SCIENZA E RICERCA

Clima, il futuro è nelle nostre mani

Sappiamo che il clima sta cambiando. Sappiamo che la causa principale sono gli umani. Sappiamo che quello che ci attende è un futuro climatico indesiderabile. Che fare, dunque, pur in un regime di relativa incertezza (ma non di ignoranza) per costruire un futuro climatico che sia invece desiderabile?

Per quanto strano possa sembrare, a questa domanda finale l’umanità ha già risposto. Addirittura ventisette anni fa, nel giugno 1992, alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo di Rio de Janeiro.

Tutti quelli che vi hanno partecipato sanno che la Conferenza di Rio è stato il più spettacolare evento che la diplomazia mondiale abbia mai organizzato. Nessuno voleva mancarlo, non fosse altro per la visibilità planetaria in diretta televisiva che assicurava. Ecco quindi che delegazioni governative, quasi tutte guidate da un capo di stato o di governo, in rappresentanza di 183 diversi paesi con migliaia di ambasciatori, consulenti e scienziati, si riunirono alla presenza di circa diecimila giornalisti provenienti da ogni angolo del pianeta e circondati da altre migliaia di ambientalisti, per dar vita a undici giorni da molti definiti “entusiasmanti”.

Grandi e senza precedenti erano le ambizioni a Rio ’92: scrivere un programma universale di cambiamento nel nome dello sviluppo sostenibile e gettare uno sguardo oltre i modelli di crescita economica imperanti, ritenuti appunto non sostenibili.

L'obiettivo di Rio '92 era quello di scrivere un programma universale di cambiamento nel nome dello sviluppo sostenibile

Ma anche dal punto di vista dei contenuti concreti la United Nations Conference on Environment and Development (UNCED) è davvero un evento storico e, tuttora, ineguagliato. Intanto il mondo prende coscienza in maniera ufficiale, addirittura solenne, che esiste un rapporto stretto e ormai ineludibile tra ambiente ed economia. Che non c’è sviluppo possibile se non è ecologicamente sostenibile. E non c’è tutela dell’ambiente possibile se non è socialmente sostenibile. A Rio de Janeiro nel 1992 il concetto di sviluppo sostenibile viene accettato, almeno a parole, da tutti e diventa, per dirla con l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, “il principio organizzativo per le società di ogni parte del mondo”.

Sull’onda di quella presa di coscienza viene varata una lunga serie di strumenti legali, oltre che di solenni impegni morali, tra cui: la Dichiarazione di Rio, l’Agenda 21, la Dichiarazione di intenti sulle foreste, la Convenzioni sulla biodiversità. E, soprattutto, la Convenzione quadro sui cambiamenti del clima.

La Dichiarazione di Rio contiene 27 principi ritenuti fondamentali per affrontare in modo integrato i problemi ecologici ed economici a livello globale.

Agenda 21

L’Agenda 21 è un programma di sviluppo, sostenibile appunto, del pianeta, articolato in 40 diversi capitoli che indicano, con una notevole definizione di dettaglio, non solo obiettivi concreti, ma anche le modalità e gli strumenti per raggiungerli. L’Agenda non prevede obblighi per i paesi firmatari, ma il segretariato della conferenza puntualizza, nel testo stesso dell’Agenda 21, che per realizzare il programma nei paesi in via di sviluppo è necessario che tra il 1993 e il 2000 vi sia un investimento annuo di almeno 600 miliardi di dollari, dei quali 125 miliardi a carico dei paesi sviluppati. Questi 125 miliardi di dollari devono essere «nuovi e aggiuntivi» rispetto agli aiuti che i paesi sviluppati già conferiscono ai paesi del Terzo Mondo. Evitando, però, di assumere formalmente questo impegno, i paesi ricchi sfuggono subito all’attuazione dell’Agenda 21 nel Terzo Mondo. Tuttavia riconoscono di avere una precisa e non derogabile responsabilità: «dover» finanziare lo sviluppo sostenibile dell’80% più sfortunato dell’umanità. Di qui l’impegno solenne ad aumentare dallo 0,35% allo 0,70% la quota del prodotto interno lordo (PIL) destinata a finanziare lo sviluppo complessivo del Terzo Mondo.

