SOCIETÀ

Pace e diritti non si esportano con le bombe

Cinquant’anni fa la radio mandava i Beatles e furoreggiavano i figli dei fiori, in Italia il presidente del Consiglio era Aldo Moro mentre negli Usa c’era Lyndon B. Johnson, il mondo era ancora diviso in blocchi e in Vietnam infuriava la guerra. In quell’anno, il 16 dicembre 1966, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvava con una risoluzione due documenti che avrebbero segnato lo sviluppo successivo del diritto internazionale: il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali.

Si trattava di un passo decisivo in un percorso verso il riconoscimento e la piena tutela di una serie di diritti fondamentali in capo a ciascun individuo, a prescindere dall’origine e dall’appartenenza e per ricordarlo il Centro di ateneo per i diritti umani e la Cattedra UNESCO “Diritti umani, democrazia e pace” dell’università di Padova organizzano una conferenza internazionale, con l’obiettivo di alimentare un dibattito multi-disciplinare sul presente e, specialmente, sul futuro della promozione e protezione e implementazione dei diritti umani.

Facciamo però un passo indietro: come si arrivò nel 1966 all’emanazione dei due trattati? “Entrambi i patti sono figli della Dichiarazione universale dei diritti nel 1948 – spiega Marco Mascia, direttore del Centro di ateneo per i diritti umani – questa però, a differenza dei convenant emanati 18 anni dopo, aveva soprattutto un valore politico e non era considerata vincolante dagli stati membri dell’ONU”. Per questo in seguito ci si mise al lavoro per la redazione di un vero e proprio trattato internazionale: presto però i lavori rischiarono di arenarsi per la contrapposizione tra stati occidentali e paesi del blocco comunista, ideologicamente portati a vedere nei diritti individuali sostanzialmente un lascito della società borghese e capitalista. Fu in questo modo che si passò alla redazione di due distinti documenti: il primo, nel solco tracciato dalla confluenza delle tradizioni liberali e illuministiche, era diretto a tutelare valori come l’integrità fisica del cittadino, l’imparzialità di giudizio e i diritti di partecipazione politica, mentre il secondo era dedicato – nel pieno del processo di decolonizzazione – a  nuove figure come l’autodeterminazione dei popoli e il diritto a disporre liberamente delle proprio ricchezze e delle risorse naturali.

Un cammino, quello dei due trattati, che è proseguito in parallelo fino alla Conferenza di Vienna sui diritti umani del 1993, quando, in seguito al crollo del Muro di Berlino, si riconobbe che i diritti umani previsti nei diversi trattati andavano considerati come ‘universali, indivisibili, interdipendenti, interconnessi’: che andavano cioè riconosciuti negli stessi termini e condizioni in ogni parte del mondo e per ogni persona, pur tenendo conto delle particolarità nazionali e regionali e dei diversi contesti storici e culturali. Intanto però i due trattati avevano già a loro volta generato una serie di altri documenti, dedicati a riconoscere e a circostanziare i diritti umani nei diversi settori: la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne del 1979, la Convenzione contro la tortura del 1984, la Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia del 1989.

Oggi parlare di diritti umani a livello internazionale può apparire quasi scontato, ma non va dimenticato che molto rimane ancora da fare. La loro applicazione a livello internazionale soffre infatti ancora delle resistenze da parte di molti stati: “Gli Stati Uniti ad esempio sono storicamente restii ad accettare l’efficacia di diverse convenzioni internazionali – conferma Mascia – ad esempio non hanno ratificato, unico stato al mondo, la Convenzione sui diritti dell’infanzia e con il presidente George W. Bush hanno addirittura ritirato la firma dallo Statuto di Roma del 1998, che prevedeva l’istituzione di una Corte penale internazionale”. Come mai? “Gli Usa di solito faticano ad accettare la giurisdizione delle corti internazionali sui propri cittadini. Diciamo che gli stati più potenti hanno da sempre la tendenza a usare l’ONU à la carte, sfruttandola per i propri interessi quando è possibile e allo stesso tempo respingendo gli obblighi che ne derivano quando sono considerati troppo stringenti o contrari agli interessi nazionali”.

Cinquant’anni significa anche che è tempo di bilanci: qual è stato l’impatto dello sviluppo della tutela dei diritti umani dei due convenant del 1956? “Sicuramente positivo: sia dal punto di vista dello standard setting, cioè dell’elaborazione di una normativa internazionale sempre più completa e precisa, sia per quanto riguarda l’implementazione di sistemi di garanzia sempre più efficaci a livello nazionale e internazionale”. Eppure tanti Paesi continuano a non rispettare tali diritti, compresi diversi tra quelli che siedono nel Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC): “È vero, ma questo dipende dalla natura specifica dell’ONU, che è un’organizzazione in cui tutti gli stati hanno diritto di cittadinanza e di parola – conclude il docente – Il cammino verso la democrazia e i diritti è lungo, ma è comunque positivo cercare di coinvolgere quanti più Paesi in un sistema che prevede il confronto e il dialogo. Qual è del resto l’alternativa? Abbiamo già sperimentato quanto sia difficile esportare pace e democrazia con le bombe”.

Daniele Mont D’Arpizio

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