Scienza e Ricerca

30 Luglio 2019

Il clima del futuro

Facciamo, ancora una volta, il punto. Il clima è cambiato. Lo dimostra una serie di fatti, che noi abbiamo definito “certi” (in senso scientifico) e che l’IPCC definisce “inequivocabili”. Questi fatti “certi” e/o “inequivocabili” appartengono a due insiemi diversi: uno raggruppa quelli che dimostrano come il sistema climatico si stia riscaldando; l’altro riguarda l’aumento della concentrazione in atmosfera di diversi “gas serra”.

La teoria dell’”effetto serra” ci dice che questi due insiemi di fatti sono diversi, ma non indipendenti. Tra loro c’è una relazione di causa ed effetto. Non sempre nella storia del clima è emerso – non in maniera inequivocabile, per dirlo con l’IPCC – qual è tra i due la causa e qual è l’effetto.

Nel caso degli attuali cambiamenti del clima abbiamo indizi molto forti da indurre l’IPCC e, in buona sostanza, la totalità degli scienziati esperti a considerare inequivocabile l’individuazione del colpevole.

Sappiamo, infatti, che negli ultimi due secoli accanto alle “forzanti naturali” si è aggiunta una “forzante antropogenica”, che tradotto dal linguaggio dei tecnici significa che l’uomo ha aggregato al sistema clima una nuova sorgente di gas serra: CO2, soprattutto, ma anche CH4, N2O, alocarburi, aerosol (che non sono gas, ma particelle).

Sappiamo anche che i sistemi naturali riescono ad assorbire solo una parte del principale gas serra, la CO2, di origine antropica. E che, dunque, la restante parte si accumula (e si è accumulata) in atmosfera. Questa è la ragione principale per cui la concentrazione attuale di CO2 è passata da 280 a 414 ppm, raggiungendo il livello più alto da almeno 800.000 anni e, forse, da 10 milioni di anni.

Sulla base della teoria dell’”effetto serra” i climatologi hanno messo a punto dei “modelli generali del clima” che riescono a ricostruire abbastanza bene il clima del passato a livello globale (un po’ meno bene a livello regionale). La ricostruzione del clima del passato risulta più precisa per quanto riguarda gli ultimi due secoli.

Sia la teoria, sia i modelli (oggi, come ha spiegato Antonello Pasini, ve ne sono anche di indipendenti dalla teoria), sia i dati empirici dimostrano in maniera univoca che c’è una forte e determinante “impronta umana” sui cambiamenti del clima. Che l’uomo è la causa, se non unica, di gran lunga principale dell’aumento della temperatura e dell’aumento dei gas serra in atmosfera. Questa dimostrazione, secondo l’IPCC, ha un altissimo grado di affidabilità.

Possiamo, dunque, affermare con rigore scientifico che l’uomo ha contribuito a cambiare il clima del pianeta su cui vive. Non è la prima volta, anche se mai lo aveva fatto in tempi così rapidi.

Possiamo affermare con rigore scientifico che l’uomo ha contribuito a cambiare il clima del pianeta su cui vive

Ma cosa avverrà in futuro?

Come abbiamo già detto, gli scienziati del clima hanno fatto girare i loro modelli generali nella direzione del futuro. E l’IPCC ha fatto una sintesi ponderata dei risultati ottenuti. Una sintesi relativa a questo secolo: da qui all’anno 2100. Proponendo non una previsione certa, ma una serie di scenari possibili.

Gli scenari sono stati realizzati sulla base di una serie di assunzioni. Che nel corso di questo secolo, per esempio, non ci saranno mutamenti sostanziali nelle dinamiche delle forzanti astronomiche del clima. La posizione relativa della Terra nello spazio varierà con continuità e dunque a determinare i cambiamenti del clima non saranno né i cicli di Milankovic né forti variazioni dell’attività solare. Non sono previste variazioni neppure nel flusso dei raggi cosmici, solari e galattici. Naturalmente, se dovessero verificarsi mutamenti imprevisti e significativi dei fattori astronomici, tutti gli scenari cambierebbero.

