SCIENZA E RICERCA

Agricoltura intensiva e perdita di biodiversità: un’altra strada è possibile

Tra i principali fattori che determinano la diminuzione della biodiversità – fenomeno che, a causa della sua estensione, è stato riconosciuto come la Sesta estinzione di massa della storia della vita sulla Terra – vi è la perdita di habitat. E larga parte della perdita di habitat va a sua volta imputata all’espansione dell’agricoltura su scala mondiale, spinta dal costante incremento della popolazione umana e, parallelamente, dal graduale aumento del benessere e dall’adozione di diete più caloriche e caratterizzate da un maggiore consumo di prodotti animali, che hanno il più alto impatto ambientale.

Come riporta uno studio condotto da un gruppo di ricercatori inglesi e italiani, pubblicato sulla rivista Nature Sustainability, «secondo le proiezioni basate sulla crescita della popolazione e sulla trasformazione delle diete, si stima che [nei prossimi decenni] saranno necessari tra i 2 e i 10 milioni di chilometri quadrati di nuovi terreni agricoli, che saranno resi disponibili in larga parte a spese degli habitat naturali». A partire da questi dati, gli studiosi hanno sviluppato una valutazione degli habitat che potrebbero andare perduti nel periodo compreso tra il 2015 e il 2050 se si proseguirà nella direzione attuale, seguendo il modello cosiddetto business as usual. Per l’analisi sono state prese in considerazione circa 20.000 specie di vertebrati terrestri (uccelli, mammiferi e anfibi), delle quali si sono studiati gli habitat abituali e i loro possibili cambiamenti.

Il risultato è allarmante: «Seguendo le traiettorie attuali, prevediamo che l’87,7% delle specie (17.409 specie) potrebbe perdere parte del proprio habitat entro il 2050, che il 6,3% potrebbe non subire alcuna riduzione o cambiamento di habitat e che il 6% potrebbe vedere un incremento dell’area del proprio habitat grazie alla propria capacità di sopravvivenza nelle aree agricole». Inoltre, si prevede che, entro il 2050, 1.280 delle ventimila specie studiate perdano almeno il 25% del proprio habitat, venendo così esposte al rischio di estinzione; la maggior parte di queste non sono attualmente considerate fra le specie a rischio, ma potrebbero diventarlo. Per di più, fra le specie maggiormente colpite (che perderanno il 50% o addirittura il 75% del proprio habitat) vi sono diverse specie già oggi inserite nella Lista Rossa della IUCN. Questi dati suggeriscono che l’espansione agricola potrebbe portare, nei prossimi decenni, all’aggravarsi dei tassi di estinzione di diverse specie terrestri sia su scala regionale che a livello globale.

L’impatto dell’incremento delle attività agricole, inoltre, non avrà le stesse conseguenze in tutto il mondo: alcune regioni, come l’Africa sub-Sahariana, l’America centrale, parti dell’America del Sud e del Sud-Est asiatico, saranno colpite in maniera più estesa e diretta. In generale, i luoghi più colpiti saranno quelli in cui si concentrano un’estesa perdita di habitat e un ampio numero di specie: in particolare, dalle proiezioni emerge che l’Africa sub-Sahariana e l’America latina contengono il 93% delle specie che rischiano di perdere più del 25% del proprio habitat.

I ricercatori non si sono limitati ad un approccio descrittivo: all’analisi dei possibili cambiamenti di distribuzione globale degli habitat naturali, infatti, è seguita una seconda fase di ricerca. A spiegare la ratio dello studio è proprio uno degli autori, Francesco Ficetola, zoologo e docente all’università Statale di Milano: «A muovere le nostre ricerche è la volontà di comprendere in che modo stiano cambiando, in questi anni, gli habitat terrestri. Nel tempo, ci siamo resi conto che l’espansione dell’agricoltura è una delle attività umane di maggiore impatto sugli ecosistemi terrestri. Nel portare avanti questo studio, in un primo momento ci siamo concentrati sull’individuazione delle aree del mondo e delle specie terrestri che risentono maggiormente degli effetti dell’agricoltura, ad esempio a causa della modificazione della destinazione d’uso dei terreni; in un secondo momento, abbiamo provato ad individuare alcuni degli interventi che potrebbero essere messi in atto per mitigare il problema e, auspicabilmente, per risolverlo su scala globale».

A questo scopo i ricercatori hanno prodotto degli scenari in cui mettono alla prova quattro possibili soluzioni che mirano ad armonizzare le necessità di sviluppo agricolo con le esigenze di conservazione della biodiversità:

  • Colmare, su scala globale, il divario oggi esistente fra i rendimenti delle colture;
  • Avviare in tutto il mondo una transizione verso diete più sane;
  • Dimezzare lo spreco di cibo;
  • Implementare, a livello globale, la pianificazione dell’utilizzo dei terreni agricoli.

