SOCIETÀ

Homo roboticus: per il Censis ormai siamo degli androidi

Siamo nell’era biomediatica. O almeno così la definisce il Censis, coniando per l’occasione il neologismo nel suo undicesimo rapporto sulla comunicazione. Un’epoca storica nella quale l’io digitale coincide ogni giorno di più con quello fisico. Svicolata da pseudonimi, l’identità virtuale si racconta in rete attraverso foto e informazioni personali. Il mondo gira intorno all’individuo che, grazie alla miniaturizzazione dei dispositivi e alla mobilità delle connessioni, può informarsi in ogni istante su ciò che lo circonda, o ciò che lo interessa. Proseguendo nella loro darwiniana descrizione della rete, gli autori della ricerca arrivano ad azzardare anche una “evoluzione digitale della specie” di una portata storica comparabile all’evoluzione successiva alla scoperta del fuoco, nella quale “le tecnologie digitali si stanno fondendo con la nostra dimensione corporea e mentale”. In tutto questo, il concetto di privacy subisce modificazioni importanti, limitato da una necessità collettiva di condivisione digitale che mano a mano prevale sul diritto alla riservatezza personale.

Anche gli italiani, storicamente tradizionalisti, vengono travolti dal questo tornado mediatico. E ne rimangono disorientati: diffidenti, poco attrezzati per affrontarlo, apprensivi. La ricerca del Censis, che monitora i consumi dei media di un campione rappresentativo della popolazione italiana (all’interno del quale la quota di utenti internet è il 63,5%), registra una rivendicazione plebiscitaria del diritto all’inviolabilità della privacy. Eppure solo il 40,8 % del campione adotta una qualche forma di autotutela, mentre il 36,7% non se ne preoccupa. Il 22,5% rinuncia al servizio pur di proteggersi. 

Nel rapporto, la contraddizione nei comportamenti degli italiani continua ad affiorare a più riprese. Segno d’impreparazione di una grande fetta della società nell’affrontare un fenomeno ormai completamente maturo. È così che si richiede a gran voce un inasprimento della normativa a tutela della riservatezza, nonostante il 14% degli intervistati consideri inutile proteggere la privacy, poiché ne vede azzerato il valore dai social network; e il 24,5% pensa sia addirittura impossibile. Nonostante ciò, la quasi totalità del campione ritiene comunque che debbano essere le istituzioni a farsi carico della tutela dei dati presenti in Internet, rivendicando per sé anche il “diritto all’oblio” (70%), ossia la possibilità di veder cancellati tutti i propri dati dalla rete. Un deresponsabilizzazione quasi assente nel resto d’Europa, dove è l’individuo a dover tutelare le proprie informazioni personali. Inoltre, il mercato dei dati digitali sembra essere del tutto sconosciuto a un italiano su tre: una mancanza di consapevolezza non solo tecnica, dunque, ma anche dei meccanismi che regolano l’Internet economy. Il trade-off informazioni personali/servizi non sembra essere ben conosciuto: aumenta la disponibilità a cedere i dati in cambio di utilità o compensi (13%), ma un italiano su tre non vi attribuisce invece alcun valore.

A livello economico i dati personali oggi hanno invece un valore per le aziende, che propongono servizi personalizzati e più efficienti come contropartita. Ma a quale costo? Forse consapevoli della propria incapacità nel difendersi, o della propria inerzia, nove italiani su dieci temono che la propria privacy possa essere violata on line; tre su dieci denunciano di aver effettivamente subito conseguenze negative. Non stupisce dunque che il 40% dichiari di essere disposto a comunicare i propri dati solo a soggetti fidati (in questo contesto emergono enti pubblici e banche come organismi più affidabili) e il 30% si dica non disposto a farlo a nessuna condizione. Nonostante ciò, si sentono comunque osservati, tracciati da app, cookies, gps, social network di terzi che inseriscono foto e informazioni sulla propria persona.  

La ricerca ha anche cercato di dare un prezzo ai diritti sulle informazioni personali, stimando che gli italiani sarebbero disposti a pagare ciascuno circa 19,20 euro all’anno per difendere la propria privacy on line. Nonostante la cifra non sia esorbitante, complessivamente arriverebbe però ad ammontare a 590 milioni di euro, una cifra che muoverebbe in modo consistente una buona fetta di mercato. Che si possa guadagnare, e parecchio, dai timori dei navigatori di Internet, lo hanno capito le imprese IT, che destinano alla cyber security in media il 15% del loro fatturato complessivo, e cominciano a dotarsi della figura del professionista della privacy, con l’incarico di “gestire i benefici e i rischi connessi al trattamento delle grandi quantità di dati personali in possesso delle aziende”. Pare infatti che il nuovo regolamento europeo in materia prevederà l’obbligatorietà di un privacy officer nelle grandi aziende. E nel nostro piccolo quotidiano, nella casa di vetro della nuova vita digitale, gli amministratori dobbiamo imparare a essere noi. Senza delegare.

Chiara Mezzalira

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