Anche sulle più aleatorie forzanti terrestri – per esempio l’attività dei vulcani – sono state effettuate delle assunzioni: vale la statistica del passato. Si presume che l’attività vulcanica non cambierà in maniera significativa rispetto al passato. Il guaio è che le eruzioni vulcaniche sono eventi puntuali che, a tutt’oggi, non sappiamo prevedere. Nulla ci garantisce che nel corso dei prossimi novant’anni non ci sia un’eruzione imponente di qualche vulcano che avrà influenza sul clima. Se questo evento imprevedibile apriori si verificherà dovremo modificare i nostri scenari

Resta il problema delle forzanti antropogeniche, insomma dei gas serra e degli aerosol che l’uomo immette in atmosfera. Le possibilità sono diverse. Per questo l’IPCC ha costruito almeno sei diverse famiglie di scenari possibili.

A queste sei famiglie l’IPCC ha aggiunto un settimo scenario: quello in cui l’umanità stabilizza le emissioni di gas serra ai livelli dell’anno di riferimento 2000. Ne manca invece un ottavo: quello in cui l’umanità trova l’accordo per un contrasto organizzato dei cambiamenti climatici e abbatte le emissioni di gas serra tra il 50 e l’80% rispetto ai livelli del 1990. Eventualità su cui torneremo nel prossimo capitolo. Intanto verifichiamo quali sono le previsioni dell’IPCC.

Le previsioni dell’IPCC

La temperatura media globale, sostiene l’IPCC, continuerà a crescere e, anzi, accelererà il suo aumento. La forbice della ulteriore crescita possibile è molto ampia. È contenuta in un intervallo che va da un minimo di 1,1 °C a un massimo di 6,4 °C. Con valori più probabili compresi tra 1,8 e 4,0 °C.

Queste prospettive di aumento della temperatura sono relative al periodo 1980-1999. Ma alla fine del XX secolo la temperatura era già aumentata di circa 0,65 °C rispetto all’era pre-industriale. E oggi è già superiore di 1,1 °C rispetto all’epoca preindustriale: in pratica, abbiamo già raggiunto il valore minimo dello scenario più favorevole.

Il che significa che nel 2100 la temperatura media del pianeta, secondo gli scenari dell’IPCC, potrebbe essere più alta rispetto all’era pre-industriale di un valore compreso tra 1,8° e 7,1 °C, con valori più probabili contenuti tra 2,5 e 4,7 °C.

L’aumento della temperatura è connesso all’andamento delle emissioni antropiche di gas serra. Ma non in maniera semplice.

La temperatura media globale continuerà a crescere

In primo luogo il sistema clima ha una sua certa inerzia: per cui se anche fossimo riusciti a stabilizzare le emissioni di gas serra ai livelli dell’anno 2000, comunque la temperatura media terrestre alla fine del secolo sarebbe più alta di circa 0,6 °C tra rispetto a quella del periodo 1980-1999 e, dunque, di 1,3 °C rispetto all’era pre-industriale. Ma diciamo subito che già oggi le emissioni di gas serra sono significativamente più alte che nel 2000 (sono aumentate addirittura del 50%).

In secondo luogo il previsto aumento della temperatura potrebbe non essere lineare. Ci potrebbero essere forti oscillazioni intorno a un valore medio di crescita progressiva. Per esempio, tutti i modelli generali indicano come, anche nel migliore scenario possibile, entro il 2030 ci sarà un aumento della temperatura di alcuni decimi di grado. Le proiezioni per questi due decenni indicano una velocità di riscaldamento di circa 0.2 °C/per decennio. Anche se le concentrazioni di tutti i gas serra e di tutti gli aerosol fossero mantenute costanti ai livelli dell’anno 2000, ci si aspetterebbe un ulteriore riscaldamento di circa 0.1° C per decennio. Se ne ricava che nei prossimi undici anni la temperatura, rispetto a oggi, aumenterà da un minimo di 0,2 a un massimo di 0,4 °C.

L’aumento della temperatura non sarà omogeneo in tutto il mondo

L’aumento della temperatura non sarà omogeneo in tutto il mondo. Si prevede che sarà maggiore alle alte latitudini (ai poli), nell’emisfero nord e sui continenti e che, di converso, sarà meno intenso alle basse latitudini, nell’emisfero sud e sugli oceani. A crescere inoltre saranno di più le temperature minime e meno le massime.

 

 

 

Tutto ciò ha delle implicazioni. Come abbiamo detto, ora siamo già a + 1,1°C. Quindi il margine che ci resta è di 0,4 °C prima di raggiungere l’obiettivo massimo e 0,9 °C per raggiungere l’obiettivo minimo.

