SOCIETÀ

I droni, l'arma perfetta delle nuove guerre

Una sera mite d'agosto, in Pakistan, nel 2009. Baitullah Mehsud, un leader dei talebani, sta riposando malato con la sua famiglia vicino nel villaggio di Zanghara, nel sud del Waziristan. Due miglia più in là, un drone Predator statunitense punta su di lui una telecamera a infrarossi: le immagini sono così nitide che si può vedere Mehsud a letto, con al braccio una flebo. Acquisito il bersaglio, il Predator lancia due missili Hellfire: pochi istanti, e di Meshud non resta che un cadavere irriconoscibile. Altre undici persone, tra cui la moglie e la suocera, hanno trovato la morte nell'attacco. 

Mehsud era un acerrimo nemico del Governo pakistanano, ma non costituiva un pericolo diretto per gli Stati Uniti: la sua eliminazione, come scrive in “Killing Machine” Mark Mazzetti, premio Pulitzer e noto corrispondente in materia di sicurezza nazionale del New York Times, si può descrivere piuttosto come un “goodwill kill”, una sorta di uccisione per favore

Un drone è un aeromobile a pilotaggio remoto, ossia un velivolo privo di pilota umano a bordo e controllato da un operatore a distanza, situato anche a migliaia di chilometri grazie al controllo satellitare. Piccolo, con un'ampissima autonomia e difficile da individuare, è l'arma perfetta per attacchi mirati. Uno strumento il cui uso apre ai comandi militari, ma soprattutto alle agenzie di intelligence, possibilità di azione prima difficilmente attingibili per i costi, i rischi e le difficoltà che comportavano. Come l'uccisione di Meshud: non un episodio isolato, ma parte di una precisa strategia di alleanze e di un nuovo modo di fare le guerre, sostiene l'autore in questo lavoro. Partendo delle operazioni militari statunitensi condotte in Pakistan, Mazzetti in questa sua ultima inchiesta esamina la stretta alleanza della CIA con l'ISI, agenzia di intelligence pakistana, e il conflitto che questa allenaza ha invece provocato con l'MI6, l'agenzia di spionaggio della Gran Bretagna da sempre operante nell'area. 

Secondo la ricostruzione di Mazzetti, il primo attacco americano che si avvale di droni in territorio pakistano risale al giugno 2004, durante l'amministrazione Bush. L'obiettivo è Nek Mohammed Wazir, anche in questo caso una minaccia marginale per gli Usa ma acerrimo nemico dell'ISI. La missione statunitense ha come contropartita l'apertura, per la prima volta, dello spazio aereo pakistano ad ulteriori futuri attacchi. Il libro mette in luce le disponibilità, dopo la presidenza Bush, anche di quella di Barak Obama ad azioni clandestine volte all’uccisione di un obiettivo prefissato. Non si tratta di una novità, scrive Mazzetti: Obama "non è il primo presidente democratico progressista a sposare le 'operazioni nere', scientifiche e omicide. John F. Kennedy mise la firma definitiva sullo sbarco alla Baia dei Porci e aumentò le operazioni clandestine in Vietnam". Secondo l'autore, Obama sancisce il passaggio, in termini di intelligence, dal “martello” al “bisturi”, superando la fase delle operazioni militari su ampia scala che aveva caratterizato la guerra al terrore dell'amministrazione Bush dopo l'11 settembre 2001. 

A riguardo, Mazzetti riporta un passaggio saliente: il momento in cui Leon Panetta, direttore della Central Intelligence Agency, si presenta alla Casa Bianca con la richiesta di approvazione di una serie di operazioni paramilitari della CIA in Pakistan. Panetta domanda che la flotta di droni in dotazione venga aumentata e l'autorizzazione, da inoltrare al Governo pakistano, a usufruire di corridoi aerei più ampi, che coprano anche le "zone tribali" ritenute santuari talebani: i cosiddetti "flight boxes". Obama, racconta Mazzetti, sposa le richieste di Panetta: "La CIA - dice il Presidente - otterrà quello che vuole".