Ognuno di questi provvedimenti è stato dapprima messo alla prova singolarmente: i risultati hanno mostrato una grande variabilità su scala regionale. Ad esempio, l’adozione di misure per ridurre il divario nei rendimenti dei raccolti sarebbe efficace soprattutto nell’Africa sub-Sahariana, dove, oggi, ad un generale scarso rendimento agricolo si somma una popolazione in rapida crescita, e dove, perciò, una maggiore efficienza permetterebbe di ridurre il rischio di eliminazione degli habitat in favore di nuovi terreni agricoli.  La transizione verso diete più salutari – e, di conseguenza, anche più sostenibili dal punto di vista dell’impatto ecologico – sarà una misura essenziale soprattutto nei paesi ad alto e medio reddito, dove l’apporto calorico giornaliero è alto (spesso superiore al necessario) e dove si consumano grandi quantità di prodotti di origine animale, che hanno un’elevata “impronta ecologica”. Anche lo spreco alimentare è un problema generalmente più pressante nei paesi benestanti, e ha un alto impatto sia a livello ambientale (le emissioni di CO2 causate dallo spreco di cibo sono tali che, se fossero prodotte da un singolo Paese, questo sarebbe il terzo più grande inquinatore mondiale), sia a livello sociale, viste le gravi disuguaglianze nella redistribuzione delle risorse disponibili. La soluzione che, se applicata singolarmente, si è dimostrata meno efficace a livello globale è la pianificazione della gestione dei terreni agricoli, misura che ha mostrato comunque i propri benefici soprattutto in aree come, ancora una volta, l’Africa sub-Sahariana, dove questo provvedimento sembrerebbe contribuire alla riduzione della domanda di nuovi terreni da sfruttare per scopi agricoli.

Quelle individuate dai ricercatori sono politiche che, come loro stessi specificano, «sono potenzialmente le migliori per combattere i fattori che saranno alla base del futuro declino della biodiversità nelle diverse regioni». «I risultati da noi ottenuto – proseguono gli autori – possono supportare una proattiva pianificazione sia nell’ambito delle strategie di conservazione sul campo, sia nell’ambito dei mutamenti che bisognerà realizzare nel settore alimentare» al fine di ridurre i rischi e di limitare i danni.

Inoltre, questi provvedimenti potranno avere effetti positivi non solo sul piano della tutela ambientale, ma anche in ambito sociale, contribuendo ad esempio a combattere l’insicurezza alimentare e a ridurre i rischi per la salute umana derivanti da diete scorrette, insalubri sia dal punto di vista sanitario, sia dal punto di vista ambientale. Perché obiettivi sociali e ambientali non entrino in conflitto, tuttavia, è necessario avviare una riflessione critica su alcune tendenze attualmente dominanti, come la crescita indiscriminata della popolazione. Spiega il professor Ficetola: «Nel corso della storia umana, l’aumento della popolazione è andato di pari passo con un aumento del livello generale di benessere. Sembra, però, che una volta raggiunto un certo livello di benessere questa tendenza si inverta, e il tasso di natalità diminuisca: è quanto sta accadendo nei paesi più avanzati, come in diverse nazioni europee e in Giappone, ma sembra che si stia andando in questa direzione anche in Cina, che guarda in questi giorni con preoccupazione ad un nuovo e inatteso trend di denatalità su scala nazionale. Ritengo – prosegue il professore – che questo disallineamento tra crescita della popolazione e innalzamento del livello di benessere sia un fatto positivo, poiché potrebbe contribuire a ridurre la pressione anche sui sistemi agricoli, senza negare l’accesso a migliori condizioni di vita a un numero maggiore di persone».

Nonostante le politiche delineate siano effettive anche se applicate singolarmente, gli scenari sviluppati dai ricercatori mostrano come un “approccio combinato” – cioè l’adozione concertata di tutte queste misure non solo su scala regionale, ma a livello globale – porterebbe a risultati decisamente più concreti: «Con un coordinamento globale e con interventi tempestivi – scrivono gli autori – dovrebbe essere possibile garantire una dieta sana alla popolazione globale entro il 2050 senza gravi perdite di habitat».

«Il nodo centrale, quando si viene alle decisioni politiche, è proprio questo: il coordinamento e la cooperazione internazionali», commenta Ficetola. «Le frontiere nazionali sono un’invenzione umana, a cui non corrisponde alcuna entità fisica: il mondo biologico ed ecologico nel quale viviamo è un’unità, e come tale bisogna trattarlo. I politici, invece, tendono purtroppo a dare priorità alle questioni interne, e spesso non riescono a superare una visione temporale di breve periodo. Al contrario, per far fronte a problemi globali come quelli legati alla crisi climatica – di cui la gestione del settore agricolo non è che una piccola parte – sarebbe necessario unire la visione locale con quella globale, riconoscendone l’interconnessione.

È altrettanto importante, tuttavia, far sì che anche i singoli cittadini si facciano carico del problema e siano parte della soluzione. Fra le misure da noi proposte, ad esempio, ve ne sono due che non possono essere implementate da leggi e divieti, e per favorire le quali la politica, in un contesto democratico, può intervenire solo in modo indiretto: si tratta dell’adozione di diete salutari e sostenibili e della riduzione dello spreco alimentare. In entrambi i casi, le scelte individuali saranno fondamentali: si può intervenire, nel lungo periodo, con l’educazione alimentare e ambientale, ma, alla fine, la scelta è lasciata al singolo. La cooperazione – a tutti i livelli – sarà, ancora una volta, cruciale».

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