UNIVERSITÀ E SCUOLA

Compiti a casa, non c'è la bacchetta magica

Tornano da scuola, pranzano, si concedono una breve pausa e poi riprendono a studiare, spesso da soli, senza potersi confrontare con altri, senza poter contare su un dialogo, uno scambio di informazioni o su qualcuno che li guidi. I ragazzi italiani trascorrono molte ore sui libri anche nel doposcuola e si dedicano allo studio pomeridiano molto di più rispetto ai loro colleghi europei (più di noi solo i russi). A rivelarlo è un recente focus dell’Ocse che si concentra sul carico di lavoro dei quindicenni nel doposcuola. In media si riferisce che, nel 2012, nei Paesi Ocse, gli studenti abbiano dedicato quasi cinque ore alla settimana per svolgere i compiti a casa. Ma la quantità di tempo che gli studenti trascorrono facendo i compiti varia da paese a paese. Mentre gli studenti finlandesi spendono meno di tre ore alla settimana, ottenendo comunque ottimi risultati a scuola, in particolare in matematica (lo dicono i test Pisa), in Italia si contano quasi nove ore di studio (e risultati meno brillanti nei test). Troppe ore e sfruttate male, dunque? Il focus Ocse si concentra anche sulle differenze socio-economiche tra gli studenti, facendo notare come i ragazzi che vivono in condizioni disagiate, prima ancora di abbandonare la scuola, potendo contare su una minor tranquillità domestica, meno attenzioni da parte dei genitori nel doposcuola e, quindi, poche risorse e motivazione, riescano a dedicare meno tempo allo studio pomeridiano rispetto ai coetanei che provengono da famiglie più abbienti. 

Abbiamo posto alcune domande a Marco Rossi-Doria, ex sottosegretario all’Istruzione (dal 2011 al 2014), maestro elementare, co-fondatore del progetto Chance nato per offrire nuove opportunità agli adolescenti drop-out, ovvero “caduti fuori” (dalla scuola), e contrastare la dispersione scolastica. Abbiamo cercato di non fermarci solo ai numeri del focus, ma di avere una visione più ampia del percorso scolastico (partendo appunto da una giornata di studio) di un ragazzo, per capire quali sono le condizioni ideali perché uno studente possa davvero apprendere, imparare, fare tesoro ed elaborare quanto ascoltato in classe.

Partiamo dall’utilità dei compiti a casa. Tante ore sui libri nel doposcuola garantiscono davvero migliori performance, ovvero migliori risultati e un rendimento più alto?

“La mia esperienza personale e lunghi anni di osservazioni e confronto con docenti, in Italia e fuori, mi hanno suggerito di non poter rispondere in generale e assumere una posizione univoca su questo tipo di questioni. Infatti, dipende da molte cose. Cosa intendiamo, intanto, per performance? Di che età stiamo parlando? Quante ore si fanno a scuola prima di andare a casa? Quali modalità di impegno a casa intendiamo: lavoro di ricerca, esercitazioni, lavori di gruppo che richiedono una parte per ciascuno, semplice studio mnemonico, ricostruzione degli appunti presi in classe e loro integrazione grazie a esplorazione su altri testi e su media, esercizi di problem solving, lavori di traduzione?”

Non esiste, dunque, un’unica risposta.

“La scuola è un contesto complesso entro il quale i compiti a casa possono essere – e purtroppo spesso sono – lettura e ripetizione di quel che si legge o lunga esercitazione ma, altre volte, possono, invece, essere un prolungare il lavoro laboratoriale svolto con entusiasmo in classe o il preparare un momento di fatica creativa che è atteso dai ragazzi perché è stato ben motivato grazie a buona didattica e approcci partecipativi all’apprendimento. E, poi, con i nuovi media ormai si si sta molto sviluppando un costante flusso in orizzontale, tra ragazzi, intorno al lavoro svolto a casa”.

In che senso? I nuovi media possono aiutare?

“Una parte dei docenti tende a vedere tale flusso ‘di confronto’ in modo riduttivo, come un mero copiare tra ragazzi, senza registrare che in esso vi è discussione che porta ad apprendimento, confronto tra più stili cognitivi e socialità multi-dimensionale intorno all’imparare. E, perciò, sbaglia di grosso. Perché le operazioni mentali, il dibattito tra ragazzi che al computer discutono sul come fare i compiti è, invece, un’occasione cognitiva e relazionale importante che reca promesse di apprendimento ulteriore rispetto a ciò che accade in classe. Tanto è vero che, nel dibattito internazionale su tali temi, alcuni ipotizzano che la parte informativa dell’apprendimento avvenga a casa, utilizzando appieno i nuovi media, e che i compiti, fatti in modo vivo – che recano promessa di scambio e ricerca – avvengano a scuola, con un ribaltamento dell’uso del tempo di studio tra casa e scuola. Ma, anche senza arrivare a questo ribaltamento, già oggi i docenti più smart favoriscono o partecipano a questo flusso orizzontale che avviene tra ragazzi durante il tempo dei compiti a casa. Dunque, la discussione non riguarda tanto un tempo dedicato, più o meno utile in generale, o una performance intesa in assoluto, quanto il cosa e come si fa tra casa e scuola”.

La scuola italiana è, però, ancora poco “connessa”. Rispetto ad altri Paesi europei, in particolare quelli del Nord Europa, c’è un abisso. Questo peggiora le performance degli studenti?

“Anche qui, l’esperienza mi ha mostrato un quadro variegato, complesso. I dati italiani sulla connessione delle scuole sono effettivamente bassi e vanno rapidamente avvicinati a quelli della media europea. È necessario e urgente farlo. Questo, però, non significa automaticamente che le performance – se queste s’intendono come le competenze acquisite e le conoscenze consolidate, nonché la progressiva capacità di usare più solidi metodi di studio, ricerca ed esplorazione da parte dei ragazzi – siano prevalentemente da mettere in relazione con la connettività delle scuole. Dipende, insomma, da cosa intendiamo per performance. Abbiamo, infatti, una gamma molto differenziata di realtà scolastiche. Troviamo forme di apprendimento fortemente laboratoriale che creano forti conoscenze e competenze, ma non legate all’essere on line, che possono avere molte promesse, come mostra, per esempio, il recente bel libro di Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande, uscito per i tipi della Sellerio. Ne abbiamo altre per le quali la mancata connessione si aggiunge a un’offerta effettivamente molto povera perché prevalentemente trasmissiva. Altre sono fondate sulla connessione con notevole capacità di interazione con altre vie di apprendimento multi-dimensionale e, dunque, recano grandi promesse di apprendimento ricco. Altre ancora usano la connessione per supplire una povertà di proposta didattica, impoverendo il contesto di apprendimento invece di arricchirlo. Anche qui la risposta alla domanda non è ‘sì o no’ ma ‘dipende’. Inoltre non è raro che, pur non connesse in modo serio, le scuole si immettano nella rete e, dunque, lo siano in parte. La gamma delle connessioni reali va guardata alla lente d’ingrandimento, case by case. Girando, si incontrano anche meraviglie”.

Francesca Boccaletto

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