SOCIETÀ

Dal Niger ai confini polacchi: il lavoro sporco delle milizie private

Dopo, mai prima: quando un lavoro sporco è stato appena fatto, ecco spuntare in controluce il profilo dei mercenari del Gruppo Wagner. La loro specialità è addestrare milizie locali, oppure operare come sicurezza privata al soldo di capi di stato alla ricerca di una qualche stabilità. Ma all’occorrenza possono organizzare contro-insurrezioni, attacchi “false-flag” (sotto falsa bandiera) per provocare una reazione, fomentare o realizzare colpi di stato, spostando con ogni metodo, lecito o meno, gli equilibri regionali a tutto vantaggio del committente, di chi li paga. Accade da anni in ogni angolo di mondo, ovunque ci sia qualche interesse da tutelare per conto del Cremlino: dalla Siria alla Libia, dall’invasione capillare e ostinata nel continente africano (Sudan, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Burkina Faso, Zimbabwe, Mali) fino alla guerra in Ucraina, laddove, nel 2014, il Gruppo allora fondato dal neonazista Dmitrij Valer'evič Utkin mosse i suoi primi passi, nel Donbass, a sostegno dei separatisti filorussi contro le forze armate ucraine (un antipasto del conflitto tuttora in corso). Il loro marchio di fabbrica, oltre a una formidabile capacità logistica e militare, è: poche chiacchiere, pochissima visibilità e molta “sostanza”, il che spesso si traduce in crimini di guerra, conclusione a cui spesso sono giunti gli esperti chiamati a investigare sulle “missioni” di Wagner. Per citarne un paio: l’indagine indipendente condotta nel 2021 sul conflitto tra le forze armate del Mali contro i militanti legati allo Stato islamico. «Gli esperti dell’Onu - si legge nel report - hanno ricevuto resoconti persistenti e allarmanti di orribili esecuzioni, fosse comuni, atti di tortura, stupri e violenze sessuali, saccheggi, detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate perpetrate dalle forze armate maliane e dai loro alleati». Oppure la nota dell’intelligence tedesca, nella quale si sostiene che le truppe di Wagner avrebbero massacrato civili a Bucha, nel marzo 2022. Lavoro sporco, appunto: senza regole, senza “codici”. Quello che nessun esercito sotto bandiera potrebbe svolgere, almeno in teoria, impunemente. Invece così basta un nulla per prendere le distanze. Come fece Putin, nel 2020, parlando proprio del Mali: «Lo stato russo non ha nulla a che fare con gli appaltatori militari, ma il Mali ha tutto il diritto di lavorare con aziende private russe». Pochi mesi fa gli Stati Uniti hanno definito il Gruppo Wagner “un’organizzazione criminale transnazionale responsabile di diffuse violazioni dei diritti umani”.

L’ultima missione: il golpe in Niger

Ma non bastano certo le condanne internazionali per frenare l’avanzata di questo “esercito privato” (si calcola che siano tra i 25mila e i 50mila gli uomini complessivamente arruolati, ma le operazioni di reclutamento sono in continua evoluzione). Dove c’è un fronte “caldo”, con la Russia di mezzo, Wagner c’è. Dove c’è “cronaca”, la Wagner c’è. Come in Niger, recentissimo teatro dell’ennesimo colpo di stato che ha scosso il continente africano, il quinto dal 1960, quando la nazione dell’Africa occidentale ottenne l’indipendenza dalla Francia. Un golpe, peraltro, sostanzialmente immotivato (non c’erano particolari tensioni sociali o politiche che lasciassero ipotizzare), se non per interesse di alcune delle forze in campo.