Nell’ambito di questi aiuti andranno trovate le risorse specifiche per le politiche ambientali, che dovranno attingere ai fondi erogati da varie banche e organizzazioni finanziarie multilaterali già esistenti, come l’International Development Association (IDA) della Banca Mondiale o le banche regionali e sub-regionali per lo sviluppo, o del tutto nuove, come il Global Environment Facility (GEF), un fondo specifico amministrato congiuntamente da tre strutture delle Nazioni Unite: Banca Mondiale, Programma per l’ambiente (UNEP) e Programma per lo sviluppo (UNDP).

Come si vede sono indicazioni molto precise e dettagliate. Purtroppo i paesi ricchi, per riconoscendo una propria responsabilità, pur indicando gli strumenti operativi di intervento e pur impegnandosi moralmente a mettere mano alla tasca, si dimenticano di indicare una data precisa entro la quale dovrebbe raddoppiare il loro aiuto allo sviluppo. A tutt’oggi gli impegni assunti a Rio sono disattesi.

Dichiarazione sulle Foreste

La Dichiarazione sulle Foreste è, invece, un documento privo di valore legale, che impegna solo moralmente a raggiungere un consenso fondato su alcuni principi guida per la gestione, la conservazione e lo sviluppo sostenibile di ogni tipo di foreste.

Anche la United Nations Convention on Biological Diversity (UNCBD), Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica, parte da una preoccupazione: che sia in atto una forte e rapida erosione del numero di specie viventi sulla Terra e che una parte significativa di questa perdita di biodiversità sia dovuta ad attività umane come, a esempio, la deforestazione. Obiettivo della convenzione è conservare il patrimonio di diversità biologica esistente utilizzandola in modi e misura sostenibili. Viene così formalmente riconosciuto il diritto delle future generazioni a ricevere in eredità il patrimonio naturale che le attuali generazioni hanno ereditato dalle precedenti. Anche se per la sua concreta applicazione si rimanda a un Protocollo attuativo della legge quadro.

Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici

Ma, probabilmente, il documento più importante della Conferenza di Rio è la stesura della United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici. La Convenzione, nel gergo giuridico delle Nazioni Unite, ha pieno valore legale. La risposta che cerchiamo alla nostra domanda – che fare in regime di incertezza (ma non di ignoranza) sul clima – è dunque contenuta in una legge quadro internazionale in vigore da circa vent’anni. Ha un potere di indirizzo. Anche se a Rio non è corredata da Protocolli che hanno il valore di leggi attuative. La Convenzione ha tuttavia un obiettivo specifico: contrastare il cambiamento del clima globale in atto causato anche dalle attività umane, in particolare dalle emissioni di gas serra generati dall’uso dei combustibili fossili.

La legge quadro riconosce che i paesi industrializzati sono stati e sono tuttora i maggiori responsabili di queste emissioni e che, quindi, tocca a loro assumersi l’onere principale della protezione del sistema climatico «per le generazioni presenti e future» impegnandosi a contenere senza indugio le emissioni di gas serra entro i valori raggiunti nel 1990. La Convenzione contiene uno specifico allegato in cui vengono ufficialmente identificati i “paesi industrializzati”.

La Convenzione sui cambiamenti del clima, come tutte le convenzioni firmate in sede ONU, ha valore legale solo dal momento in cui viene ratificata da un numero minimo e definito di paesi. Quella sul clima entra in vigore il 21 marzo 1994 e da allora è a tutti gli effetti una legge internazionale, che impegna giuridicamente le parti (ovvero i paesi che la ratificano) alla sua attuazione.

Essendo una legge quadro e dunque di indirizzo ha bisogno di leggi attuative, che in sede ONU vengono chiamate Protocolli. Il primo e, per ora, unico Protocollo attuativo sarà firmato dalla Parti che hanno sottoscritto la Convenzione solo l’11 dicembre 1997 a Kyoto ed entrerà in vigore solo a partire dal 16 febbraio 2005. Ma di Kyoto parleremo tra poco. Per ora ritorniamo a Rio.

