di compromesso. «Penso che sia uno strumento legittimo per controllare l'immigrazione clandestina», ha commentato Márki-Zay.

E la campagna elettorale, come sempre, come ovunque, s’accende a pochi giorni dalla sua conclusione: i toni si fanno più alti, gli slogan più netti. Così il premier uscente, dopo aver predicato pace, stabilità e neutralità, è tornato a battere con ostinazione sui temi a lui più cari: contrasto inflessibile a migranti e teorie gender. Usando frasi del tipo: «Un padre è un uomo, una madre è una donna: lasciate stare i nostri figli. Vinceremo e fermeremo ai confini dell’Ungheria la follia gender che serpeggia nel mondo occidentale». Il 15 marzo scorso, in occasione della Marcia della Pace (festa nazionale ungherese in ricordo della sollevazione del 1848 contro l’impero asburgico), Orbán ha tenuto il suo comizio davanti a migliaia di sostenitori. «Vogliamo un Paese forte che ruoti sempre attorno al proprio asse», ha scandito. «Non permetteremo agli interessi di altre nazioni di stabilire la nostra orbita». E ancora: «Abbiamo costruito un'Ungheria forte anno dopo anno per 12 anni. Abbiamo creato un milione di posti di lavoro, abbiamo obbligato le multinazionali a pagare le tasse, ridotto le spese per le utenze». E’ arrivato perfino a sostenere, Orbán, chissà sulla base di quali studi, che «se la sinistra fosse rimasta al governo sarebbero nati 200mila bambini in meno». Per poi passare agli slogan finali: «Ad aprile l’Ungheria dovrà scegliere tra la destra per la pace e la sinistra per la guerra. Abbiamo ancora giorni di marcia davanti a noi e combatteremo fino alla fine. Andiamo a vincere la battaglia più importante della nostra vita». Tanto da conquistarsi l’endorsement dell’ex presidente americano Donald Trump, un altro che amava correre a perdifiato sulla corsia di destra.

«Putin e Orbán appartengono allo stesso mondo autocratico e repressivo»

Ben diversa la “lettura” della situazione dell’Ungheria nelle parole di Márki-Zay, che batte forte sui ritardi del paese («è ancora il secondo più povero d’Europa») e sull’effetto economico delle sanzioni imposte dall’Unione Europea proprio in risposta alle politiche illiberali imposte da Orbán (7,2 miliardi di euro del Recovery Fund sono congelati fino ad aprile). «Questo governo ha sprecato e rubato dodici anni di vita agli ungheresi», ha detto il leader dell’opposizione. «Il Paese non ha altri quattro anni di tempo, perché se Orbán rimane al potere, sappiamo cosa accadrà dopo: diventeremo più poveri». Aspre critiche anche alla decisione del premier ungherese di consentire alla Banca Internazionale per gli Investimenti della Russia (appena declassata a BB- dall’agenzia di rating Fitch) di utilizzare Budapest come sede centrale. Marki-Zay ricorre spesso al parallelismo con il presidente russo: «Putin e Orbán appartengono allo stesso mondo autocratico, repressivo, povero e corrotto», ha dichiarato la settimana scorsa al New York Times. «E noi invece dobbiamo scegliere l’Europa, l’Occidente, la NATO, la democrazia, lo stato di diritto, la libertà di stampa: un mondo molto diverso. Il mondo libero».

A proposito di libertà di stampa: Márki-Zay non ha avuto un solo minuto di spazio sulla tv pubblica. L’International Press Institute (IPI) ha appena pubblicato un rapporto sulla “libertà dei media in Ungheria in vista delle elezioni del 2022”. E la riassume così: «Il governo del primo ministro Viktor Orbán ha continuato i suoi sforzi per erodere sistematicamente il pluralismo dei media, mettere a tacere ciò che resta della stampa indipendente e manipolare il mercato per rafforzare ulteriormente una narrativa filogovernativa dominante». E più nello specifico: «Per raggiungere questo livello senza precedenti di controllo politico sull’ecosistema dei media del paese, Fidesz ha perseguito il modello più avanzato di acquisizione dei media mai sviluppato all'interno dell'Unione Europea». «Il motore di questa cattura mediatica è stata una rete di procuratori: aziende statali e oligarchi vicini al presidente del Consiglio che hanno acquisito molti dei principali media televisivi, radiofonici e cartaceiQueste acquisizioni sono state spesso agevolate da decisioni normative guidate dalla politica e prestiti da banche controllate dallo stato. Molti media portati sotto la proprietà ungherese sono stati convertiti in portavoce pro-Orbán o chiusi». Venti ong hanno chiesto all’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’Osce (ODIHR) di vigilare sul corretto svolgimento delle prossime elezioni, con una “missione di monitoraggio su vasta scala”.  Peraltro lo stesso giorno, il 3 aprile, si terrà il referendum per confermare la discussa legge, tanto cara al semi-dittatore Orbán e definita da molti omofoba, che vieta “la promozione della non conformità di genere, la riassegnazione di genere, l’omosessualità”. Nel passaggio degli elettori ai seggi si scriverà il futuro prossimo dell’Ungheria: sarà bene controllare che tutto si svolga nel pieno rispetto delle regole democratiche.

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