Due parole per riassumere una situazione in rapidissima evoluzione: a deporre d’imperio il presidente eletto Mohamed Bazoum, lo scorso 26 luglio, è stato il generale Abdourahamane Tchiani, capo della guardia presidenziale, che si è poi autoproclamato “capo del Consiglio per la salvaguardia della patria”. Un evento che ha scatenato reazioni e preoccupazioni a livello internazionale: Stati Uniti, Unione Europea e Regno Unito hanno immediatamente bloccato qualsiasi forma di sussidio. L’Ecowas, la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (anche il Niger ne fa parte, assieme ad altre 14 nazioni), ha lanciato un ultimatum di una settimana ai golpisti per il ripristino dell'ordine costituzionale e del governo civile del presidente Mohamed Bazoum, non escludendo l’uso della forza (un’eventualità densa di pericoli) se ciò non dovesse accadere. Stati Uniti, Francia (che ha ritenuto di dover escludere un intervento militare) e Regno Unito hanno dato ordine immediato di evacuazione per i loro connazionali. L’Italia, che appena il 22 luglio scorso aveva annunciato lo stanziamento di 7,5 milioni di euro al Niger per cooperare “nella lotta al traffico di migranti e all’immigrazione irregolare nel Mediterraneo centrale” (per frenare in sostanza la migrazione dall'Africa sub-sahariana), potrebbe deciderlo a breve. La risposta di Mali, Burkina Faso, Guinea (tutte giunte “militari” insediate tra il 2020 e il 2022) e degli stessi golpisti del Niger è arrivata quasi in contemporanea, racchiusa in un comunicato congiunto, nel quale si annuncia che «qualsiasi intervento militare in Niger sarebbe considerato una dichiarazione di guerra».

Cosa c’entra la Wagner con tutto questo? Come al solito non c’è alcuna traccia esplicita del ruolo che il Cremlino o la sua squadra di mercenari abbiano avuto nella deposizione forzata del presidente del Niger. Ma circola un audio, attribuito a quello che viene considerato l’attuale capo della Wagner, nel quale Yevgeny Prigozhin celebra il golpe nigerino come «il risultato della lotta del popolo contro i colonizzatori, che hanno cercato di imporre le proprie regole di vita. Gli ex colonizzatori stanno cercando di tenere sotto controllo la popolazione degli Stati africani e riempiono questi Paesi di terroristi e bande di criminali, creando una colossale crisi di sicurezza». La successiva manifestazione inscenata dai sostenitori dei golpisti nelle strade della capitale Niamey, con tanto di sventolio di bandiere della Federazione Russa e i cori inneggianti a Vladimir Putin (era accaduto anche in Burkina Faso e in Mali, all’indomani dei rispettivi golpe), oltre all’assalto all’ambasciata francese, sembra riempire senza eccessivi margini di dubbio la casella “mandante”.

Putin e la “Russian belt” africana

Scriveva pochi giorni fa su Roape (Review of African Political Economy) l’analista Graham Harrison: «La presenza di Wagner e dei suoi affiliati in Africa segue una linea di faglia. Mozambico, Zimbabwe, Repubblica Centrafricana, Burkina Faso, Sudan e Mali possiedono ciascuno una storia presente o recente di perdita del controllo territoriale sovrano a causa di insurrezioni, recenti colpi di stato o cambi di regime instabili e interventi falliti o travagliati da parte delle organizzazioni occidentali. Wagner, e i progetti associati guidati anche da Yevgeny Prigozhin, hanno addestrato militari e milizie africane nella contro-insurrezione, servito come sicurezza privata per i capi di stato, svolto direttamente la contro-insurrezione, assicurato (e sfruttato) le risorse minerarie e fornito un'osservazione falsa ma legittimante delle elezioni. In sostanza, Wagner ha agito per privatizzare la sicurezza dello stato, combattere guerre "sporche" al di fuori dei codici di combattimento liberali stabiliti e produrre propaganda per regimi insicuri in carica».

Quindi c’è uno schema, lungo quella che in molti ormai definiscono la “Russian belt” (cintura russa) dell’Africa centrale. Basta unire i puntini, lungo la “linea di faglia” indicata da Harrison. Putin, al vertice africano della scorsa settimana a San Pietroburgo (dove un diplomatico della Guinea ha sfoggiato una camicia tempestata d’immagini con il volto del leader russo, per dire della sudditanza che sfiora il fanatismo), ha proposto la promozione di «un ordine mondiale multipolare per combattere il neocolonialismo», offrendo al tempo stesso la cancellazione di debiti pregressi e forniture gratuite di grano (la guerra in Ucraina ha provocato drammatici blocchi nelle forniture). Non è “generosità”, è business. Putin in cambio vuole il controllo di quelle nazioni, da un punto di vista militare e commerciale, tagliando fuori l’Occidente. Il Niger, per dire, è un paese assai povero, ma ricco di uranio (è tra i maggiori produttore al mondo, i primi sono Kazakistan, Namibia e Canada), metallo indispensabile per produrre energia e armamenti nucleari. Controllare quelle miniere potrebbe essere un bel jolly nelle mani del Cremlino.