Il collante di tutti i documenti e l’anima stessa della Conferenza sono costituiti da almeno cinque principi di fondo, tuttora validi

Il collante di tutti i documenti e l’anima stessa della Conferenza sono costituiti da almeno cinque principi di fondo, tuttora validi.

1.Il principio di solidarietà: viviamo su un pianeta comune e insieme dobbiamo risolvere i problemi comuni; chi ha maggiori possibilità deve aiutare chi ha minori possibilità).

2. Il principio di equità: ciascuno deve fare la sua parte sulla base delle proprie responsabilità e delle proprie possibilità.

3. Il principio di democrazia: il governo mondiale dell’ambiente si realizza attraverso accordi multilaterali.

4. Il principio di precauzione: «Al fine di proteggere l'ambiente – recita il documento - un approccio precauzionale dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l'assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l'adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale». Il principio ha profonde implicazioni sulla questione clima, perché sostiene che le decisioni politiche ed economiche devono essere volte a minimizzazione il rischio, non solo in condizione di certezza assoluta ma anche in caso di incertezza scientifica: ovvero quando il pericolo è solo potenziale. In quella tarda primavera del 1992 le incertezze scientifiche sui cambiamenti climatici sono vaste – molto più di oggi – ma la risposta alla domanda “che fare?” è chiara: facciamo di tutto per minimizzare il rischio, anche se esso è solo potenziale.

5. Il principio, infine, di sussidiarietà. È su questo che si sono misurati parecchi contrasti. Il principio di sussidiarietà poggia sostanzialmente su tre indicazioni: non faccia lo Stato ciò che i cittadini possono fare da soli per cui è l’azione dei cosiddetti “corpi intermedi” della società che va tutelata; lo Stato interviene solo quando i singoli e i gruppi non sono in grado di farcela da soli e l’intervento sarà temporaneo; questo intervento sussidiario dello Stato (sussidiarietà deriva dal latino subsidium, cioè aiuto) deve realizzarsi preferibilmente al livello più vicino al cittadino. Gli obiettivi della sussidiarietà, dunque, possono risultare antitetici e così sono risultati proprio nel confronto tra le diverse filosofie di intervento sulle politiche ambientali. Il fronte dei minimalisti, Stati Uniti in testa, ha utilizzato il principio della sussidiarietà per rivendicare il “primato” delle forze di mercato e/o la prevalenza delle politiche nazionali anche rispetto ai famosi protocolli. Sul fronte opposto una visione più radicale, più “verticale”: se qualcuno non realizza ciò che si è impegnato a fare, un’autorità superiore può/deve intervenire al suo posto.

L’ambiguità dei concetti, peraltro, riflette perfettamente l’incoerenza delle conclusioni politiche e pratiche. Perché il limite della Conferenza del 1992 è di non essere riuscita a racchiudere definitivamente lo “spirito” nel “corpo” di Rio. Di non essere riuscita a definire, in modo vincolante, tempi e modi in cui l’umanità, divisa in circa 200 litigiose “parti”, deve imboccare con decisione la strada di un reale sviluppo sostenibile. Dalla vastità delle analisi e dell’agenda internazionale varata a Rio de Janeiro la sproporzione tra il peso attribuito alle strategie necessarie per garantire la sostenibilità ambientale del Sud del mondo e l’influenza che ha il modello generale di sviluppo del Nord sugli equilibri economici e ambientali globali è notevole. E, infatti, i timidi accenni alla sostenibilità dello sviluppo del Nord sono bruscamente gelati dal Presidente Usa, George Bush (padre): «Il nostro modello di vita non può essere oggetto di negoziato».

Specularmente, molti grandi paesi in via di sviluppo – come Brasile, Argentina, India – denunciano l’”eco-colonialismo” dei paesi industrializzati e respingono ogni freno alla loro potenzialità di crescita fosse anche in nome dell’equilibrio ambientale globale o dei diritti delle comunità locali.

