Se è vero che la natura non ha bisogno dell’uomo, l’uomo ha certamente bisogno della natura. Il mantenimento della biodiversità è cruciale per il nostro benessere e la nostra sopravvivenza. I servizi ecosistemici gratuiti che l’ambiente ci garantisce (come l’impollinazione delle piante, la stabilità del suolo, la rifrazione della radiazione solare dei ghiacci solo per citarne alcuni) non sono sostituibili da impianti artificiali. Oggi stiamo andando incontro alla sesta estinzione di massa e l’uomo ne è la causa principale, è il meteorite che sta abbattendo la diversità e l’abbondanza delle specie viventi e gli ecosistemi da esse abitati.
Il Darwin Day si celebra ogni anno il 12 febbraio, giorno in cui nel 1809 nasceva il naturalista inglese. Oltre che a ricordare l’attualità del pensiero evoluzionistico, è un’occasione per parlare di scienza, di riflettere sul rapporto tra scienza e società e sulle sfide cruciali che l’umanità deve collettivamente affrontare, armata delle corrette conoscenze scientifiche. Su tutte la crisi ambientale e climatica, che assieme alle estinzioni è stata il tema centrale della XVII edizione del Darwin Day del Museo di scienze naturali di Milano, una delle 50 tappe in cui in tutta Italia si festeggia il compleanno del padre dell’evoluzione.
Darwin è stato tra i primi pensatori ad accettare la realtà delle estinzioni come tratto fondamentale della storia della vita sulla Terra, considerazione non banale in un’epoca in cui dominavano concezioni creazioniste ed essenzialiste (gli esseri viventi sono immutabili) della vita. Prima di lui di estinzioni si era occupato il naturalista francese George Couvier e l’inglese John Philips, uno dei più grandi geologi della storia.
Le estinzioni di massa per convenzione sono quelle in cui scompare il 75% o più delle specie viventi. Nella storia della vita sulla Terra ce ne sono state 5 di catastrofiche, le Big Five, e oggi se ne sta verificando una sesta che ripresenta alcune caratteristiche delle precedenti. Un elemento ricorrente in tutte le estinzioni di massa infatti, compresa l’ultima in corso, è il cambiamento climatico.
La storia evolutiva della nostra specie e di tutto il genere Homo è legata a doppia mandata con il clima. Le ondate di uscita dall’Africa, continente da cui è partita la nostra colonizzazione del globo a partire da circa 2 milioni di anni fa, sono state determinate dalle oscillazioni climatiche, che hanno spinto i nostri antenati a migrare per cercare areali più vantaggiosi per l’insediamento. Dentro e fuori dall’Africa ci siamo sempre contraddistinti per una spiccata capacità di modificare l’ambiente circostante a nostro vantaggio, estraendo le risorse ambientali fino all’esaurimento, per spostarci poi in zone più fertili.
Il processo ha un nome evolutivo: si chiama costruzione di nicchia e già Darwin ne aveva colto l’importanza, tanto che nei suoi ultimi anni aveva dato alle stampe un volume dedicato ai lombrichi e alla loro capacità di alterare l’acidità del suolo per adattarlo alle proprie esigenze di sopravvivenza. L’uomo ha portato agli estremi questo processo, fino ad abusarne.
A partire da almeno 10.000 anni fa questa strategia adattativa è diventata sistematica, con la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento. Queste pratiche si sono evolute ulteriormente sul profilo culturale e sono state strutturate in istituzioni, che sono anch’esse evolute di pari passo con la crescita demografica e con la complessificazione delle relazioni sociali. La modifica e lo sfruttamento dell’ambiente messi in atto a partire dalla rivoluzione industriale dell’Ottocento sono state accompagnate da quello che dal punto di vista evolutivo è un successo senza pari: da circa un miliardo abbiamo raggiunto oggi quasi gli 8 miliardi di abitanti.
I costi di questo successo sono stati però altrettanto stupefacenti: non era mai accaduto nella storia della Terra che una specie fosse la causa di un’estinzione di massa paragonabile alle 5 più grandi mai verificatesi. Il nostro successo evolutivo equivale al sacrificio della maggior parte delle specie e degli ecosistemi terrestri, al punto tale che questi costi arrivano a ripercuotersi, alla fine del cerchio, sui chi li ha provocati. La causa della catastrofe, dopo aver tratto vantaggio dalla catastrofe, arriva infine a subirne gli effetti.
L’anno scorso The Lancet, la più autorevole rivista medico scientifica al mondo, ha pubblicato un rapporto che mostra come i bambini nati dal 2019 in avanti avvertiranno direttamente sulla propria salute gli effetti dei cambiamenti climatici causati dall’uomo: in termini di maggiore esposizione al rischio di incorrere in malattie la cui diffusione è favorita dall’innalzamento delle temperature, in termini di aumento di eventi meteorologici estremi che causano fenomeni alluvionali, in termini di siccità e carestie.
La cosa più sorprendente è che se come specie siamo stati formidabili a cooperare su scala globale per provocare i cambiamenti climatici, non sembriamo altrettanto bravi a cooperare per limitarne gli effetti catastrofici. In termini evoluzionistici Homo sapiens si è infilato in quella che gli ecologi chiamano una trappola evolutiva. Non riusciamo a fermare l’abbrivio di sfruttamento insostenibile delle risorse naturali che ci ha contraddistinto per millenni. E anche per questo c’è una spiegazione evolutiva, che risiede nel nostro sistema cognitivo.
Il cambiamento climatico è una sfida con cui l’umanità non si è mai misurata in precedenza. La nostra cognizione è abituata a ragionare sul qui e ora, sa risolvere problemi circoscritti nel tempo e nello spazio e si trova in difficoltà a misurarsi con problemi sul lungo termine, intergenerazionali. Il cambiamento climatico è un oggetto di cui non vediamo i confini, di cui fatichiamo a comprendere le origini, che necessita di spiegazioni scientifiche specialistiche per essere capito e affrontato. Se a livello locale qualche comunità virtuosa ha capito che misure anche circoscritte possono dare un contributo alla lotta alla crisi climatica (mobilità sostenibile, raccolta differenziata efficace, riduzione del consumo di plastiche, riduzione delle emissioni), su scala globale ancora falliamo a trovare una soluzione condivisa, l’unica che può davvero contribuire a confinare entro certi limiti l’ormai irreversibile riscaldamento globale e la conseguente crisi climatica.
Sappiamo che ci restano pochi anni per agire se non vogliamo far gravare sulle spalle delle generazioni future un peso insostenibile. Le soluzioni spettano ai decisori politici e alle organizzazioni internazionali, ma il Darwin Day è un’occasione per inquadrare meglio il problema e far notare che è talmente ampio da aver raggiunto una portata evolutiva.