Poiché, lo ripetiamo, l’aumento della temperatura media del pianeta è dovuto alle emissioni antropiche di biossido di carbonio (CO2) e di altri gas serra, resta la domanda: quanto margine di emissioni ci resta per centrare le indicazioni dell’IPCC? Detta in altri termini, quanta altra CO2 possiamo produrre prima di superare i limiti consigliati?

A questa domanda hanno risposto di recente su Nature Joeri Rogelj, del Grantham Institute for Climate Change and the Environment, dell’Imperial College di Londra e un gruppo di suoi colleghi di diversi paesi. La risposta è articolata. Abbiamo il 66% di possibilità di raggiungere l’obiettivo massimo (aumento di 1,5 °C) se le emissioni ulteriori di CO2 non superano le 320 Gt (miliardi di tonnellate). Le possibilità si riducono al 50% se le emissioni ulteriori raggiungeranno le 480 Gt e scendono al 33% se le emissioni toccheranno le 740 Gt.

Per restare entro i 2°C di aumento, il budget di biossido di carbone a disposizione è di 1.070 per una probabilità del 66%; di 1.400 per una probabilità del 50% e di 1.930 per una probabilità del 33%. Altre valutazioni realizzate da altre equipe di ricerca negli ultimi mesi non si discostano in maniera significativa da questi valori.

Cosa significano tutti questi numeri? Che non c’è tempo da perdere

Lo scorso anno, il 2018, le emissioni totali di CO2 sono state pari a 42 Gt. Se questo tasso di emissione dovesse restare invariato, tra sette anni e mezzo (ovvero nel 2026) avremmo raggiunto quota 320. Quindi non dovremmo immettere più neppure una tonnellata di CO2 per conservare una probabilità del 66% di evitare che la temperatura salga di ulteriori 0,4 °C e raggiunga l’obiettivo massimo di 1,5 °C.

Al contrario se continuiamo a immettere CO2 ai ritmi attuali, entro il 2031 avremo raggiunto il budget massimo per avere una possibilità del 50% di restare entro gli 1,5 °C. Nel 2037 la probabilità di raggiungere l’obiettivo degli 1,5°C scenderebbe al 33%. Poi non ci sarebbe più praticamente nulla da fare.

Il limite massimo individuato dall’IPCC sarebbe inevitabilmente superato.

ono destinati a ridursi ulteriormente anche i ghiacciai alpini. Ed è destinato a ridursi anche il permafrost – di un valore compreso tra il 20 e il 35% entro il 2050 – nelle grandi distesa di fango ghiacciato della Siberia, della Scandinavia, del Canada e dell’Alaska. Il guaio è che il permafrost tiene intrappolato in sé molto metano (sotto forma di idrati di metano). Il disgelo in Siberia e nelle terre oltre il circolo polare artico potrebbe comportare un ulteriore forte emissione di questo potente gas serra: generando quello che gli esperti chiamano un feedback positivo, ovvero di un effetto che si aggiunge alla causa e accelera l’evoluzione del sistema. Se il permafrost libera una parte del suo metano, sulla Terra potrebbe fare più caldo di quanto previsto.

L’aumento della temperatura in atmosfera – che, come abbiamo detto, sarà asimmetrico – ne modificherà inevitabilmente la circolazione. Con una serie di effetti a catena. In primo luogo il “fronte subtropicale” tenderà a spostarsi in entrambi gli emisferi verso latitudini più alte. La “corrente a getto”, per esempio, nella parte superiore della troposfera boreale e australe aumenterà la già notevole velocità di flusso e andrà incontro a fluttuazioni più ampie. I cambiamenti saranno più intensi nelle aree subtropicali, ma interesseranno anche la “corrente a getto” subpolare. A causa di questi cambiamenti alle nostre latitudini il tempo meteorologico diventerà più variabile (con più “onde di calore” in estate e più “onde di freddo” in inverno), mentre da occidente spireranno venti più forti.

Anche il regime delle precipitazioni sarà profondamente modificato a scala globale. Pioverà di più, in media, nella fascia equatoriale, soprattutto dalle parti dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico. Le maggiori precipitazioni dovrebbero comportare, nell’Asia meridionale, l’intensificazione della circolazione monsonica. Le precipitazioni aumenteranno anche alle alte latitudini (dal 10 al 40%): al Polo Nord e al Polo Sud. In Antartide, come abbiamo detto, dovrebbe aumentare la copertura nevosa.