Nasce anche da un certo immobilismo, l’incrocio di reticenze reciproche a rimettere in causa i propri modelli di crescita. Ma alle rigidità politiche occorre aggiungere le grandi assenze: le istituzioni finanziarie (banche soprattutto) e le imprese private, nazionali e transnazionali, che dominano il mercato delle materie prime, le modalità della loro estrazione, i prezzi.

Il Protocollo di Kyoto

In conclusione, gli impegni legali assunti a Rio sono strategici. Ma i vincoli per raggiungerli sfuggenti. Per quanto riguarda la Convenzione sui cambiamenti del clima affinché questi primi, timidi vincoli vengano definiti occorre attendere la Conferenza delle Parti che si riunisce a Kyoto nel dicembre 1997. Il documento – che ha il valore di legge attuativa - è frutto di un compromesso al risparmio: prevede un taglio minimo del 5,2% rispetto ai livelli del 1990 delle emissioni di gas serra da parte dei “paesi industrializzati”, i cui nomi sono contenuti nel già citato allegato. I tagli dovranno essere realizzati tra il 2008 e il 2012. Che sia un obiettivo modesto risulta da diverse valutazioni scientifiche. L’IPCC considera (già allora) che per fermare l’aumento della temperatura planetaria occorrerebbe un taglio alle emissioni globali di gas serra compreso tra il 60 e l’80% rispetto ai livelli raggiunti nel 1990. Invece, la riduzione del 5,2% prevista dal protocollo di Kyoto riguarda le emissioni dei soli paesi industrializzati. Le conseguenze del taglio, anche se effettuato, saranno quelle di limare di uno o due decimi il previsto aumento della temperatura.

Anche i più ottimisti non possono non considerare Kyoto solo il primo, timidissimo passo verso la sostenibilità climatica. Il Protocollo prevede una clausola stringente: entrerà in vigore solo quando sarà ratificato da almeno il 55% dei firmatari della Convenzione che coprano almeno il 55% delle emissioni complessive dei paesi industrializzati. Questa duplice soglia sarà raggiunta solo nel 2005 e senza gli Stati Uniti.

Anche i più ottimisti non possono non considerare Kyoto solo il primo, timidissimo passo verso la sostenibilità climatica

A Kyoto vengono fissati obiettivi specifici nazione per nazione: nel senso che il taglio del 5,2% delle emissioni non sono ripartiti uniformemente tra tutti i paesi industrializzati: mentre l’Unione europea, la Svizzera e alcuni paesi dell’est europeo devono tagliarle dell’8%, gli Stati Uniti dovrebbero abbattere le loro emissioni del 7% e il Giappone del 6%. Russia, Ucraina e Nuova Zelanda non sono obbligati alla riduzione ma devono soltanto stabilizzarle. Altri come Norvegia, Islanda e Australia possono addirittura aumentarle.

Per i paesi in via di sviluppo non c’è, nel Protocollo di Kyoto, un obbligo a tagliare le emissioni di gas serra. Anzi hanno margini ampi di emissione: sia in termini di maggiore inquinamento rispetto ai livelli attuali sia di vendita dei propri diritti a inquinare. È il meccanismo della flessibilità di mercato, lo scambio delle quote tra tutti i vari contraenti purché l’obiettivo globale di riduzione delle emissioni sia salvaguardato. Si tratta di un meccanismo in base al quale i paesi ricchi che contribuiscono molto all’inquinamento atmosferico globale vengono penalizzati finanziariamente e ai paesi in via di sviluppo viene data l’opportunità di trovare i mezzi finanziari vendendo ai paesi ricchi i propri diritti a inquinare piuttosto ampi.