La Polonia: “provocazioni” nel corridoio Suwalki

Ma il fantasma della Wagner non si aggira soltanto in Africa. Secondo quanto riferito pochi giorni fa dal primo ministro della Polonia, Mateusz Morawiecki, uno sparuto gruppo di mercenari della Wagner (si tratterebbe di un centinaio di uomini) si sta muovendo lungo il “corridoio di Suwalki”, una striscia di terra di 65 chilometri che corre lungo il confine tra Polonia e Lituania, che collega la regione di Kaliningrad, un’exclave russa che si affaccia sul mar Baltico, e la Bielorussia. «Abbiamo informazioni che più di 100 mercenari del Gruppo Wagner si sono spostati verso il corridoio Suwalki vicino a Grodno in Bielorussia», ha dichiarato Morawiecki, quasi a mo’ di avviso per gli alleati della Nato. «Molto probabilmente saranno travestiti da guardie di frontiera bielorussa e aiuteranno i migranti illegali a raggiungere il territorio polacco per destabilizzare la Polonia. Ed è anche possibile che loro stessi tenteranno di entrare nella nostra nazione fingendosi immigrati». La missione dei mercenari, secondo quanto riferisce il Centro di resistenza nazionale dell'Ucraina, sarebbe proprio quella di “organizzare provocazioni al confine della Bielorussia con la Polonia e la Lituania. La maggior parte dei terroristi appena arrivati ha esperienza nel contrabbando e nel trasporto di migranti illegali”. La presenza dei mercenari in Bielorussia è diventata palese dopo il fallito ammutinamento (almeno così continua a essere descritto, anche se i dubbi restano, visti i tempi e i modi del tutto inusuali) orchestrato lo scorso giugno dal capo della Wagner, Prigozhin, nei confronti dei vertici delle forze armate russe (chiedeva le dimissioni del ministro della Difesa Sergei Shoigu e del capo di stato maggiore generale Valeriy Gerasimov). Con il Ministero della Difesa di Lukashenko che l’11 luglio scorso annunciava l’impiego dei mercenari come “addestratori per l’esercito bielorusso”. Intanto la Polonia, dopo aver ribadito che i suoi confini “sono sicuri”, ha spostato diversi suoi contingenti militari a presidiare il lato est del paese, proprio per prevenire possibili minacce dovute all’azione della Wagner. Mentre ieri ha sostenuto che due elicotteri bielorussi (un Mi-24 e un Mi-8) avrebbero violato il suo spazio aereo (denuncia che Minsk ha smentito con forza, definendola “inverosimile”). L’analista politico bielorusso Valery Karbalevich, interpellato dall’emittente tedesca Deutsche Welle, ritiene che «…le minacce contro la Polonia facciano parte di un’elaborata messa in scena», per far apparire il presidente bielorusso Lukashenko come colui che è riuscito a dissuadere la Wagner dall’entrare in territorio polacco. Anche per Ryhor Nizhnikau, ricercatore senior presso l’Istituto finlandese per gli affari internazionali (FIIA), la minaccia di “sconfinare” in Polonia resterà tale: «Se i mercenari di Wagner attaccassero improvvisamente la Polonia oggi, non rimarrebbe molto di loro». Anche perché la mossa farebbe scattare in automatico l’articolo 5 del Trattato della Nato, sulla difesa collettiva, che recita così: “Se un alleato è vittima di un attacco armato, ogni altro membro dell’Alleanza considererà questo atto di violenza come un attacco armato contro tutti i membri e intraprenderà le azioni che riterrà necessarie per assistere l’alleato attaccato”. Al Cremlino di certo non converrebbe.

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