Al contrario nelle aree subtropicali (Asia meridionale esclusa) e nelle aree limitrofe, Mediterraneo compreso, le precipitazioni diminuiranno (dal 10 al 30%). Le piogge diventeranno meno frequenti e più intense. Lunghi periodi di siccità si alterneranno a frequenti nubifragi.

Anche ai tropici aumenterà la frequenza degli eventi meteorologici estremi. Insomma avremo più uragani in Atlantico (soprattutto all’altezza dei caraibi) e più tifoni nell’Indopacifico.

Gli effetti fisici dell’aumento della temperatura si faranno sentire anche sui continenti. Non farà solo più caldo, in media. Ma, come abbiamo detto, si modificherà il regime delle piogge e si scioglieranno in buona parte i ghiacciai alpini. E di conseguenza avremo un’alterazione della distribuzione delle risorse idriche. Alle nostre latitudini, per esempio, pioverà di meno e in molte zone avremo accelerati fenomeni di desertificazione o, comunque, di degrado della qualità dei suoli. L’aumento del livello dei mari accentuerà i fenomeni di erosione delle coste, contaminerà molte falde acquifere e farà aumentare il rischio di inondazioni: se il livello dei mari dovesse aumentare di un metro, molte isole e interi arcipelaghi saranno sommersi e vaste zone costiere pianeggianti inondate.

Tutto questo avrà un impatto importante sugli ecosistemi. La biomassa tenderà ad aumentare, a causa dell’aumento della CO2 in atmosfera. Ma solo fino al 2030, dopodiché anche le foreste potrebbero cessare di essere un pozzo e diventeranno una sorgente di carbonio. Ovvero, da feedback negativo dei cambiamenti del sistema clima si trasformeranno in feedback positivo. Nel medesimo tempo molti biotipi tenderanno a spostarsi dalle basse alle alte latitudini. La migrazione delle piante sarà accompagnata, talvolta preceduta, da quella degli animali, ma anche dei microrganismi. La resistenza di alcuni ecosistemi, sostiene l’IPCC, «sarà sopraffatta». Un forte aumento della temperatura, superiore a 3 °C, potrebbe mettere a rischio l’esistenza di grandi ecosistemi, come la tundra canadese e la foresta amazzonica.

La biodiversità sarà sottoposta a notevole stress e per il 20 o 30% delle specie conosciute aumenterà il rischio di estinzione.

Naturalmente tutto ciò avrà effetti sulla società e sull’economia umana. Il degrado delle coste e dei suoli, il cambiamento del regime delle piogge, lo scioglimento dei ghiacciai alpini avrà grosse ripercussioni sull’agricoltura. È anche vero, tuttavia, che il disgelo potrebbe liberare dal permafrost e rendere coltivabili ampie aree alle alte latitudini. Cosicché si prevede che fino a un aumento di 3 °C della temperatura la produzione agricola globale possa crescere, ma dopo quella soglia diminuirà.

Le redistribuzioni delle risorse idriche potrebbe mettere a repentaglio la possibilità di approvvigionamento da parte di numerose popolazioni.

Il combinato disposto dell’aumento della temperatura e della migrazione degli ecosistemi avrà effetti sulla salute umana. Si modificherà l’area di incidenza di molte malattie infettive, si intensificheranno le malattie più direttamente associabili alla povertà, aumenteranno le malattie e anche le morti da stress ambientale (in Europa, a causa delle ondate di calore più frequenti e lunghe, gli anziani saranno i più esposti al rischio). Secondo l’IPCC i rischi sanitari sono: aumento del tasso di malnutrizione; aumento delle malattie diarroiche; aumento delle malattie cardio-respiratorie; aumento di malattie, danni fisici e mortalità da eventi meteorologici estremi; redistribuzione della mappa di diffusione delle malattie infettive.

A causa della ridistribuzione delle terre coltivabili e delle risorse idriche, ma anche dell’inasprimento degli eventi meteorologici estremi e del semplice aumento della temperatura, aumenteranno i flussi migratori. Qualcuno calcola in decine se non in centinaia di milioni i “migranti ambientali” che saranno costretti, ogni anno, a lasciare le loro case. Un esempio è l’inondazione del Pakistan del 2010, che ha ricoperto d’acqua un’area grande quanto un terzo dell’Italia e che in poche ore ha lasciato senza casa oltre venti milioni di persone. Si stima che i “migranti ambientali” dopo il 2030 potranno superare i cento milioni e avvicinarsi progressivamente a 200 milioni.