In conseguenza di queste decisioni, con l'amministrazione Obama potere e autonomia decisionali della CIA appaiono largamente accresciuti. Il nuovo ruolo dell'Agenzia è esemplificato anche da una riunione nella sala operativa della Casa Bianca, nel giugno 2011. In tale occasione Cameron Munter, ambasciatore Usa a Islamabad, protesta contro gli attacchi condotti con droni, chiedendo di poter opporre il veto ad attacchi reputati eccessivamente rischiosi o non giustificati. La CIA ha infatti da poco portato a termine un bombardamento durante una riunione del consiglio tribale in un villaggio nel nord del Waziristan uccidendo decine di civili e provocando grandissima indignazione nel popolo pakistano. Panetta rifiuta seccamente, Hillary Clinton, Segretario di Stato, sostiene Munter. Con la mediazione del consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, Tom Donilon, si giunge a un compromesso: Munter è autorizzato a sollevare obiezioni su specifici attacchi condotti con droni in territorio pakistano, tuttavia l'approvazione ultima spetta alla Casa Bianca. In questo modo, nota Mazzetti, è la CIA a spuntarla: nei fatti può continuare ad operare rispondendo soltanto al presidente. Da lì a poco, Munter si dimette.

Sotto la lente di Mazzetti prende forma l'evoluzione della CIA da quando l’amministrazione Bush, all’indomani dell’attacco di al Qaeda e nel quadro della guerra al terrore ha restituito all'agenzia di spionaggio statunitense la "licenza di uccidere" persa negli anni Settanta, dopo il Vietnam. 40 anni dopo le guerre sono cambiate completamente: oggi si conducono attraverso conflitti ombra e operazioni coperte, case officer impegnati all'interno di sommosse locali, agenti infiltrati nelle élite di paesi lontani per influenzarne gli equilibri o per eliminare avversari politici. Le agenzie di intelligence in questo quadro, nota l'autore, diventano sempre più organismi militari  e prendono il posto di stati maggiori e truppe regolari, e la “prima linea” - come in Pakistan, Somalia e Yemen - è affidata ai Predator pilotati via satellite. Ovvero quelle "Killing Machines" che danno il titolo al libro ma che diventano anche, di pagina in pagina, metafora di un uso sempre più difficilmente giustificabile di operazioni militari ed eliminazioni mirate al di fuori di conflitti dichiarati. Una situazione che, come prova la cronaca più recente, può divenire politicamente imbarazzante per l'amministrazione Obama.

È infatti di questi giorni la notizia che una Corte d'Appello federale statunitense, a seguito di una causa intentata dal New York Times e dall'American Civil Liberties Union, ha ordinato al Dipartimento di Giustizia americano il rilascio dei documenti relativi all'attacco che nel settembre 2011 ha portato alla morte di Anwar al-Awlaki, un imam e militante islamico di origine yemenita ma nato negli Usa. Nei documenti in questione, noti come "Memorandum Barron", si definiva la base giuridica per l'uccisione extragiudiziale di al-Awlaki: la maggior parte dei memo sugli attacchi da parte di droni statunitensi contro sospetti terroristi, compresi i cittadini americani, andrà quindi declassificata. L'amministrazione Obama ha 60 giorni per decidere se ricorrere in appello o rendere pubblico il documento; la comunità di intelligence degli Stati Uniti e l'Ufficio del Direttore della National Intelligence esprimono parere fortemente negativo sulla divulgazione, i liberal spingono per l'assoluta trasparenza. 

Il dibattito sul rilascio dei memorandum è un tema già noto al presidente Obama, che nei primi mesi del suo mandato aveva deciso di divulgare i promemoria militari dell'era Bush, tra cui gli scottanti “Torture memos” che ritengono legalmente legittime, sulla base di un'interpretazione estensiva dei poteri presidenziali giustificata dallo stato di "guerra al terrorismo", le pratiche di sofferenza fisica e mentale e di coercizione. 

Per Barak Obama, che ha descritto la sua azione politica come “la più trasparente di sempre”, la questione dei memorandum può diventare dunque un vero e proprio tallone d'Achille. Se il Presidente decidesse di non diffondere il documento, offrirebbe il fianco agli oppositori. Se lo rilasciasse, dovrebbe affrontare il malcontento di esponenti della sua stessa Amministrazione e dei “falchi” della sicurezza nazionale. Un nodo politico del quale nell'inchiesta, rigorosa e assieme fortemente critica, di Mazzetti si trovano tutte le premesse.

Gabriele Nicoli

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