SOCIETÀ
Armi chimiche in Siria: che succederà ora?
Foto: Reuters/Carlo Allegri
L’uso di armi chimiche in Siria nella recente guerra civile è stato accertato da ispettori indipendenti delle Nazioni unite, che - con sicuro riferimento ad almeno un episodio, avvenuto il 21 agosto nei pressi di Damasco – riferiscono: “Chemical weapons have been used in the ongoing conflict between the parties in the Syrian Arab Republic, also against civilians, including children, on a relatively large scale”.
Se non fosse il portato di tali tragiche circostanze, l’adesione della Siria alla Convenzione sulla messa al bando delle armi chimiche sarebbe stata magari accolta con entusiasmo. Infatti, insieme all’Egitto – che tuttora manca all’appello, così come Myanmar, Corea del Nord e Sud-Sudan - la Siria era uno dei pochissimi stati a non essere ancora parte di questa Convenzione, firmata nel 1993 ed in vigore dal 1997. L’uso della armi chimiche era già vietato da un Protocollo del 1925, ma la più moderna Convenzione vieta anche la fabbricazione ed il semplice possesso di tali armi, imponendone altresì la distruzione. L’adesione alla Convenzione comporta anche la partecipazione all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw, nell’acronimo inglese), che ha fondamentali funzioni di monitoraggio e verifica sul rispetto della Convenzione. L’Opcw, che fornisce altresì assistenza agli stati membri che non siano in grado di provvedere autonomamente al processo di distruzione, ha di recente ottenuto il premio Nobel per la pace.
Il 14 ottobre scorso, la Siria non solo ha depositato il proprio strumento di adesione alla Convenzione, ma ne ha anche accettato l’efficacia immediata, rinunciando all’”intervallo” di trenta giorni concessi dall’articolo XXI ai nuovi aderenti, prima dell’entrata in vigore degli obblighi fissati dalla Convenzione nei loro confronti.
La decisione siriana è stata indotta da Stati uniti e Russia che, con una dichiarazione congiunta del 14 settembre, avevano sostanzialmente stabilito le condizioni il cui adempimento da parte della Siria avrebbe potuto scongiurare l’intervento armato, che si era temuto imminente, ma sul quale le due Potenze erano lontane dal poter raggiungere un’identità di vedute. Formalmente – com’è ovvio - il documento non dice questo, ma contiene la proposta di due distinte risoluzioni che vengono sottoposte l’una al Consiglio esecutivo dell’Opcw, l’altra Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Gli atti giuridicamente vincolanti nei confronti della Siria sono pertanto le due risoluzioni, prontamente adottate in quelle sedi, sulla base delle suddette proposte.
I termini imposti alla Siria per la distruzione completa del proprio arsenale chimico sono particolarmente stringenti: le operazioni dovranno svolgersi in meno di un anno, per concludersi entro giugno 2014. Le operazioni sono iniziate il primo di ottobre e i resoconti sono pubblicati quotidianamente al sito dell’Opcw. Tuttavia, l’esperienza maturata dopo l’entrata un vigore della Convenzione porta a chiedersi se se sia davvero realistico pensare che l’obbligo possa essere adempiuto nel breve termine concesso dalle Nazioni unite.
La distruzione delle armi chimiche non è infatti impresa di poco conto, né dal punto di vista tecnico né da quello finanziario. Le sostanze letali non si possono semplicemente distruggere con qualche arnese da demolizione, ma devono essere trattate in modo da essere rese inoffensive mediante procedimenti chimici complessi, adeguati a escludere ogni possibilità che singoli componenti possano ancora produrre effetti nocivi. Questi procedimenti richiedono impianti speciali, attrezzature “dedicate”, personale qualificato nonché particolari cautele per la sua protezione: dunque tempi lunghi, inevitabilmente. Soluzioni meno sofisticate ma più sbrigative, quali occultamento, interramento o dispersione in mare delle sostanze nocive non vanno nemmeno ipotizzate, per ragioni fin troppo evidenti di tutela della salute e dell’ambiente.
Gli originari stati contraenti della Convenzione hanno avuto un termine di ben dieci anni per portare a termine la distruzione delle proprie armi chimiche. Questo periodo è scaduto già da tempo, nel 2007: molto però resta da fare. Vari stati, incluse le Potenze che disponevano dei maggiori arsenali chimici, come Stati uniti e Russia, hanno a suo tempo dichiarato di non essere in grado di adempiere entro la prima scadenza ed hanno ottenuto dall’Organizzazione delle proroghe. Secondo l’ultimo rapporto disponibile, alla fine del 2011 la distruzione delle armi chimiche in quegli stati non era ancora conclusa, pur se entrambi dispongono di impianti tecnicamente idonei.
Niente lascia sperare che in Siria vi siano attrezzature idonee alla distruzione delle armi chimiche, una possibile soluzione è che le armi vengano trasferite verso i Paesi dove tali impianti esistono, e che lì si provveda alle operazioni necessarie. Si configura peraltro un ostacolo giuridico: la risoluzione del Consiglio di sicurezza vieta infatti alla Siria anche il trasferimento delle armi al di fuori del Paese, queste dovrebbero quindi essere prese in consegna e trasportate a cura di funzionari internazionali a ciò debitamente autorizzati. Peraltro, è chiaro che se tali impianti già operanti in altri stati, ad esempio, in Russia, fossero adibiti alla distruzione delle armi siriane, resterebbe contemporaneamente fermo il processo non ancora concluso di distruzione delle armi chimiche della ex-Unione Sovietica.
La risoluzione 2118 non autorizza l’uso della forza e quindi non vi è la possibilità che gli agenti delle Nazioni unite possano ottenere con la forza la consegna delle armi chimiche o l’accesso ai siti in cui sono custodite. Poiché varie sono le fazioni in lotta nel Paese, è possibile che alcune forze non riconducibili al Governo ufficiale abbiano ora la disponibilità o il controllo di quantitativi di armi chimiche. Pur se la risoluzione si rivolge a tutte le parti del conflitto, la possibilità concreta di contare sulla collaborazione delle fazioni ribelli è tutta da verificare, anche perché il consenso alle operazioni di distruzione è stato dato dal Governo ufficiale. La situazione dunque appare estremamente complessa: non dimenticando, poi, che il conflitto ancora in corso e la mancanza di una autorità centrale ovunque riconosciuta, in grado di assumere interamente la responsabilità delle operazioni e garantire il loro corretto svolgimento, potrebbe favorire tentativi di arrivare alla disponibilità delle armi chimiche da parte di organizzazioni criminali o gruppi terroristici.
Il direttore generale dell’Opcw, nella sua dichiarazione successiva al conferimento del premio Nobel non ha mancato di rilevare la impressionante difficoltà del compito affidato all’Organizzazione: “Never in the history of our organisation have we been called on to verify a destruction program within such short timeframes – and in an ongoing conflict”. Ma, non per questo il premio deve apparire poco opportuno o conferito… in anticipo: anzi, il riconoscimento fa percepire l’importanza dell’Opcw all’opinione pubblica e favorisce il clima di cooperazione con la stessa alla quale il Consiglio di sicurezza con la risoluzione 2118 ha chiamato tutti gli stati, con l’invito a supportare l’Organizzazione con ogni mezzo possibile.
Alessandra Pietrobon