SCIENZA E RICERCA

L'impatto ambientale dello spreco di cibo

23 milioni di camion da 40 tonnellate a pieno carico. Anche attraverso la metafora non è facile immaginare che cosa significhi che ogni anno a livello globale vanno sprecati 930 milioni di tonnellate di cibo. Ma questa è la fotografia che esce dal Food Waste Index Report 2021 pubblicato lo scorso 4 marzo dal Programma della Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP). Non si tratta solo di un problema enorme che stride di fronte ai 690 milioni di esseri umani che secondo UNICEF hanno sofferto la fame nel 2019.  

Secondo Inger Andersen, direttrice dell’organizzazione, e gli autori del rapporto delle Nazioni Unite infatti è ora di cambiare prospettiva nei confronti dello spreco alimentare e trattarlo come un problema ambientale a tutto tondo. “Lo spreco alimentare grava anche sui sistemi di gestione dei rifiuti, esacerba l'insicurezza alimentare, rendendolo un importante contributo alle tre crisi planetarie del cambiamento climatico, della natura e della perdita di biodiversità, dell'inquinamento e dei rifiuti”, scrive Andersen nell’introduzione.

Lo spreco alimentare grava anche sui sistemi di gestione dei rifiuti ed esacerba l'insicurezza alimentare Inger Andersen, direttrice UNEP

Non sorprende quindi che nel presentare il documento alla stampa la stessa Andersen abbia dichiarato che “se vogliamo fare sul serio nell'affrontare il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l'inquinamento e i rifiuti, le imprese, i governi e i cittadini di tutto il mondo devono fare la loro parte per ridurre lo spreco alimentare”.

 

Non è facile quantificare

Fin dall’introduzione del rapporto emerge chiaramente la problematica scientifica legata al tentativo di capire di che cosa stiamo parlando. Non esiste un sistema condiviso di misurazione e analisi dello spreco alimentare a livello mondiale. Per questo motivo, tutti i numeri che vengono diffusi anche da fonti autorevoli come le Nazioni Unite sono delle stime, ragionevoli, accurate e fondate scientificamente, ma pur sempre un’arma limitata nel cercare di combattere contro la fame e lo spreco. 

Per questo motivo, il rapporto sullo spreco alimentare di quest’anno, basato sui dati del 2019, rappresenta anche una proposta metodologica che l’UNEP fa ai governi di tutto il mondo: si adotti un sistema comune che permetta di confrontare facilmente i dati e ci dia un quadro ancora più preciso della situazione, in nome del comune effetto che l’impatto ambientale dello spreco ha su tutti gli esseri umani.

Per il momento, comunque, il gruppo di ricerca che ha lavorato a queste stime ha fatto uno sforzo gigantesco di recupero delle informazioni. Alla base di tutto c’è uno scandaglio di ogni studio locale, regionale, che venga dall’accademia o dalle istituzioni governative di ogni paese del mondo per mettere insieme il corpus di dati più consistente possibile. Una volta raccolti, i dati sono stati armonizzati in modo da fornire un quadro il più possibile completo, ma che permettesse anche di fare dei confronti. Il risultato, che abbiamo riassunto nel planisfero qui sotto, racconta di uno spreco pro capite di diverse decine di chilogrammi di cibo ogni anno, sia che si tratti di paesi economicamente molto avanzati, sia che si vada a guardare i dati di economie meno floride. Come sottolineano i ricercatori nel rapporto, i dati mostrano che lo stereotipo secondo il quale solamente i cittadini dei paesi più ricchi sprecano il cibo non corrisponde alla realtà. E, per converso, non ha senso nemmeno l’immagine della persona in difficoltà economica che non butta via il poco che ha. Il quadro è più complesso.

Da notare che la mappa che abbiamo realizzato mostra (basta passare con il mouse sopra uno qualsiasi dei paesi) anche il grado di affidabilità dei dati che vengono mostrati: è un’indicazione che ci ricorda che stiamo comunque parlando di stime e dati compositi. Questo aspetto, però, non inficia il senso generale della mappa: lo spreco alimentare è diffuso a ogni latitudine.

 

Chi spreca di più

I dati che abbiamo deciso di rappresentare sul planisfero sono quelli relativi allo spreco in ambito domestico. La motivazione di questa scelta sta in uno dei risultati più importanti del rapporto UNEP. A livello globale, infatti, il 61% dello spreco è causato dal consumatore finale del cibo. Anche in questo caso siamo di fronte a un altro stereotipo che si sgretola: non è la vendita al dettaglio a sprecare la maggior parte del cibo. “Anzi, l’industria alimentare ha tutto l’interesse a ridurre al minimo gli sprechi per motivi economici”, ci spiega Fabio Licciardello, docente di tecnologie alimentari all’Università di Modena e Reggio Emilia. ”Il fatto che sia la parte finale della filiera, quella domestica, a contare di più in termini di spreco è oramai un dato consolidato nella letteratura scientifica”.