Molti – anche tra gli analisti che si occupano di sicurezza e persino alcune grandi agenzia di intelligence – sostengono che gli effetti economici e sociali dei cambiamenti climatici saranno causa di conflitti politici e persino militari. Le Nazioni Unite considerano i cambiamenti climatici una seria minaccia per la pace. E la Central Intelligence Agency (CIA) degli Stati Uniti li considerava già una decina di anni fa la più grave minaccia per la sicurezza nazionale. Superiore persino al terrorismo.

Naturalmente il margine di incertezza nella costruzione degli scenari che riguardano la società umana sono enormi. Questi rischi li possiamo considerare largamente potenziali. Anche perché l’uomo, a differenza degli altri elementi biotici e non del sistema clima, è dotato di “enorme coscienza” e di una non trascurabile capacità di intervento.

Insomma può intervenire e modificare questi scenari.

Limiti delle previsioni e controversie

Che fare, dunque?

Prima di porci questa domanda vale la pena ribadire, ancora una volta, la sua assoluta singolarità.

1. L’uomo è l’unico attore ecologico in grado di porsi questa domanda, perché è l’unico che “sa” di essere un attore ecologico, locale e globale. Questa coscienza produce degli effetti perturbativi sul sistema clima. Gli animali da allevamento che producono discrete quantità di metano non sanno di essere attori ecologici. E difatti non si pongono il problema di mutare i loro stili di vita. L’uomo sa di essere attore ecologico e questa consapevolezza lo porta a cambiare, in una certa misura, i suoi comportamenti: per aumentare o per diminuire la sua impronta sull’ambiente.

2. L’uomo è, infatti, l’unico attore ecologico dotato di una così spiccata intenzionalità da poter prefigurare un “futuro desiderabile” e cercare di realizzarlo. La costruzione di questo futuro è un fattore di perturbazione del sistema ecologico globale e, anche, del sistema clima. In realtà gli uomini hanno diversi “futuri desiderabili” nella loro mente. E talvolta questi “futuri desiderabili” sono in conflitto. Molti, per esempio, desiderano un futuro in cui possano disporre di una bella automobile e godere di un lungo periodo di vacanza per visitare il mondo. Allo stesso tempo molti desiderano un futuro con un clima stabile, simile a quello attuale. Ma questi due futuri desiderati sono in conflitto. Più automobili e più turisti che scorrazzano da una parte all’altra del pianeta accelerano i cambiamenti del clima.

3. Restiamo al “futuro climatico desiderabile”. L’uomo lo deve costruire in un regime di incertezza. E poiché nel prossimo capitolo ci porremo il problema di come realizzare un futuro climatico desiderabile, è bene ribadire quali sono i principali fattori che rendono incerta la sua concreta attuazione.

Le Nazioni Unite considerano i cambiamenti climatici una seria minaccia per la pace

Ci riferiamo principalmente ai fattori biogeofisici. Distinguiamo i fattori di incertezza in due categorie. La prima è quella dei fattori che solo una parte, più o meno vasta, della comunità scientifica ritiene ancora incerti. La seconda categoria è quella dei fattori che l’intera comunità scientifica riconosce come ancora incerti.

Una piccola componente della comunità scientifica sottolinea come i modelli generali del clima non contemplino affatto fattori – come i raggi cosmici – che invece potrebbero avere un grosso impatto sull’evoluzione del clima. In realtà sappiamo che i raggi cosmici hanno un ruolo nella creazione di nuclei di condensazione del vapor acqueo e, dunque, della formazione delle nubi. Ma la gran parte della comunità scientifica esperta accredita quegli studi che dimostrano come l’influenza complessiva dei raggi cosmici sia di un paio di ordini di grandezza inferiore all’attuale portata dei cambiamenti climatici. Insomma il fattore raggi cosmici esiste ed è reale, ma gioca un ruolo marginale. Il fatto che non sia contemplato dai modelli non inficia le capacità di previsione di evoluzione del clima.

