CULTURA

Storie di catastrofi e di altre opportunità

Grandi evoluzionisti ed esperti di biodiversità come Edward O. Wilson e Niles Eldredge lo avevano scritto vent’anni fa: considerando i ritmi vertiginosi di scomparsa delle specie indotti dalle attività umane negli ultimi secoli, la biosfera sta attraversando un’"estinzione di massa", cioè una catastrofe su scala globale. Per la precisione la sesta estinzione di massa, dato che nel lontano passato geologico se ne sono registrate almeno cinque, le cosiddette “Big Five”, grandi ecatombi causate da super-eruzioni vulcaniche, da oscillazioni climatiche e cambiamenti nella composizione dell’atmosfera, da impatti di asteroidi sulla Terra, o da un intreccio di questi fattori. Per velocità di impatto e mortalità - sostennero Wilson e colleghi - l’estinzione prodotta dall’uomo oggi non ha nulla da invidiare alle precedenti.

Vennero presi per “catastrofisti”, anche a causa dei dati grezzi su cui si basavano. Calcoli recenti apparsi su Nature e Science confermano ora questo scenario di rapida riduzione della biodiversità, anche tra i gruppi che si ritenevano più resistenti come gli insetti e che invece a uno sguardo più attento (a livello di popolazioni entro le specie e non soltanto a livello di specie) sono in declino mediamente del 30%. Perdiamo complessivamente ogni anno dalle 11.000 alle 58.000 specie, concentrate soprattutto nelle regioni tropicali. Estinguiamo specie che nemmeno abbiamo fatto in tempo a classificare. Il raggelante ma efficace termine tecnico coniato per questo fenomeno dal team di Stanford guidato da Rodolfo Dirzo è “de-faunazione dell’Antropocene”: stiamo non soltanto deforestando ma anche “de-faunando” il pianeta.

Non possiamo cercare alibi nell’ignoranza perché le cause sono note da tempo, cause molteplici e interagenti: la deforestazione e la frammentazione degli habitat (quasi tutti i grandi mammiferi hanno perso mediamente la metà del loro spazio geografico naturale); la diffusione di specie invasive tramite viaggi e trasporti; la crescita della popolazione umana; l’inquinamento da attività agricole e industriali; lo sfruttamento intensivo attraverso la caccia e la pesca. A queste cinque attività antropiche bisogna ora aggiungere gli effetti pervasivi del riscaldamento climatico, che cominciano a farsi sentire in particolare sui migratori a lunga distanza e sulle barriere coralline. Il governo australiano ha da poco annunciato il primo caso noto di estinzione di una specie di mammifero a causa del riscaldamento climatico: la vittima è un roditore endemico di Bramble Cay, isoletta tra l’Australia e la Nuova Guinea. I sei fattori poi si moltiplicheranno a vicenda, perché un pianeta con meno biodiversità, dominato da poche specie opportuniste e infestanti che hanno perso i loro predatori, è a sua volta più vulnerabile.

Le estinzioni di per sé non sono necessariamente un male. Anzi, sui tempi lunghi, liberano spazio ecologico per altri. Il tempo profondo insegna che l’estinzione di massa dei dinosauri fu una straordinaria occasione per i mammiferi, che ereditarono il pianeta e si diversificarono in nuove forme, compresi i primati e fra loro Homo sapiens. Siamo i figli della fine del mondo degli altri. Del resto Homo sapiens si è mostrato fin da subito invasivo: ha portato all’estinzione decine di specie di mammiferi di grossa taglia in Australia e nelle Americhe, tra 50.000 e 12.000 anni fa; in concomitanza con la sua ultima espansione fuori dall’Africa, tra 60.000 e 40.000 anni fa, si è verificata l’estinzione di tutte le altre forme umane che abitavano in Eurasia (Neandertal, i Denisoviani, Homo floresiensis in Indonesia).

Ora però la sesta estinzione è troppo rapida e non lascia tempo di recupero. Dalla biodiversità dipende la salute degli ecosistemi, e dagli ecosistemi derivano beni e servizi che sono essenziali per la nostra sopravvivenza e gratuiti (dispersione dei semi, cicli dei nutrienti, fertilità dei suoli, decomposizione, qualità dell’acqua e dell’aria). Un esempio fra tanti: il 75% delle colture alimentari del mondo dipende da insetti impollinatori. Intervenire tardi sarà molto più dispendioso, anche secondo i parametri dell’economia miope e predatoria che oggi predomina a livello internazionale.

Che fare? Secondo Edward O. Wilson, per bloccare questa tendenza dovremmo fare in modo che metà della superficie terrestre (fra terre emerse e oceani) conservi i suoi habitat naturali. Non è impossibile, ma il modello di sviluppo che abbiamo adottato, le difficoltà di coordinamento internazionale e l’incapacità umana di lungimiranza rendono difficile questa soluzione. L’impegno ecologico del futuro sarà anche quello di decidere se vogliamo che la natura continui a essere ospitale per noi e per le generazioni future.

Telmo Pievani

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