SOCIETÀ

La rivoluzione in casa Basaglia

Alberta ascolta i discorsi e abita gli spazi dei grandi, piega la testa per poter vedere meglio, sfidando i limiti imposti da un difetto agli occhi, non ascolta le canzonette del Carosello in tivù, ma la “musica dalle finestre aperte”, le note di Mozart, Bach e Scarlatti. Porta un cognome importante e vive un’infanzia ‘diversa’, a stretto contatto con la follia, ma in un clima di assoluta normalità. Perché Alberta lo sa, “la diversità basta accettarla, anche quando è talmente tangibile che non si può far finta che non esista, come nel caso dei matti”.

Le nuvole di Picasso (Feltrinelli) racconta la sua storia, segue i primi passi di un’esistenza fatta di eventi straordinari e una (quasi) ordinaria quotidianità. Cresce vestendo i panni della figlia di Franco Basaglia (Venezia, 1924–1980), psichiatra e ispiratore della Legge 180 del 1978, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, per la riforma dell’organizzazione dell’assistenza psichiatrica in Italia, una rivoluzione che partì dall’ospedale psichiatrico di Gorizia, “dove Franco – si legge nel libro – andò a lavorare agli inizi degli anni Sessanta, perché risultava troppo ingombrante per la sua clinica universitaria di Padova. Il suo era un lavoro che intrecciava in modo sacrilego la filosofia alla psichiatria... Più che la malattia gli interessava il malato”.

Oggi Alberta Basaglia vive e lavora a Venezia. È psicologa (“non psichiatra”, ci tiene a sottolineare), responsabile del Servizio partecipazione giovanile e cultura di pace del Comune e ha guidato, per anni, il Centro donna e il Centro antiviolenza. È inoltre consigliera di fiducia dell’università di Padova. “Ho scritto una storia avventurosa ed emozionante perché a chiedermelo sono stati i bambini – spiega – Con loro ho lavorato per anni realizzando alcuni progetti pensati per favorire l’incontro con chi è diverso. Mi è sempre interessata di più l’opinione dei piccoli rispetto a quella dei grandi: i loro occhi non sono gli occhi dell’innocenza ma di chi, senza sovrastrutture, vuole capire davvero le cose. Quando i ragazzi scoprono che mi chiamo Basaglia, mi chiedono se io da piccola avevo paura dei matti e vogliono sapere cosa mi diceva il mio papà. Sono stati loro a convincermi a scrivere e io ho iniziato a raccontare”.

Con l’aiuto della giornalista Giulietta Raccanelli, Alberta racconta le esperienze, i sogni e le prime volte di una bambina che disegnava splendide nuvole, sempre in viaggio tra l’Italia e il resto del mondo, al seguito dei genitori psichiatri, Franco e Franca, e del fratello-eroe Enrico, “il mio Zorro, il mio Piccolo Principe, il mio Nembo Kid”, immersa nel senso di una ‘normale diversità’ (“basta solo riconoscere il diverso da te – scrive nel suo libro – e non farti fagocitare dall’ansia che costringe a incasellare tutti e tutto in regole e categorie precise che pretendono di dare un ordine tranquillizzante al mondo”). Tra discussioni e voglia di cambiamento, circondata da adulti intellettuali e matti “senza più catene e camicie di forza”, grazie al ‘professor’, il suo papà. Da Velio, che per anni aveva solo sognato di dipingere e con Basaglia l’aveva fatto davvero, a Carletto che, oltre alle scarpe e alle calze, da poco riconquistate, chiedeva ora anche una pipa e una cravatta, o ancora la signora Pierina, “la sigaretta sempre in bocca o stretta fra le dita non curate” e un odore acre che anticipava il suo passaggio, che “se ne stava per ore di fianco allo stipite chiedendo di entrare e di vedere Franco”.

Tre universi in un’unica vita: l’universo dei bambini, quello dei matti e quello dei grandi, accolti negli stessi spazi e in un tempo condiviso e dedicato al cambiamento.

Alberta osserva e accompagna la rivoluzione del padre carismatico, amato persino dagli studenti del Sessantotto che, al grido di “Voglio esser orfano”, rinnegavano la famiglia come istituzione, raccontato da Sergio Zavoli nel programma I giardini di Abele: “Nel novembre 1962 l’équipe psichiatrica diretta dal professor Franco Basaglia apre il primo reparto dell’ospedale e inaugura, anche in Italia, la comunità terapeutica. La vita dell’ospedale è regolata da assemblee di reparto e da assemblee generali. I malati riacquistano un ruolo umano e sociale. Gestiscono se stessi, la loro esistenza, attraverso una continua comunicazione con chi li cura. Soppressa la cura carceraria dell’istituzione, si comincia a studiare la natura del pregiudizio”.

Francesca Boccaletto

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