In definitiva, dopo Rio il gruppo dei paesi industrializzati si divide in misura piuttosto profonda. Gli Stati Uniti da una parte, l’Unione europea e quasi tutti gli altri sul versante opposto. Questa spaccatura è stata solo in parte sanata dopo l’elezione del presidente Barack Obama e oggi con Donald Trump compromette ancora una volta la possibilità di coinvolgere anche i paesi a economia emergente in politiche di contenimento dell’inquinamento atmosferico. Indebolisce la legittimità e la coerenza di tutta la diplomazia ambientale. Il coinvolgimento di nazioni a economia rapidamente emergente – come Cina, Brasile, India, Indonesia – è essenziale perché ormai il contributo di questi paesi alle emissioni globali è decisamente cresciuto ed è destinato a crescere ancora. La Cina è già oggi il paese che immette di più in atmosfera, anche se in termini di emissioni pro-capite è decisamente dietro gli Stati Uniti.

Gli obiettivi desiderabili

La Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti del Clima ha dato una risposta alla nostra domanda: che fare? E la risposta è: svuotare l’oceano di carbonio che l’uomo sversa in atmosfera e che il “sistema clima” non riesce ad assorbire.

Ma con il Protocollo di Kyoto l’umanità si comporta come il famoso bambino che, nell’apologo di Agostino, cerca di svuotare il mare con una conchiglia.

A differenza del bambino, però, l’umanità ha piena coscienza che l’impresa è velleitaria. Che, per svuotare il mare, occorre ben altro. Cosa?

Per rispondere a questa domanda gli scienziati dell’IPCC hanno formulato, sostanzialmente, tre scenari ben sintetizzati da Vincenzo Ferrara e Alessandro Farruggia nel libro Clima: istruzioni per l’uso.

1. Contenere l’aumento del principale gas serra, la CO2, in atmosfera in un intervallo di concentrazione compreso tra 400 e 450 ppm (oggi, come abbiamo detto la concentrazione è di 415 ppm, mentre nell’era pre-industriale era di 280 ppm). In queste condizioni la temperatura aumenterebbe meno di 2 °C rispetto all’era pre-industriale e gli effetti non desiderabili saranno minori ma non nulli. Il livello dei mari, per esempio, non aumenterà oltre i 30 centimetri rispetto all’era pre-industriale e saranno minimi i rischi di forte erosione della biodiversità, di accelerata riduzione dei ghiacci della Groenlandia, di alterazione della circolazione oceanica.

In regime di business as usual, ovvero se l’umanità non interviene con misure attive, questa sarà la situazione in atmosfera intorno al 2025. Tra soli cinque anni e qualche mese.

Per fermarsi a questo scenario occorrerebbe un immediato e drastico taglio delle emissioni attuali e riportarle non oltre il 2030 a un livello inferiore al 50% rispetto al 1990 e poi, annullarle del tutto entro il 2100.

2. Un obiettivo meno ambizioso prevede di contenere l’aumento della concentrazione di CO2 entro 650 ppm: più del doppio rispetto all’epoca pre-industriale. In questa situazione la temperatura sarà più alta di almeno 2,5 °C (in realtà cadrà in un intervallo compreso tra 1,4 e e 3,2 °C) e il livello dei mari potrà raggiungere una quota di 40 centimetri più alta di quella dell’era pre-industriale. In questa situazione aumenterà la fragilità degli ecosistemi, aumenterà l’erosione della biodiversità. Ma non dovrebbero esserci effetti sulla rapidità di scioglimento dei ghiacci della Groenlandia e della circolazione oceanica.

In regime di business as usual questa situazione si verificherà in atmosfera entro il 2050.

Per non andare oltre e contenere la CO2 entro le 650 ppm e l’aumento temperatura entro i 2,5 °C occorrerà entro il 2050 abbattere le emissioni del 60% rispetto ai livelli di riferimento del 1990. È un’ipotesi verso cui molti paesi europei e non si stanno indirizzando.

3. La concentrazione di CO2 in atmosfera supera le 650 ppm e sfiora quota 1.000 ppm. In questo caso la temperatura media planetaria sarà più alta di circa 4 °C rispetto all’era pre-industriale (in realtà, sarà compresa tra 2,0 e 6,4 °C). In questo caso il livello dei mari potrebbe risultare più alto di 60 centimetri o, addirittura, di 110 centimetri rispetto all’era pre-industriale. Gli ecosistemi subiranno stress fortissimi. Molte specie moriranno. Aumenterà considerevolmente la frequenza degli eventi meteorologici estremi. I ghiacci della Groenlandia si scioglieranno più rapidamente e anche la circolazione oceanica potrebbe mutare.

