SOCIETÀ

L'innocenza perduta dei videogame

Finn Williams , urbanista inglese di chiara fama, nelle settimane scorse ha tentato – su sollecitazione del Guardian – di costruire dal nulla una città (virtuale) felice e funzionante e ha fallito miseramente: gli abitanti se ne sono andati, strade e palazzi sono caduti in miserevole abbandono, il bilancio cittadino corroso da debiti di “magnitudine greca”.

Il fallimento si è consumato sulla più recente release di Cities: Skylines, uno dei videogame più popolari di simulazione, che consente – come il già famoso SimCity – di costruire e gestire città, controllandone successo e felicità. Un parametro, quest’ultimo, che permette al giocatore di visualizzare la soddisfazione generale dei cittadini che crea: “quando i cittadini vedono soddisfatti i loro bisogni, hanno un lavoro e posti dove andare a spendere, sono felici e pagano più tasse” (Skylines dixit). I passi necessari per una corretta crescita urbana sono chiari, dichiarati anche nel wiki di supporto al gioco. Un paesino di 500 abitanti può costruire una scuola elementare e una clinica (educazione e salute prima di tutto), con 1.300 residenti si ha diritto a un liceo, a 7.000 si può ambire a costruire un’università. Il cimitero arriva dopo quota 2.400 abitanti (prima evidentemente non si muore), a 10.000 ci sono la stazione merci e un impianto idroelettrico, a 16.000 sia inceneritore che depuratore (l’ambiente è importante), a 40.000 direttamente un impianto nucleare. Ai neofiti si suggerisce di partire costruendo una strada principale, via di transito da e per l’infinito... Williams invece voleva mettere in piedi una città basata su risorse finite, lontana dal consumismo e dal mito della crescita illimitata.

Qualche anno fa, Miguel Sicart, allora agli esordi della sua carriera di ricercatore esperto di game studies, mise alla prova The Sims, altro famoso gioco di simulazione. Si costruì un primo personaggio femminile ed ebbe successo, soldi, una bella casa. Poi provò con un secondo personaggio femminile, madre single e disoccupata: alla fine riuscì a far quadrare i conti, grazie a un impiego come padrino della mafia locale – un lavoro evidentemente in nero, ma con orari molto comodi. Alla fine provò a essere Kurt Cobain, grande talento, molta inquietudine, vita coniugale disastrosa, dipendenze da alcol e droga. Il gioco non gli permise di consumare droga (ma poteva ubriacarsi) e gli impose di essere felice con la moglie, facendo qualche lavoretto come musicista. Il genio dannato non trova spazio nei mondi simulati.

Per Sicart come per Williams – e il suo collega Karl Mathiesen, che sempre per il Guardian ha giocato alla eco-città – il punto, nemmeno tanto nascosto, è la confusione tra simulazione e rappresentazione. In quelli che si presentano come giochi di simulazione della realtà, non è possibile andare fuori dai binari prestabiliti e si può progredire solo in base a regole prefabbricate. Molto ovvio: ogni gioco ha le sue regole, un videogame scorre in base ad algoritmi dati in precedenza, e l’attività ludica nasconde da sempre intenti descrittivi e prescrittivi della cultura in cui si inserisce. Quanti studi di genere si sono soffermati ad esempio sui giocattoli dedicati a maschietti e femminucce? La simulazione sociale del gioco nasconde – si sa – la rappresentazione di valori ben definiti.

Inevitabile domandarsi quindi quali siano i valori descritti e implicitamente tramandati in questi giochi di simulazione e come questi possano influire su educazione, mentalità, valori, scelte politiche del giocatore una volta dismessa la consolle. Potrebbero funzionare come veicoli di educazione civica (premiando ad esempio il riciclo, il controllo sull’inquinamento o l’uguaglianza di genere) o sono funzionali a cullarci nel limbo di una finta consapevolezza? A metà tra le radiose donne perfette dell’omonimo film e le oscure visioni distopiche dei romanzieri novecenteschi, queste città virtuali votate al successo instilleranno in noi la convinzione che la società umana è riconducibile a un algoritmo? C’è già chi medita sull’inquietante somiglianza tra questi sindaci virtuali e le ultime generazioni di politici, cresciute a colpi di SimCity e Civilization.

Un ultimo dubbio. Quale potrebbe essere il risultato (reale) dell’accoppiata di una mentalità da SimCity e la potenza (non così astratta) di statistiche e big data? L’immaginazione rifugge, come direbbe Wodehouse.

Cristina Gottardi

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