CULTURA

“Boyhood”: quando a interrogare lo spettatore è il tempo

Boyhood è stato probabilmente uno dei film più attesi di quest'anno, fatto reso ancor più evidente dall'ampia pubblicità di cui ha goduto. Non c'è molto di cui sorprendersi d'altronde, se si considera, fra le ragioni di questa impazienza, che la realizzazione è durata più di un decennio. Quasi 40 giorni di riprese effettuate nell'arco di 12 anni, pressappoco la durata della “Boyhood” (fanciullezza), mantenendo gli stessi (e non pochi) attori protagonisti, convocati alcuni giorni alla volta, di anno in anno, per le riprese. Basta trucco o effetti speciali artificiosi, in questo film il tempo, che fa da coprotagonista e da silenziosa voce narrante, deve mostrarsi in tutte le sue visibili tracce.

Certo non è la prima volta che in un suo film Richard Linklater lavora con il tempo come strumento artistico: basti pensare alla trilogia di Before Sunrise, Before Sunset, Before Midnight in cui tra ogni capitolo del film intercorrono nove anni, con i protagonisti che rimangono gli stessi; e non è neanche la prima volta che il regista sceglie di porsi (e porre ai suoi spettatori) domande riguardanti la vita e l'esistenza.

È l'atmosfera creata a rendere unico questo lavoro, derivata dal tentativo di emulare per qualche ora il passare del tempo, che talvolta sembra scorrere rapidamente e talvolta sembra non passare mai, e dalla ricerca di una bellezza lì dove non si pensa di poterla trovare. 

Nel film Radiofreccia del cantautore Luciano Ligabue il personaggio simboleggiante lo “scemo del villaggio” sentenziava di continuo che la vita è piena di tempi morti mentre i film ne sono privi; qui, vale esattamente il contrario. Il tentativo di Linklater consiste proprio nel cogliere quei momenti cosiddetti “morti” per disvelarne il significato recondito. Non a caso, l'inizio del film è accompagnato da una canzone molto conosciuta, “Yellow” del gruppo Pop Coldplay, a suggerire che ciò che seguirà toccherà una corda comune, un tema che conosciamo bene. 

Siamo di fronte a un'opera cinematografica che mira molto più lontano di una scelta originale o di una trama avvincente. Questa pellicola vuole essere un omaggio alla vita o, per essere più chiari, al ruolo che l'uomo, ogni uomo, ha al suo interno. La stessa trama del film risulta difficilmente riassumibile, in quanto il suo obiettivo consiste nel raccontare 12 anni di vita, e quindi di vicende politiche, sociali, ma soprattutto personali. Protagonista del film è una famiglia composta da Mason, il figlio, da sua sorella, Samantha, e dai genitori – divorziati - Olivia e Mason Sr. 

Il padre, interpretato da Ethan Hawke, è una figura che compare solo saltuariamente nella famiglia, come spesso accade quando l'affidamento viene concesso alla madre, e ciò non permette ai bambini di averlo come punto di riferimento stabile. L'instabilità, d'altronde, è un tema ricorrente per l'intero film, attraverso i continui traslochi che obbligano i figli ad abbandonare le amicizie appena strette, o con la figura materna che continua a scegliere e dei partner violenti e tendenti all'alcolismo, figure che arrivano e poi scompaiono.

La sceneggiatura, che spesso è la vera protagonista nei film di Linklater, qui costruisce uno schema narrativo che non si sviluppa mai completamente, per scelta precisa. Non ci sono momenti del film in cui determinate questioni si risolvono; gli interrogativi riguardanti la vita sono incolmabili, da qualunque parte si cerchi la risposta. Questa perenne precarietà consente ai personaggi di porsi continue domande riguardo loro stessi ed il mondo che li circonda, donando a questo come anche ad altri lavori di Linklater un carattere esistenziale. 

Il ritmo del film non è incalzante, Boyhood non è un'opera di intrattenimento. Attraverso il lento procedere del film si entra in un'atmosfera quotidiana tipica; domina la routine, che non lascia spazio alla spontaneità e all'improvvisazione, e costringe l'uomo ad accettare della prevedibilità delle sue giornate. È proprio la routine la protagonista, qui: l'elemento che incontriamo maggiormente lungo la vita. È necessaria al nostro sostentamento se si vuole avere un lavoro ed una famiglia, ma se patita come una malattia dell'anima può diventare una sorte di morte prematura. Tale ambivalenza rappresenta la potenza della riflessione che scaturisce dal film: è proprio la routine che, attraverso il ripetersi di determinate situazioni, spinge l'uomo a riflettere sul significato di questo meccanismo, ad interrogarne l'autenticità. 

La noia rappresenta la fine della vitalità, o è piuttosto il momento in cui più di ogni altro ci si interroga sul significato del nostro vivere? Quando nessuna novità viene a distrarre la nostra attenzione, quanto siamo capaci di afferrare la nostra identità? È difficile capire se la nostra esistenza mantiene un senso al di là delle azioni che compiamo e che ci rappresentano, eppure è proprio questo – sembra dirci Boyhood - che ci può far avvicinare all'eternamente cercato “senso della vita”. 

Questo film può essere considerato come una delle opere artistiche di maggior generosità dell'uomo all'uomo. A proiezione finita sembra di aver assistito a dodici anni della propria vita, perché le vicende narrate sono così universali che possono rappresentare contemporaneamente tutti e nessuno in particolare, e tutti ne sono interrogati.

Si assiste ad un viaggio alla ricerca del tempo vissuto che, seppure non riesca a (o non voglia) trovarne un significato, riesce a restituirne l'inconfondibile simultanea sensazione di perdita e di conquista, di infinitezza e di finitezza che si combattono e si intrecciano in ognuno. 

Il passare degli anni è scandito da occasioni perse e momenti interminabili, da periodi di crisi e istanti di completezza; nell'attimo conquistiamo noi stessi e la nostra realizzazione, per poi continuare nella nostra routine, trasformando quell'attimo in ricordo e quel ricordo in una riserva di energia. Nella memoria collezioniamo frammenti di identità, da ripescare nei momenti di smarrimento. 

In Boyhood i protagonisti vacillano in una mancanza di identità e aspirazioni definite, vedono nella possibilità di diventare genitori una via d'uscita da questa frustrazione. Inevitabilmente, una scelta fondata su queste premesse non può che causare a sua volta dolore, e la crescita di un figlio, come quella di Mason, può rivelarsi colma di solitudine. Domande, ancora, nello scorrere del tempo e della quotidianità.

Anche i temi affrontati non possono essere riassunti a causa della loro vastità, perché la vita stessa non è un fenomeno riassumibile o pienamente comprensibile. Se assumiamo questo punto di visuale, il metro per misurare la potenzialità di un'opera artistica muta, e si può trovare maggior vigore in un film capace di suscitare infiniti interrogativi (il che consente allo spettatore di cercare da sé una possibile soluzione), rispetto a uno che regala risposte determinate; e, senza dubbio, nel primo si troverà maggior generosità che nel secondo. 

Per questo Boyhood può, a buona ragione, essere considerato un esempio, oltre che di grande spessore cinematografico, anche di generosità artistica.

Jacopo Schiesaro

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012