SCIENZA E RICERCA

Le frontiere della diagnosi prenatale

Nel 2015 nel mondo 18 bambini ogni 1.000 sono nati morti, soprattutto nei paesi a basso e medio reddito. Lo sottolinea l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che aggiunge come i progressi nel ridurre questo tasso siano lenti: allo stato attuale passeranno 160 anni perché una donna in Africa abbia le stesse probabilità che suo figlio nasca vivo rispetto a una madre che vive in Paesi ad alto reddito. In questi ultimi d’altra parte sono ancora possibili miglioramenti, se si considera che i bambini nati morti variano da 1 a 8 ogni 1.000. Certo va detto, più in generale, che passi in avanti ne sono stati compiuti, specie nei paesi occidentali. Determinare precocemente le situazioni a rischio, eventuali patologie o malformazioni del bambino, assicurando alla madre una gravidanza sicura diventa fondamentale, specie se si tiene conto che l’età delle donne al momento del parto è progressivamente aumentata. Nuove possibilità vengono offerte oggi dalla genetica, al punto che malattie come la sindrome di Down possono essere individuate con un semplice prelievo del sangue della madre. 

“C’è stata una crescita vorticosa di conoscenze nel campo della genetica – spiega Maurizio Clementi, docente dell’università di Padova e direttore dell’unità operativa di Genetica ed epidemiologia clinica dell’azienda ospedaliera – e le tecniche che di conseguenza si sono sviluppate hanno reso possibile degli accertamenti che in passato erano impensabili. Avere a disposizione dei metodi che ci permettono di studiare l’intero genoma ha permesso di pensare come sviluppare la diagnosi prenatale in modo tale che sia il più precoce e il meno invasiva possibile”.  

Molti i progressi compiuti negli ultimi anni: si parla ormai di ecografia 4D, di risonanza magnetica fetale per individuare eventuali anomalie del feto, di  comparazione quantitativa del Dna (Array – Comparative Genomic Hybridization) che si effettua quando il bambino è affetto da una malformazione. Ma è in particolare su due nuove tecniche che si concentra oggi l’attenzione. Si tratta dei test di screening prenatale non invasivi (“Non Invasive Prenatal Test” – Nipt) su Dna fetale circolante e della diagnosi genetica preimpianto (Pgd) che si effettua sull’embrione in caso di fecondazione in vitro.

“A partire dal primo trimestre di gravidanza – spiega Clementi – nella circolazione sanguigna della madre è presente Dna di origine fetale, o più precisamente placentare, che ora può essere analizzato grazie alle nuove tecnologie. Il Nipt consente in questo modo di individuare la presenza di malattie come la sindrome di Down, di Patau e di Edwards con un semplice prelievo del sangue”. È una procedura assolutamente innocua, un test di screening che può risparmiare alla madre una amniocentesi o una villocentesi, al contrario dei test di screening attualmente utilizzati che hanno ancora molti “falsi positivi” (sostanzialmente danno falsi allarmi) e falsi negativi (non identificano i malati). Il Nipt è invece un test affidabile al 99%, come ha dimostrato uno studio condotto dal Great Ormond Street Hispital for Children di Londra su più di 2.500 donne a rischio di avere un figlio affetto dalla sindrome di Down. E ha meno dell’1% di falsi positivi. Tanto che a raccomandarlo è stato anche lo UK National Screening Committe. Va precisato tuttavia che, trattandosi di uno screening, le madri che risultassero positive al Nipt dovrebbero poi sottoporsi a esami invasivi come amniocentesi o villocentesi. Si tratterebbe comunque di un numero molto inferiore rispetto a ora e, di conseguenza, diminuirebbe ro anche i possibili rischi di aborto connessi con le tecniche invasive. 

Al momento il test viene effettuato solo in regime privatistico con costi molto elevati che possono raggiungere anche i 900 euro, in ambulatori collegati con aziende in larga parte straniere che si fanno materialmente carico di eseguire il test. Il ministero della Salute è intervenuto qualche mese fa sull’argomento con un documento in cui valuta la possibilità di introdurre il Nipt nell’ambito del sistema sanitario nazionale, le Linee-Guida Screening prenatale non invasivo basato sul Dna, allineando in questo modo l’Italia agli altri paesi europei in previsione di offrire il test ogni anno a circa 50.000 potenziali mamme. “La ricerca – sottolinea Clementi – conferma che il test  è sicuro e certamente avrà una diffusione rapida nei prossimi due, tre anni e diventerà una tecnica di uso comune. Ora si discute su quale sia la procedura molecolare migliore da seguire”. L’intenzione, come si evince anche dal documento ministeriale, è di ottimizzare risorse e competenze, programmando per l’esecuzione del test una “centralizzazione dei laboratori di screening in un numero limitato di strutture, con un’utenza sovraregionale”. In questo modo si riuscirebbero a contenere i costi che diventerebbero competitivi con quelli ora necessari per le procedure di diagnosi prenatale invasive, come amniocentesi e villocentesi. Si tratta, secondo Clementi, di “rimodellare le spese della diagnosi prenatale”. Pochi centri specializzati, dunque, che lascino però alle diverse realtà territoriali la fase di consulenza che precede il test, del consenso informato e di comunicazione dell’esito. 

Anche nel caso delle fecondazioni assistite l’analisi genetica apre a possibilità finora non praticabili, tra l’altro per le restrizioni della normativa vigente nel nostro Paese fino a non molto tempo fa. Solo nel 2015 infatti una sentenza della Corte Costituzionale autorizza in via definitiva la cosiddetta diagnosi genetica pre-impianto, che informa sulla presenza di eventuali malattie genetiche dell’embrione prima che questo venga impiantato nell’utero. “In questo modo – illustra Clementi – è possibile unire le nuove acquisizioni tecniche alle recenti opportunità legali. Utilizzando infatti una sola cellula si riesce a stabilire se l’embrione presenti o meno alterazioni genetiche. E ciò permette di procedere con l’impianto nell’utero dei soli embrioni sani, congelando gli altri”. Solitamente il test viene proposto alle coppie “a rischio”, a genitori cioè che hanno già una patologia in famiglia o che non vogliono andare incontro a eventuali interruzione di gravidanza. 

Come il Nipt anche la diagnosi genetica pre-impianto in Italia viene fornita quasi esclusivamente in centri privati. “La legge è molto recente – argomenta il docente -, esistono ancora difficoltà di interpretazione e le strutture pubbliche non si sono ancora attrezzate in questo senso. Senza tener conto dei risvolti etici che questo tipo di diagnosi può comportare”. Possibilità e limiti ancora al vaglio, dunque, per una tecnica non ancora così diffusa per ora nel nostro Paese.   

Monica Panetto

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