In regime di business as usual questa sarà la situazione in atmosfera al 2100.

Ma anche quota 1.000 ppm non è un limite invalicabile. Se l’umanità non vorrà superarlo occorrerà che entro il 2080 abbatta le emissioni di CO2 del 60% rispetto ai livelli del 1990.

4. L’umanità non pone alcun limite né alcun controllo alle emissioni di gas serra. Dopo il 2100 la concentrazione di CO2 in atmosfera supera le 1.000 ppm, la temperatura media verosimilmente aumenta di oltre 6 °C e allora è possibile che si attivino meccanismi che cambiano in profondità le dinamiche del clima. Ma è difficile proporre scenari dettagliati plausibili in queste condizioni.

Torniamo, dunque, a Kyoto. Rispetto a questi scenari è chiaro che l’umanità si trova nelle condizioni del bambino di Agostino, sapendo di esserlo. Eppure si ostina a portar via con la sua conchiglia un po’ di acqua dall’oceano di carbonio, sapendo che è pressoché inutile.

Nel 2015 l’IPCC ha posto dei limiti che è consigliabile non superare: i 2,0 °C. Possibilmente gli 1,5 °C rispetto all’epoca pre-industriale. Poche settimane dopo a Parigi le Parti che hanno sottoscritto la Convenzione sui cambiamenti climatici hanno preso degli impegni informali, sulla parola. Anche se venissero interamente realizzati, quegli impegni, avremmo concentrazioni di gas serra in atmosfera che porterebbero la temperatura media del pianeta a collocarsi tra 2,5 e 3 ,0 °C. Molto più di quanto consigliato dall’IPCC.

Nel 2015 l’IPCC ha posto dei limiti che è consigliabile non superare: i 2,0 °C

Occorre intervenire subito, oltre Parigi

La situazione dunque, è chiara. Sappiamo che il clima è cambiato. E che, con alto grado di probabilità, continuerà a cambiare nei prossimi decenni. Sappiamo che la causa primaria del cambiamento è, con alto grado di probabilità, l’uomo. Da quasi trent’anni abbiamo dato una risposta alla domanda “che fare?” in questo regime di incertezza (ma non di ignoranza) per indirizzare il futuro climatico verso un binario desiderabile: dobbiamo prevenire il più possibile il mutamento.

L’umanità si è data anche degli strumenti legali per intervenire. Ma questi strumenti sono largamente insufficienti. Sia perché intrinsecamente limitati. Sia perché ampiamente disattesi. Tant’è che le emissioni antropiche di carbonio stanno ancora oggi aumentando.

Come stiamo rispondendo a questa contraddizione?

Il quadro è non solo complesso, ma anche inedito. Mai un attore ecologico globale si è posto il problema di come comportarsi, peraltro in regime di relativa incertezza, per costruire un futuro climatico desiderabile.

Siamo in una condizione di inesperienza. Aggravata dal fatto che a dover decidere è un’umanità segnata dalle differenze: di cultura, di sensibilità, di ricchezza, di responsabilità. Ancora oggi le emissioni pro-capite di uno statunitense sono 4 volte quelle di un cinese, 14 volte quelle di un indiano, 200 volte quelle di un etiope.

Le scelte politiche possibili per affrontare il cambiamento del clima sono due, niente affatto complementari: l’adattamento e la prevenzione.

Adattarsi significa non solo che in ogni paese vengono prese tutte possibili per vivere al meglio in una nuova condizione climatica. Anzi, in una nuova dinamica del clima. Le misure di adattamento sono fisiche (in Italia significa difesa delle coste, lotta alla desertificazione, miglior distribuzione dell’acqua, lotta al dissesto idrogeologico), sanitarie (in Italia significa lotta alle malattie nuove e/o migranti; lotta alle onde di calore e di freddo) e sociali (in Italia significa trovare il modo di far vivere una popolazione sempre più anziana in un clima più caldo).