Qualcuno – tra i “negazionisti” – sostiene che anche i dati sulla variazione della temperatura del passato – quelli che abbiamo definito “fatti certi” – in realtà siano tutt’altro che sicuri. Non fosse altro perché la rete di rilevamento della temperatura di 50, 100, 150 e 200 anni fa era piena di buchi e il metodo di rilevamento non alieno da errori. Per esempio, in passato c’era scarsa attenzione al fatto che i termometri fossero esposti o meno al Sole. Ma l’esposizione al Sole piuttosto che all’ombra di un termometro comporta grosse variazioni. Inoltre, sostengono i critici, anche oggi assistiamo a una discrepanza tra le temperature rilevate con strumenti a terra (o negli oceani) e i dati rilevati da satellite. Queste discrepanze sembrano mostrare un trend di crescita della temperatura negli ultimi due decenni del XX secolo inferiore a quella accreditata dall’IPCC e, addirittura, una diminuzione della temperatura nel primo decennio del XXI secolo.

Ma, è bene ribadirlo, la totalità pressoché assoluta della comunità scientifica che si occupa di clima ritiene spiegabili queste differenze e, comunque, non tali da modificare il quadro qualitativo e quantitativo che abbiamo esposto. Insomma, considera l’aumento della temperatura media alla superficie del pianeta registrato negli ultimi due secoli un “fatto certo”.

Uno dei punti universalmente riconosciuti come critici, perché non risolti, è invece il ruolo che hanno le nubi nel sistema climatico. Non abbiamo ancora né elementi empirici né teorie in grado di dirci se le nuvole costituiscono un feedback positivo o negativo nell’evoluzione del clima. Non c’è dubbio che l’aumento della temperatura comporta maggiore evaporazione e maggiore presenza di vapor acqueo in atmosfera. Di per sé questo dovrebbe comportare una maggiore nuvolosità.

Le nubi hanno due effetti potenziali del tutto opposti sul clima: da un lato intrappolano calore e, quindi, contribuiscono ad aumentare la temperatura; dall’altro hanno un più o meno accentuato effetto albedo, ovvero riflettono nello spazio la luce del Sole.

L’effetto albedo dipende dalla forma dal tipo di nuvole e dalla loro altezza: quelle spesse a basse hanno in genere un effetto albedo maggiore di quelle alte e tenui. La differenza è notevole: alcune nuvole hanno la capacità di riflettere nello spazio il 70% della radiazione solare, altre hanno una capacità pari allo 0%.

Il guaio è che non sappiamo quali tipi di nubi si formeranno. Se prevarranno quelle a feedback positivo o negativo. Insomma, non sappiamo come le nuvole influenzeranno il clima del futuro. Questa incertezza è contenuta nei modelli climatici. Nel senso che i modelli climatici ne tengono conto.

In realtà abbiamo difficoltà anche a capire quante nubi si formeranno. Infatti perché il vapor acqueo condensi in goccioline di acqua liquida e formi le nuvole, occorrono dei nuclei di condensazione. In atmosfera i principali nuclei di condensazione sono gli aerosol. Ma anche sulla dinamica degli aerosol sappiamo poco.

Allo stesso modo, non sappiamo ancora quale sarà il ruolo della vegetazione. Che, ancora una volta, è molteplice. Quando la vegetazione è giovane e in crescita assorbe CO2. Quando è matura e muore emette CO2. La vegetazione, inoltre, ha un ruolo importante sia nell’effetto albedo delle terre emerse, sia nel ciclo dell’acqua. Come la vegetazione interpreterà questi diversi ruoli nel clima del futuro e quale sarà l’effetto al netto è difficile dire.

Sia la presenza delle nubi che quella della vegetazione è contenuta nei modelli di circolazione del clima. Ma è “parametrizzata”: nel linguaggio dei tecnici significa che è assunta sulla base di dati empirici e non all’interno di una teoria matematizzata compiuta. Il che significa che l’incertezza sul ruolo che avranno in futuro le nuvole e la vegetazione è molto alta.

Ecco perché in questo secolo l’evoluzione del clima potrebbe risultare diversa da quella prevista negli scenari previsti dall’IPCC. Diversa in entrambe le direzioni: potremmo avere cambiamenti minori. Ma anche maggiori. Anche se, lo ribadiamo, quelli dell’IPCC sono gli scenari più solidi e, quindi, più probabili.

È, dunque, in queste condizioni di relativa incertezza – ma non di ignoranza – che siamo chiamati a costruire un “futuro climatico desiderabile”.