Forse sorprende un po’ chi ha meno familiarità con la tematica, ma i 67 chilogrammi di cibo sprecato in media ogni anno da ogni italiano in ambito domestico o gli 85 dei francesi non sono molto lontani dai 91 dei libici o dai 94 dei messicani. Certo che se messi tutti insieme, per nazione, fanno vedere dove un’azione di limitazione degli sprechi avrebbe immediatamente un effetto maggiore. In valori assoluti sono Cina e India, che assieme ammontano a circa un terzo della popolazione mondiale, i maggiori contributori a quei 930 milioni di tonnellate di cibo sprecato ogni anno.

Che fare?

Oltre all’ovvia riduzione degli sprechi, gli esperti dell’UNEP puntano su due aspetti fondamentali. Il primo è proprio quello di indagare in profondità e con precisione maggiore di quanto non si sia fatto finora su quanto sia effettivamente il cibo sprecato. La proposta del metodo condiviso globale prevede dei punti di monitoraggio costante in diversi paesi, che riescano anche a mettere in luce le diverse situazioni a livello geografico e socio-economico. In questo modo, auspicano all’UNEP, si potrà massimizzare gli interventi di contenimento dello spreco.

Il secondo punto sottolineato riguarda l’introduzione di principi di economia circolare. Secondo gli esperti, molto del cibo che va sprecato - sia nella parte ancora commestibile, che in quella non commestibile come per esempio ossa e pelli di animali - c’è ampio spazio per il riutilizzo. Così facendo lo scarto di un processo, anche solo quello della cucina domestica, potrebbe diventare la materia prima per un altro, in un circolo virtuoso. Per andare in questa direzione, però, c’è bisogno di una formazione e un’educazione specifiche.

Che sia la parte finale della filiera, quella domestica, a contare di più in termini di spreco è oramai un dato consolidato nella letteratura scientifica Fabio Licciardello, Università di Modena e Reggio Emilia

L’aiuto della ricerca

Una mano la può dare anche la scienza, aiutandoci a comprendere quanto un prodotto effettivamente possa durare nelle nostre dispense. Negli anni passati, soprattutto da parte dell’industria agroalimentare, c’è stato lo sforzo di comprendere quanto lunga potesse essere la vita di un prodotto che viene messo in commercio. Si tratta della cosiddetta shelf life, fondamentale per le aziende per pianificare produzione e distribuzione delle merci. Ma esiste anche una shelf life secondaria, come dice il nome stesso di un progetto di ricerca finanziato dal Ministero delle Politiche Agricole e guidato da Fabio Licciardello. La domanda a cui vuole rispondere è quanto duri un prodotto alimentare dopo la prima apertura delle confezioni. 

“Siamo partiti dalla consapevolezza basata sulle evidenze scientifiche che lo spreco domestico sia quello che pesa di più a livello ambientale”, spiega Licciardello. Non si tratta solamente della dimensione del fenomeno, ma anche della constatazione che “sprecare un prodotto finito al termine della filiera industriale implica sprecare anche la confezione e tutte le risorse in termini di emissioni che sono state necessarie per produrlo”. Come sottolinea il rapporto UNEP, lo spreco alimentare è in realtà uno spreco a livello ambientale.

Gli studi in questo settore sono rari, perché finora ci si è concentrati sulla capacità di conservazione delle confezioni integre. Ma una volta aperte, le indicazioni riportate in etichetta possono essere piuttosto vaghe e Licciardello e i suoi colleghi vogliono capire se non si tratti di indicazioni un po’ troppo conservative. “In questo progetto, che dura solo un anno, ci stiamo concentrando su conserve vegetali, latte e sostituti vegetali del latte”, racconta, spiegandoci che i risultati saranno disponibili dopo l’estate. “Per ora però possiamo già dire che l’indicazione di consumare le conserve vegetali entro 5 giorni dall’apertura potrebbe essere allungata: i nostri test di laboratorio mostrano che dopo 15 giorni non ci sono alterazioni significative sul piano organolettico, microbiologico e chimico-fisico”. 

Nei laboratori dell’Università di Modena e Reggio Emilia, i ricercatori hanno ricreato le condizioni in cui conserviamo gli alimenti a casa, “stiamo utilizzando proprio i frigoriferi domestici”, e sottopongono gli alimenti a scenari diversi, in modo da poter trarre conclusioni generali. Ma come mai normalmente gettiamo un prodotto ancora buono se lo abbiamo aperto? “L’impressione è che abbiamo difficoltà a fidarci dei nostri sensi nel giudicare la freschezza di un prodotto”, suggerisce Licciardello, “e ci affidiamo solamente alle etichette”. Etichette che però potrebbero venire cambiate sulla base dei risultati del progetto. “Stiamo lavorando con tre grandi aziende dell’agroalimentare - Mutti, Barilla e Granarolo - che sono interessate ad approfondire quello che stiamo già facendo e potrebbero ripensare in futuro alle indicazioni che si trovano in etichetta”. Finora, infatti, si è sempre preferito tenersi stretti sui tempi di consumo, con il risultato però che molti prodotti che non riusciamo a consumare in un paio di giorni finiscono nel pattume.

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