Non tutti i paesi, tuttavia, hanno la possibilità di allestire misure di adattamento adeguato. Le piccole isole dell’Indopacifico che rischiano di essere sommerse a causa dell’innalzamento del livello dei mari o paesi poveri, come il Bangladesh, con ampie zone esposte non hanno le risorse per allestire neppure la difese fisiche primarie. Questi paesi andrebbero aiutati. Più in generale, il mondo dovrebbe trovare il modo di socializzare le spese di adattamento, recuperando lo “spirito di Rio”.

Quanto alla prevenzione, che consiste nella riduzione delle emissioni di carbonio e degli altri gas serra, occorre trovare strumenti che vadano “oltre Parigi”. Le opzioni possibili sono due. Una è in atto. Ciascun paese si muove in ordine sparso e con gli strumenti che ritiene migliori. L’Unione europea, per esempio, ha deciso in maniera unilaterale di ridurre entro il 2030 del 30% le emissioni di carbonio rispetto ai livelli del 1990. Ma Germania, Gran Bretagna e Francia si sono impegnate a raggiungere l’obiettivo di un abbattimento del 60-80% entro il 2050. La nuova Presidente della Commissione si è impegnata a far salire la soglia dell’abbattimento al 40% entro il 2030. Gli Stati Uniti di Donald Trump si sono ritirati persino dagli accordi di Parigi. Quanto alla Cina, ha deciso quantomeno di rallentare il ritmo delle proprie emissioni, aumentando l’efficienza energetica del suo sistema produttivo e modificando il suo sistema energetico.

Nessuno nega che ci sia una crescente consapevolezza, nei governi, dell’urgenza di agire. Tuttavia se ciascuno continua ad andare in ordine sparso il rischio che il passo complessivo sia lento e possa, sulla base delle contingenze politiche ed economiche, addirittura tornare indietro è altissimo.

Probabilmente non c’è alternativa credibile a un accordo equo ma vincolante sul modello del Protocollo di Kyoto che vada oltre Parigi. Il che significa assegnare al mondo intero un obiettivo chiaro, quello indicato dall’IPCC: contenere l’incremento della temperatura entro gli 1,5 °C. Nell’ambito di questo obiettivo generale, occorre definire per ciascun paese o gruppo di paesi una “road map” molto precisa, che tenga conto delle responsabilità storiche e delle emissioni pro-capite.

In realtà esistono studi più dettagliati, paese per paese, che tengono conto di tutti i parametri e che consentirebbero una riduzione equa ed efficace delle emissioni.

Ma occorrono tre componenti per realizzarle. Le indichiamo in ordine di difficoltà crescente.

1. Modificare il paradigma energetico e passare rapidamente, entro il 2030, dalle fonti fossili (carbone, petrolio, gas naturale) che ancora oggi soddisfano l’80% della domanda mondiale di energia, alla prevalenza delle fonti rinnovabili e “carbon free”. È in atto una sfida tecnologica in questo senso. Sia le tecniche di risparmio energetico sia le fonti rinnovabili – in particolare l’eolico e il solare – si stanno sviluppando a ritmi molto rapidi. La tecnologia è già disponibile. Ma può migliorare

2. Occorre non solo che si crei la volontà politica di realizzare gli obiettivi, ma che questa volontà si concretizzi in strumenti legali vincolanti. Occorre un nuovo Protocollo di Kyoto, molto più esteso e molto più stringente, negoziato sulla base dei principi di democraticità e di equità.

3. Tutto questo non basta se non viene messo in discussione il modello di crescita fondato sull’espansione dei consumi individuali di beni. Occorre andare – senza schemi rigidi, ma con determinazione – verso un modello di sviluppo senza crescita dei consumi di materia e di energia e con una più equa ripartizione della ricchezza tra le nazioni e all’interno delle nazioni.

Il futuro è nelle nostre mani. Ma non sarà facile catturarlo.


L'articolo fa parte di uno speciale più ampio sui cambiamenti climatici.

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